21 settembre 2010

Riviste letterarie: non c'è futuro senza «manifesti»

di Antonio Spadaro
«Attaccate così, con le forcelle ai fili tesi da un lato all’altro del botteghino, le riviste mensili, quindicinali, settimanali ti dànno l’impressione dei panni al sole»: così veniva introdotta nel primo numero di 'Letture', nel lontano ’46, la 'Rassegna delle riviste', cioè una serie di brevi recensioni non di libri ma di… riviste, appunto. L’immagine delle riviste come panni stesi al sole accompagna dunque un’intuizione straordinaria: esse sono portatrici di una visione del mondo che va 'recensita', cioè valutata. Se una rivista non porta in sé una visione della realtà è carta straccia. Non c’è alcun bisogno di ricordare la funzione essenziale che hanno svolto nel nostro Paese le riviste culturali. Nei primi anni del nostro Novecento e tra le due guerre mondiali, hanno rappresentato un luogo vivo e inquieto di scambio, incontro e scontro culturale, di valori e di idee. Il termine 'rivista' deriva dal verbo 'rivedere' e indica il compito di confrontare, esaminare, giudicare. Le riviste hanno ancora senso? Se rimangono fedeli al loro compito di 'revisione' del mondo culturale sì. E oggi più che mai. Per questo esse non devono trasformarsi in un contenitore di materiali disparati, come spesso oggi accade, ma possedere una 'chiave segreta' di valutazione, cioè criteri e metodi. Il vero rischio di una rivista letteraria, ad esempio, è di avere come riferimento un astratto criterio di 'qualità' di un testo che pubblica o recensisce. Qualità significa poco: bisognerebbe capire (e dichiarare) quali sono gli elementi che compongono il concetto di 'qualità' che, in sé, è del tutto neutro. Le riviste generaliste non servono, se non a fare da contenitore anonimo. Le scelte qualitative hanno senso solo se partono da una precisa idea del bello, dell’arte, del rapporto tra arte e vita, del rapporto tra tecnica e ispirazione, un’idea che sia anche comunicabile e su cui ci si possa confrontare. Ogni rivista degna di questo nome nasce sulla base di una progettualità di grande respiro. Non si tratta ovviamente di far proclami, ma certamente di avere una coscienza critica attiva, capace di dichiarare gusti e prospettive. La rivista non può essere una 'piazza' aperta a contributi di ogni segno e genere. Se infatti questa disponibilità può apparire come una scelta liberale, segno di apertura mentale, in realtà non lo è affatto perché rischia di essere una scelta che tradisce la vocazione propria della rivista. Uno dei motivi per cui essa oggi non è più pensabile come 'piazza' di dibattito aperto, contenitore di posizioni disparate, è internet. La stampa oggi è soltanto una delle possibilità di pubblicazione. Se una volta la notizia, l’informazione, veniva da ciò che era stampato, oggi anche grazie alla Rete, le notizie vengono da una molteplicità di fonti: non c’è, dunque, carenza di piazze aperte perché la Rete ha (fortunatamente) abolito gli steccati. Ma, proprio per questo, la rivista 'neutrale', 'aperta', perde di significato. Riemerge invece l’idea della rivista come espressione di una comunità di ricerca, espressione di un 'comitato scientifico', di una casa editrice, di una scuola di pensiero, di un gruppo di persone che esprimano una visione del mondo condivisa. C’è bisogno oggi di idee, di visioni angolate, di tagli prospettici sul mondo culturale; forse persino di 'manifesti'. Più una rivista si fa portatrice di una visione della realtà, più essa avrà senso, interesse, utilità. Più una rivista si propone con un progetto culturale indistinto, indefinito, 'aperto' a tutte le idee, più è costretta all’irrilevanza. O, se è rilevante, lo diviene a causa di questa o quella firma particolare che viene ritenuta valida. E questo è il contrario di quell’idea alta di rivista intesa come laboratorio collettivo di idee, che è l’unica poi ad avere davvero senso.
«Avvenire» del 21 settembre 2010

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