03 settembre 2010

L’uomo uccide: non è colpa del maschilismo

di Marcello Veneziani
Gira e rigira, tornano sempre al femminismo. Per spiegare la catena funesta di delitti contro le donne, uno al giorno, Dacia Maraini sul Corsera, Michela Marzano su la Repubblica e un esercito di donne pubblicanti sui quotidiani d'impegno, ricorrono alla solita vecchiotta spiegazione, diversamente modulata: è il maschio spossessato (...) (...)che non sopporta l'emancipazione femminile e allora torna dispotico, cruento e primitivo.
La tesi è facile, ideologicamente comoda per loro, ma non convince. Perchè non considera tre o quattro cose. La prima obiezione elementare è che la società era infinitamente più maschilista negli anni Settanta quando il femminismo era più virulento, mentre delitti di questo genere con questa impressionante sequenza, si vedono invece quarant'anni dopo, quando molte di quelle rivendicazioni che all'epoca sconcertavano, sono diventate ormai orizzonte comune. La seconda è che non si considera affatto, per ovvie ragioni ideologiche tipiche del politically correct, che un'influenza di questa brutalizzazione dei rapporti semmai è venuta dalla presenza nella nostra società di immigrati provenienti da mondi che non sono affatto portati a riconoscere diritti alle donne; la forza dell'emulazione non è da trascurare e non sono pochi i casi di violenze alle donne da parte di immigrati, anche se non sta bene dirlo.
Ma la terza e più importante considerazione è che l'uccisione della donna, nella gran parte dei casi, non è l'affermazione di un predominio ma di una disperazione, non è il segno della podestà maschile ma della sua impotenza, non indica possesso ma abbandono, non è maschilismo ma terrore della solitudine.
Se dovessi tentare una formula riassuntiva per spiegare questa catena di delitti direi: è la sindrome del bambino perduto che si vendica perchè crolla il suo mondo e la sua nutrice. Il femminismo aggressivo ed espansivo dei nostri anni, unito alla regressione anche numerica dei maschi e perfino al destino genetico di scomparsa e di tramonto che viene copiosamente descritto attraverso quelle X e quelle Y inquietanti, ha intimidito i maschi li ha portati alla fuga, sulla difensiva, col timore di competere o in cerca di surrogati, come l'omosessualità o la transessualità. Ma li ha portati soprattutto a restar bambini, perchè avvertono il peso della fragilità e della dipendenza.
Il rapporto assoluto con la donna, che è poi alla base di questi delitti, non nasce dalla mancata tolleranza dell'emancipazione femminile, se non in apparenza; nasce piuttosto dal sentirsi bambini abbandonati da madri considerate crudeli agli occhi patologici dei loro partner-figli. Non è in discussione il ruolo della donna, ma al contrario, è una conseguenza del ruolo accresciuto della donna che produce questa dipendenza tossica fino al crimine, del bambino perduto. Abituati da una società fondata sulla centralità del desiderio e sulla permanenza del gioco infantile, a non dover rinunciare a niente, non possiamo accettare l'idea che chi ci tiene al mondo possa andar via e abbandonarci. Non è tanto il dramma della gelosia, e tantomeno il delitto d'onore a risalire dai meandri della nostra antica matrice, quanto questo trovarsi soli in mare aperto, dopo aver affidato alla donna il ruolo di barca, di skipper e di bussola. Anche quando il rapporto formale era ancora segnato dalla finzione dei ruoli, lui masculo sovrano, lei femmina concupita e succuba, in realtà il rapporto era invertito. Perchè quel che segna il dominio non è il grido di possesso o la forza muscolare, che è solo scena e cerimonia; ma il grado di dipendenza. Chi più dipende dall'altro più è subordinato all'altro.
Arrivo perciò a dire che si è trattato forse di una rivolta degli schiavi, i maschi, a cui è stato tolto il pane della loro vita. È quella la vera debolezza, far dipendere la propria vita da un'altra persona; impensabile per un vir delle società maschiliste e patriarcali. Il delitto d'onore o passionale del tempo remoto era la punizione per aver infranto un ordine, per una ribellione al potere maschile, per rimediare alla vergogna, ad una brutta figura sociale. Qui il movente appare un altro, non è la considerazione del giudizio altrui o l'esigenza estrema di ribadire la gerarchia tra il maschio e la femmina, non è la punizione per aver infranto una sovranità indiscutibile. Ma è l'estrema fragilità di chi dice: se te ne vai tu è finita la mia vita, ti uccido e mi uccido. Non sottovalutate che solitamente il progetto di uccidere l'ex partner si accompagna al desiderio di uccidersi. Perchè non si sopporta l'idea del carcere e del vituperio generale, sì, è vero. Ma soprattutto perchè la mia vita senza di te non ha più senso, muoia Sansone con la filistea.
Questo non è maschilismo ma infantilismo tragico, delirio puerile, la ferocia dei deboli. Il re maschio per antonomasia non dipende dalla sua donna, la punisce magari ma poi continua la sua vita. Qui non è così, perchè non si tratta di vir ma di puer. Il femminismo è il comodo alibi, il nuovo luogo comune o codice di sicurezza per rassicurare le pigrizie mentali e gli schemi ideologici dei nostri tardo-progressisti. E così vien fuori il maschio leonino che ruggisce e sbrana per comandare. O come, scrive la Marzano, «il declino dell'impero patriarcale». Una trama buona per vecchi film o per cartoni animati, non per la realtà presente, pervasa da nichilismo e solitudine, capricci e disperazione, insicurezza e rigurgiti d'infanzia. Perchè mi hai abbandonato? È il grido che risuona nelle metropoli, nelle periferie e nei paesi e qui parlano ancora di maschilismo.
«Il Giornale» del 15 luglio 2010

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