16 settembre 2010

Una laicità positiva per 'smontare' il burqa

La legge approvata in Francia e le sfide per l'Europa
di Giorgio Paolucci
Dall’anno prossimo in Francia diventerà reato indossare il burqa nei luoghi pubblici. È la prima legge in Europa, ma il Belgio prepara un provvedimento analogo e in altri Paesi del continente, tra cui l’Italia, crescono le voci a favore di misure analoghe. C’è chi plaude al rigore transalpino, chi evoca guerre di religione e chi lamenta la discriminazione di una minoranza invocando libertà di espressione.
Va chiarito anzitutto che né il burqa, che copre integralmente il volto femminile, né il niqab, che lascia solo una fessura all’altezza degli occhi, sono prescrizioni religiose musulmane. Non ve n’è traccia nel Corano e neppure nella Sunna, la raccolta di detti di Maometto che è punto di riferimento per molte legislazioni nazionali. Indossarli è una consuetudine diffusa soprattutto negli Stati della penisola arabica e in Afghanistan – dove prevalgono le tendenze salafite che predicano il ritorno alle origini – e negli ambienti del radicalismo sempre più influenti in Europa. Più che di un simbolo religioso, dunque, si deve parlare di un simbolo identitario di carattere ideologico. Non è un caso che il burqa sia stato vietato in Tunisia e in Turchia e che nel novembre del 2009 l’allora rettore dell’università Al-Azhar, Mohammad Sayyed Tantawi – considerato la più alta autorità religiosa in Egitto – abbia sconfessato il niqab dicendo a una studentessa che lo indossava: «È solo una tradizione, non ha nessun legame con l’islam». Né è un caso che proprio ieri, sempre da Al-Azhar, sia arrivato un ammonimento da parte di un membro dei consiglio dei religiosi, Abdel Muti al-Bayyumi: «Voglio mandare un messaggio ai miei fratelli musulmani in Francia e in Europa: il burqa non ha basi nell’islam, io rimango costernato ogni volta che vedo donne musulmane indossarlo. Questo non darà certo una buona impressione della religione musulmana». Più chiaro di così… La decisione del Parlamento francese na­sce dall’intenzione di riaffermare un prin­cipio fondamentale della cultura occiden­tale – l’uguaglianza tra l’uomo e la donna – di fronte a quello che viene ritenuto un segno di sottomissione. Da anni la Francia si misura con l’onda lunga del radicalismo islamico che sta facendo proseliti tra gli immigrati delusi dal fallimento delle pro­messe di égalité e dalla mancata integra­zione. È in questi ambienti che si alimenta il germe del fondamentalismo, e il burqa viene eretto a simbolo di una irriducibile alterità identitaria in opposizione ai valori occidentali. Cosa che preoccupa gli stessi ambienti musulmani moderati francesi, che temono l’avanzata delle posizioni più oltranziste all’interno di un 'pianeta' che conta 5 milioni di fedeli.
La legge entrerà in vigore solo nella prima­vera dell’anno prossimo, dopo un periodo di sperimentazione necessario sia per te­starne la reale applicabilità (sono molti i dubbi espressi in proposito dai sindacati di polizia), sia per favorire un’opera di sensibilizzazione da svolgere all’interno delle comunità musulmane, anche da parte dei loro leader religiosi. È dunque u­na doppia sfida quella che si sta giocando Oltralpe: lo Stato lancia un segnale forte in difesa dei valori repubblicani, ma nello stesso tempo si rende conto che il solo di­vieto ha il fiato corto e rischia di produrre una radicalizzazione nell’islam francese.
Il dibattito è ovviamente tracimato anche in terra italiana, dove peraltro vige da tem­po una normativa di pubblica sicurezza che vieta di indossare in luoghi pubblici indumenti e oggetti che impediscano il ri­conoscimento del volto. Basterebbe dun­que far rispettare in maniera rigorosa que­sto divieto, anche se c’è chi ritiene neces­sario un provvedimento legislativo specifi­co a fronte di un costume che si sta diffon­dendo in maniera preoccupante e segnala la lunga marcia di certo radicalismo isla­mico anche alle nostre latitudini. Staremo a vedere. È comunque auspicabile che la discussione rimanga sul piano di una po­sitiva laicità e non degeneri in una guerra di religione. Anche perché, come abbiamo visto, il cuore della vicenda non è di natu­ra religiosa. Si tratta di salvaguardare l’or­dine pubblico e di promuovere una cultu­ra che sia insieme di rispetto reciproco, di tutela della dignità della donna e della sua effettiva parità con l’uomo. Senza dimen­ticare che i divieti si riveleranno realmente efficaci solo se accompagnati da un’opera di educazione che deve coinvolgere le co­munità musulmane che hanno messo ra­dici in Italia, nel segno di una cultura au­tenticamente inclusiva.
«Avvenire» del 16 settembre 2010

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