02 settembre 2010

Le due sventurate che risposero

Ogni giorno, nel mese di Agosto, la serie di «Avvenire»: quest’anno gli scrittori reinventano personaggi e classici della letteratura
di Paola Pitagora
«Tra le distinzioni e i privilegi che erano stati concessi alla Signora per compensarla di non poter esser badessa c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno dei tanti che in quei tempi e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano fino a un certo segno ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare, o girandolar lì per ozio, allettato anziché atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso ... la sventurata non rispose…».

Si ritirò in tutta fretta stringendo il cordone della cintola, non senza aver rivolto una seconda occhiata al giovane incorniciato dalla finestrella che le parve un nunzio dell’inferno, un lucifero bellissimo e tentatore. Nel vòto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere una vita potente. Gertrude fuggì nella sua stanza a prepararsi per l’orazione della sera, ma venne assalita da una violentissima febbre. Quello era uno stato dell’intero suo essere, oltre che un attacco di malasalute. Una gentile conversa l’assisteva, con pezze fredde e pannicelli, unitamente agli infusi delle buone sorelle. Quando ancora nella fase del delirio, Gertrude prese a implorarla di andar nell’orto e nel caso si fosse affacciato Egidio – del quale aveva appena inteso il nome, ma che per lei era la forza che l’aveva scombussolata – lo informasse del suo stato e gli consegnasse un biglietto sigillato a ceralacca. La conversa ubbidì, pur sapendo il rischio. La poveretta, di nome Eusebia, fu abbagliata a sua volta dalla bellezza arrogante e dal fare strafottente del fascinoso Egidio, e quando egli la pregò di condurlo fino alla stanzetta di Gertrude per consegnarle un mazzetto di fiori, non seppe dire no. Dallo spioncino occhieggiava, la conversa, la più dolce e raffinata lezione d’amore che l’immaginazione mai avrebbe saputo suggerirle. E il gioco andò avanti per giorni. Gertrude che si avviava ad una guarigione lenta lenta, stentava ad uscire per riprendere le attività del chiostro, la cella era divenuta il rifugio protetto dei suoi convegni. E la conversa, buona guardiana, le teneva bordone simulando il protrarsi delle terapie. Ma una sera, nel percorrere il viottolo ombroso e il lungo corridoio per accompagnare il cavaliere innamorato, accadde uno sfiorarsi, una complice stretta fra i due giovani, e senza quasi accorgersi, ma avendolo a lungo vagheggiato nel presonno, Eusebia finì a sua volta travolta da passione. Allo spregiudicato, non pareva vero di cogliere due tortorelle allo stesso tempo, l’una rinfocolando, l’altra spegnendo, rinvenendo in entrambe differenze ed inaspettate somiglianze. Ah, le ore volavano in quell’angolo del chiostro, e la conversa arrossiva, mentre aspettava di condurre Egidio, anelando una mercede che sapeva due volte proibita e tre volte peccato: spaventata, nel sentirsi insorgere una femminea rivalità nei confronti della Signora , come a volte solevano chiamare Gertrude, i cui capricci le monache sopportavano alla meglio. Gertrude qualcosa fiutava riguardo ai due, e a precise domande Egidio replicava con un riso che era indispensabile controllare la conversa, «tenerla sotto», questa la frase, affinché non tradisse. Quel gioco proibito, la perigliosa e magnifica consuetudine, ebbe di colpo a cessare quando la madre superiora volle far visita a Gertrude, senza preavviso. Il focoso Egidio venne richiuso in una madia dove ristette a lungo e per poco non soffocava: le due donne morte di paura, giurarono che mai più avrebbero corso un tal pericolo e la Signora, finalmente ristabilita, riprese la vita conventuale, con qualche rapida scappata, ma gestita in proprio e in ore notturne. Con l’appressarsi dell’autunno, la conversa e Gertrude si ritrovarono un poco appesantite nelle forme e di straordinario appetito: si scrutavano, l’una cogliendo nell’altra strani sintomi. E quando, nonostante le strette fasciature fu impossibile nascondere l’evidenza, compresero in un attimo senza dirselo, che solo aiutandosi e coprendosi a vicenda avrebbero potuto tenere il convento al riparo dallo scandalo. La loro amicizia solidale, che tale non era, appariva alle sorelle accettabile considerati i frequenti malori della Signora, e per i restanti mesi le due monache fecero vita a sé. Quando venne il tempo, l’una partorì nella propria stanza assistita da Eusebia, mentre quest’ultima, all’appressarsi della scadenza, simulò una grave malattia della madre e ottenne un permesso. Nel giro di due settimane, due rosei neonati furono rinvenuti nella ruota, che per fortuna girava in tondo e non rivelava da quale raggio venisse il frutto della provvidenza: le monache li accolsero con giubilo e li accudirono con amore, in attesa che qualche buona famiglia li adottasse. I fratellini cinguettavano nel giardino claustrale, e la Signora si mostrava carezzevole e manierosa verso entrambi. Le suore si rallegravano di quel cambiamento felice. In quei mesi fu tutto un prodigarsi con moine, a mostrare amore e dedizione e a sentirsi escluso era proprio il bellissimo Egidio, che riprese a frequentare rissose amicizie ed osterie. Finì accoltellato e quando lo seppero, Gertrude a la conversa piansero calde lacrime ciascuna nella riservatezza della propria cella. Se fino a quel momento una complice discrezione le aveva accomunate, quando la Signora vide Eusebia affranta e con gli occhi rossi, sbottò irritata: la conversa non poteva atteggiarsi a vedova, coltivando un dolore che non le spettava e, a quel punto, iniziò a perseguitarla. Ma il momento peggiore fu quando i bambini vennero affidati ad una famiglia di contadini, con annessa una dote, e venne meno quel convergere di affetti e attenzione. La Signora ricadde nell’umor nero, nell’avversione per il chiostro, per la regola, l’ubbidienza. Tornavano a farsi sentire l’imprecazione e gli scherni per la prigione claustrale, in un linguaggio insolito in quel luogo e anche in quella bocca. I dispetti verso Eusebia si moltiplicarono come fosse stata la poveretta, causa di tutta quella tempesta, fino a minacciare, Gertrude, di rivelare tutto alla badessa. Terrorizzata, la conversa, non potendo pensare di competere con una qualsiasi versione dei fatti fornita dalla Signora, sentendosi colpevole e financo non autorizzata a soffrire, iniziò a perdere il lume della ragione e pronunciando parole oscene, urlava sotto la finestrina di Egidio e chiamava a gran voce chi non poteva rispondere. Rinchiusa per diversi mesi, fu sedata con infusi sapienti, finchè direttamente dal Vescovo non giunse l’ordine di trasferirla in altro convento, e precisamente in Olanda, presso consorelle in grado di aiutarla. Fu così che una grigia mattina, in punta di piedi e senza lacrime, Eusebia se ne partì per il paese dei mulini a vento.
«Avvenire» del 14 agosto 2010

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