29 settembre 2010

Sakineh dalla pietra alla corda

di Lucia Annunziata
Qualcosa si muove persino a Teheran. La condanna a morte per lapidazione inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana accusata di adulterio e omicidio, è stata commutata in condanna a morte per impiccagione. Ridicolo, certo, sostenere che si tratti di un passo avanti, eppure lo è. Lo è innanzitutto perché prova che l’indignazione internazionale viene sentita dal pure sprezzantissimo governo di Teheran.
Ma, proprio a questa svolta della vicenda, è bene riconoscere anche che, dopo che gli Usa hanno eseguito la condanna a morte per Teresa Lewis, il caso Sakineh ha assunto per noi un’ulteriore valenza. Il leader Ahmadinejad pochi giorni fa ha equiparato Stati Uniti e Iran di fronte all’uso della pena capitale, e questa similitudine ha lasciato una grande inquietudine nelle coscienze di molti cittadini delle nostre democrazie. Val la pena dunque di ribadire, esattamente ora che la storia umana di Sakineh può ancora svoltare, ora che si può ancora sperare di salvarla, perché non c’è parallelismo possibile, nemmeno davanti allo stesso strumento, la pena di morte, fra Usa ed Iran.
Sono contraria, come la maggior parte degli italiani (l’Italia è leader nella campagna contro la pena di morte) alla condanna capitale; ma i modi e i contesti della sua amministrazione sono rilevantissimi. Attraverso di essi infatti si rappresenta il sistema giuridico di cui tutti usufruiamo.
Non sono dunque indifferenti il percorso attraverso cui è stata condannata Sakineh né il tipo di morte.
La lapidazione è una antica forma di punizione, e fin dall’antichità ha sempre avuto caratteri legati a crimini che coinvolgono la sessualità: è la punizione per prostitute, adultere, omosessuali, oltre che apostati e assassini. Dunque, sia pur non esclusivamente, è punizione per eccellenza del sesso debole. Differenza che si sottolinea persino nell’esecuzione. Credo sappiate come avviene: il condannato viene seppellito in una buca nel terreno, fino alla vita gli uomini, fino al busto le donne, avvolto in un lenzuolo fino al capo: se è donna però il volto rimane scoperto. Chi abbia mai visto uno dei crudeli video di lapidazione che ogni tanto emergono dai Paesi in cui la punizione è praticata (o anche solo tollerata) sa che differenza fa vedere o meno le ferite profonde stamparsi sul volto di chi subisce il martirio. Non è un caso che i Paesi in cui questa pena capitale si pratica sono tutti musulmani: Iran, Nigeria, Arabia Saudita, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Pakistan, Afghanistan e Yemen, dove vige un diritto strutturato intorno alla legge coranica. In Iran, ad esempio, la lapidazione è stata riammessa dopo la rivoluzione del 1983, ed è ancora oggi la nazione in cui è praticata da più lungo tempo, con una procedura studiata in modo che il decesso non avvenga a seguito di un solo colpo: la legge prevede infatti che «le pietre non devono essere così grandi da far morire il condannato al solo lancio di una o due di esse; esse inoltre non devono essere così piccole da non poter essere definite come pietre».
È in questa impostazione del processo, della visione del crimine, e del concetto di diritto individuale del cittadino/\a che è maturato il caso Sakineh. In una giustizia in cui vige la incertezza della difesa e l’abuso della forza di uno Stato rivestito di principio etico assoluto. Il processo subito dalla donna, le motivazioni della sua condanna, persino le prove di quel che ha fatto sono incerte - e se la lapidazione nella sua estrema brutalità rende evidente questo abuso del diritto, l’abuso del processo rimane anche ora che lo strumento della condanna diventa la corda e non la pietra. Del resto è questo il problema della giustizia in Iran - e lo abbiamo visto ripetutamente al lavoro negli ultimi anni nei confronti dei dissidenti: la disobbedienza è punita come principio, e la sua repressione non ha nessun limite se non la soglia che serve alla conservazione dello Stato. Che si usi poi la esecuzione per via di botte in carcere, la sparizione senza ritrovamento del cadavere, o la esecuzione in piazza via squadre speciali, è indifferente - i modi sono, appunto, il disvelamento della supremazia dello Stato/\religione sul diritto dell’individuo.
Possiamo dire altrettanto della giustizia in Usa? Non è perfetta, anzi è densa di discriminazioni di classe e di razza. Ma è un sistema che ruota intorno al pieno riconoscimento dei diritti del cittadino e ampio equilibrio di contrappesi perché essi vengano rispettati. Contrappesi interni - il tipo di processo -, ed esterni - la possibilità della opinione pubblica di sapere, conoscere, e dissentire.
Alla fine certo, una pena di morte è una pena di morte. Teresa Lewis e Sakineh hanno davanti a sé la fine della loro vita. Ma, almeno, ai nostri occhi rimarrà la differenza sul dubbio dell’innocenza, fra l’essere vittime o meno: per Teresa sappiamo che ha avuto la possibilità di potersi difendere, per Sakineh siamo certi di no. E siccome la giustizia garantisce (o meno) tutti noi, non è differenza da poco, per tutti noi, sapere di avere una certezza di giudizio nell’incerto mondo in cui viviamo.
«La Stampa» del 29 settembre 2010

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