29 settembre 2010

Nel bello l’incontro con i gentili

Nel «cortile» dove s’incontrano credenti e non l’esperienza della bellezza può disporre a «pregare»
di Vittorio Possenti
La bellezza nutre profonda­mente le nostre vite. È un pa­ne senza di cui non potrem­mo continuare ad esistere: alimen­ta, sorregge, dà vita e speranza. La verità, il bene, la bellezza e perfino Dio si gustano in modo analogo a come si gusta una vivanda: il signi­ficato del gustare qualcosa si esten­de dall’ambito sensibile a quello spirituale. Inoltre tale verbo inclu­de un terzo significato traslato; il sapere come intelligenza, senno, sapienza, per cui il sapiente è colui che conosce, che ha gustato il sa­pore dell’essere, nel suo aspetto gioioso ed in quello deludente («Ecce in pace amaritudo mea amarissima»: il salmista ha gustato l’amarezza dell’esistenza). Il brutto uccide, infligge tristezza e depres­sione. L’uomo, anche quello di oggi così frettoloso e poco contemplati­vo, ha una profonda sete di bellez­za, spesso inappagata da quanto a prima vista ci assedia. Invece la bellezza fa uscire da noi stessi, co­munica una scossa che ci trasporta oltre il quotidiano e risveglia, a­prendo nuove dimensioni. Noi sia­mo nella gioia se viviamo in un mondo in cui la bellezza naturale e quella creata dall’uomo si congiun­gono (Roger Scruton). Un mondo in cui esistono cose belle è un mondo che rende possibile accet­tare di esistere, e sperare in una meta al di là di quanto appare. L’ar­te e la bellezza operano una corre­zione del mondo che noi avvertia­mo come manchevole, imperfetto, transitorio, e perfino sfigurato. La glorificazione della bruttezza e del cattivo gusto che da tempo accom­pagna il nostro cammino di uomi­ni postmoderni è un segnale di de­clino verso il disumano, verso ciò che sfigura l’uomo. Dobbiamo rea­gire a questa deriva educandoci e­steticamente e moralmente. Se è vero che Dio nella città secolare ap­pare lontano, diventa ancor più ne­cessario inseguire il bello e farne qualcosa la cui fruizione ricordi a che cosa siamo destinati. Ci ram­memori che nel sensibile è presen­te un richiamo all’oltre, all’aldilà del mondo, a ciò che ora appare in enigma ma che poi verrà: un tema che segna un filo rosso dai Greci a noi. Già nel Simposio platonico in­contriamo la profonda affinità tra la bellezza e il divino: «Mentre il brutto discorda rispetto a tutto ciò che è divino, il bello è con esso d’accordo». Analogamente Edgar Allan Poe, per il quale l’arte e la poesia non sono un semplice ap­prezzamento della Bellezza che è di fronte a noi, ma uno sforzo quasi selvaggio di raggiungere la Bellezza che è al di sopra di noi. «Ispirati da un’estatica prescienza delle glorie oltre la tomba, lottiamo per rag­giungere una parte di quella Ama­bilità i cui elementi stessi, forse, appartengono all’eternità sola. E così, quando per o­pera della Poesia ci trovia­mo sciolti in lacrime, non piangiamo allora per ec­cesso di piacere, ma per un certo dolore, petulante e impaziente, per la nostra incapacità di afferrare ora, interamente, qui sulla ter­ra, una volta per sempre, quelle gioie divine ed esta­tiche, delle quali attraverso la poe­sia o attraverso la musica non at­tingiamo che visioni brevi e impre­cise » (The Poetic Principle). A Poe fa eco Charles Baudelaire: «È esso, è questo immortale istinto del bello che ci fa considerare la terra ed i suoi spettacoli come un riflesso, come una corrispondenza del cie­lo » (L’Art romantique). Nella bellezza finita vi è dunque un presagio dell’infinito, un rinvio costante del­l’una all’altro, di cui dice meravi­gliosamente una poesia di William Blake: «Vedere un mondo in un granello di sabbia / E il cielo in un fiore selvaggio / Tenere l’infinito nel palmo delle tue mani / E l’eter­nità in un’ora». L’arte può evange­­lizzare, operando nel cortile dei gentili. «Io penso che la Chiesa do­vrebbe anche oggi aprire una sorta di 'cortile dei gentili' dove gli uo­mini possano in una qualche ma­niera agganciarsi a Dio, senza co­noscerlo e prima che abbiano tro­vato l’accesso al suo mistero». Con queste parole Benedetto XVI apre grandi orizzonti e tocca un nodo sensibile della situazione spirituale di oggi. Il tempio antico doveva es­sere casa di preghiera per tutti i po­poli, secondo la parola di Isaia ri­presa da Gesù (Mc 11, 17), che sgomberò l’atrio del tempio da af­faristi inopportuni in modo che i gentili proprio lì potessero pregare l’unico Dio. Altrettanto deve fare la Chiesa nel rispondere alla ricerca di Dio nella nostra epoca secolariz­zata e scientistica: aprire cioè un nuovo versante di attenzione verso agnostici ed atei, per i quali Dio è lontano, estraneo, irrilevante. Ora nel cortile dei gentili largo spazio dovrebbe essere destinato ad atti­vare l’esperienza del bello che con­duce ad ammirare e, distogliendo lo sguardo dal deforme e dal nega­tivo, dispone a pregare. Secondo Tommaso d’Aquino la bellezza è denotata da tre caratteri: integritas, consonantia, claritas (integrità, ar­monia, chiarità). L’integrità dell’in­tuizione artistica, l’armonia o con­sonanza delle parti nel tutto, e la claritas che è il risplendere di una forma su una materia ben propor­zionata sono sempre e dovunque gli immortali caratteri della Bellez­za. Essi depongono in noi anche un appello all’integrità morale, a quel­la armonia delle parti che conduce all’equilibrio, a quella chiarità di luce che richiama l’irraggiamento del bene.
Da Platone a Poe, da Baudelaire a Blake, non si contano gli esempi di quanti hanno colto il nesso profondo tra la gioia estetica e la forza morale
«Avvenire» del 29 settembre 2010

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