21 settembre 2010

«Usa: più lettere, meno tecnica»

«Sbagliato puntare tutto sul nozionismo pratico trascurando le scienze umane». Parla la filosofa statunitense Martha Nussbaum
di Elena Molinari
Società complesse e globali richiedono u­na preparazione complessa e articolata, soprattutto se vuole coltivare nei propri cittadini tolle­ranza, comprensione e democrazia. Eccessiva me­morizzazione, scarso uso della lettura per insegnare a pensare e accettazione passiva del contenuto dei libri di testo sono tutti ne­mici di questo processo.
Così come lo è trascurare storia, letteratura e filoso­fia a scapito di nozioni tecniche finalizzate al massi­mo rendimento professio­nale. La posizione pedago­gica di Martha Nussbaum, filosofa statunitense e do­cente di Legge ed etica all’Università di Chicago, non si allontanano di mol­to dalla tradizione liberal americana, che ha in odio il nozionismo passivo e a­borre un’eccessiva enfasi sulle scienze a scapito del­le arti. Nel suo libro Not for profit. Why democracy needs the humanities (Princeton University Press), la Nussbaum però porta l’argomento un pas­so più in là. Teme che l’e­strema importanza attri­buita a test ed esami per misurare il rendimento scolastico nella maggior parte dei Paesi democratici stia preparando una gene­razione mentalmente chiusa e non in grado di af­frontare i problemi filosofi­ci e politici del suo tempo.

A suo dire, «il futuro delle democrazie mondiali sta nel ritrovare l’equilibrio». Professoressa Nussbaum, cosa manca nell’istruzio­ne dei ragazzi di oggi? È un problema di contenuti o di metodo?
«Il contenuto è importan­te: tutti i giovani dovrebbe­ro apprendere gli elementi di base della storia del mondo e delle religioni, così come dovrebbero sa­pere come funziona l’eco­nomia globale. Ma è la pe­dagogia a insegnare loro capacità fondamentali co­me quella di discutere qualsiasi argomento con mente aperta e critica, e di mettersi nei panni altrui con spirito empatico. Que­ste non possono essere in­segnate attraverso una pe­dagogia che vede gli stu­denti come contenitori passivi da riempire di fatti. Devono invece essere eser­citate attraverso un inse­gnamento attivo e dialogi­co, di tipo socratico».

Le scienze umane a suo parere oggi vengono tra­scurate perché non consi­derate necessarie o perché si perdono nella necessità di insegnare dell’altro?
«È la concentrazione sul bisogno di accumulare 'capacità' piuttosto che cultura in nome del profit­to economico che spinge emarginare le scienze umane. Non è un caso, è un piano preciso».

Qual è la conseguenza principale della trascura­tezza delle materie uma­nistiche nelle scuole?
«Gli studenti non sviluppa­no capacità fondamentali per la salute di ogni nazio­ne democratica ed essen­ziali per la comunità mon­diale: criticare la tradizione e l’autorità, pensa­re come cittadini del mondo e im­maginare le condi­zioni di vita di per­sone di razze, reli­gioni e nazionalità diverse».

Che modello di in­segnamento pro­pone?
«Possiamo impara­re dai grandi edu­catori del passato, come Friedrich Froebel, John Dewey, e Rabindranath Ta­gore. Ma i loro insegna­menti devono essere tra­dotti nel mondo d’oggi».

Come Barack Obama ha fatto notare più di una volta, il sistema scolastico americano deve produrre professionisti in grado di competere con ingegneri cinesi o programmatori indiani, cresciuti in un ambiente finalizzato al rendimento economico. Insegnare lettere e arti può aiutare in questa competizione?
«In realtà anche la Cina ha scoperto che anche se lo scopo è solo potenziare la crescita economica, inse­gnare nozioni da ripetere ciecamente non produce buoni risultati. E ha intro­dotto una riforma del si­stema scolastico tesa a en­fatizzare la creatività e l’in­novazione, dove c’è un maggiore spazio per le arti e il dibattito critico – pur­ché non vada a toccare ar­gomenti politici. E la mag­gior parte delle scuole di business negli Usa sa da tempo che le scienze uma­ne sono essenziali per in­segnare la flessibilità e l’a­dattabilità ».

Ci sono Paesi che eccello­no nell’insegnamento che propone?
«I college e le università a­mericani vanno abbastan­za bene, grazie alla radica­ta tradizione liberal nell’insegnamento e all’indi­pendenza di queste istitu­zioni dalla politica e dai governi, oltre ai loro lega­mi con il mondo delle fon­dazioni provate. La Corea ha un ottimo sistema. Ma quanto alle scuole elementari, medie e soprattutto superiori, le condizioni non sono buone nella maggior parte dei Paesi democratici».

Lei ha scritto che un’istru­zione equilibrata deve in­segnare a vedere gli altri come 'anime' piuttosto che come mezzi utili al proprio avanzamento. Non è esattamente il con­trario di quello che s’impara usando siti di networking sociale, dove le altre persone sono stru­menti per costruire il pro­prio status in società?
«Mi disturba molto il mo­do in cui internet induce a trattare le persone come cose. Sto per pubblicare u­na collezione di saggi sul tema: 'Internet offensiva: libertà di parola, privacy e reputazione' in cui esplo­ro con un collega possibili rimedi legali al problema.
Uno può essere rendere i siti internet responsabili del loro contenuto, anche dei commenti. Se un giornale pubblica una lettera che contiene insulti e menzogne diffamatorie, può essere querelato. Un sito no. Ma anche la scuola ha un ruolo importante nel discutere gli effetti di internet».

Qual è lo scopo finale di un’educazione liberale e umanistica: creare un in­dividuo completo ed equi­librato o un buon cittadi­no che si impegni a favore della giustizia sociale?
«Entrambe le cose. Io mi concentro però sul concet­to di cittadinanza, perché credo che sia qualcosa su cui tutti si possono trovare d’accordo».
«Avvenire» del 21 settembre 2010

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