25 settembre 2010

Il mondo globalizzato che cancella le parole

Bilanci mondiali
di Massimo Gaggi
Dove sono finite le parole (e gli obiettivi) della globalizzazione
«Global warming», ingerenza umanitaria, «cap & trade», energia nucleare, assistenza ai Paesi poveri, accoglienza degli immigrati, perfino «free trade», il libero commercio. E anche la Wto, la sua organizzazione totem. Sono molte le parole della globalizzazione che, considerate fino a qualche anno fa chiavi magiche verso un futuro migliore, stanno diventando - tra recessioni, crisi internazionali, scontri commerciali, rivolte degli elettori - oggetti assai difficili da maneggiare. Alcune sono state parcheggiate in attesa di tempi migliori, in altri casi i governi cercano espressioni nuove per riprendere le fila di una politica nella quale credono ancora, ma che è stata screditata dall’uso di espressioni ormai invise all’opinione pubblica. Per altre il destino finale sembra quello del cestino. Vent'anni di globalizzazione dell’economia, di rivoluzioni del mercato del lavoro, di dibattiti sulla tutela dell'ambiente, di sviluppo delle energie «pulite» e di impegni nella lotta contro le malattie e la povertà, hanno prodotto molte speranze, alcuni risultati positivi, però anche molte delusioni. Quelle sul fronte ambientale le abbiamo viste sfilare di recente: dalle grandi promesse di accordo, di una nuova Kyoto, formulate proprio nella sede dell’Onu un anno fa, al fallimento della conferenza mondiale di Copenaghen. Mentre negli Stati Uniti il presidente «verde» Barack Obama ha dovuto rinviare sine die il suo piano contro l’«effetto serra» osteggiato non solo dall’opposizione repubblicana, ma anche dai democratici dei non pochi Stati americani la cui economia si basa sul carbone. Su tutto, poi, l’incertezza per le polemiche esplose nel mondo scientifico sull’attendibilità dei dati relativi al global warming. Intanto, la sensazione ormai sempre più diffusa che energia solare ed eolica daranno contributi importanti ma non risolutivi nonostante l’elevato volume di risorse investite in questi settori, ha riportato alla ribalta l’energia nucleare: quella che fino a ieri era una «bestemmia», ora trova spazio anche nei programmi di molti gruppi che hanno a cuore la tutela ambientale. Dalla tutela dell’ambiente a quella dei popoli: il sostegno agli interventi di ingerenza per motivi umanitari si è ridotto man mano che queste missioni si sono rivelate non risolutive ed estremamente costose. Almeno negli Usa, oggi, a metterle in discussione sono le stesse associazioni della sinistra liberal secondo le quali l’America non può più pretendere di essere il «poliziotto etico del mondo». Da qui un approccio maggiormente multilaterale e negoziale di Obama che moltiplica i tavoli di discussione sulle varie crisi, da quelle mediorientali al Sudan. Ma l’Occidente che dà lezione sui diritti umani, non sa poi come uscire dalle contraddizioni sulle crisi economiche e sociali interne che lo spingono ad assumere posizioni più rigide sui fenomeni migratori e sul sostegno economico ai Paesi più poveri. In questi giorni, alla conferenza dell’Onu che ha fatto il bilancio della lotta contro la povertà lanciata nel 2000 con gli Obiettivi del Millennio, sono emerse le molte inadempienze del Nord del mondo, ma anche la scarsa capacità dei Paesi emergenti di prendere in mano il loro destino. Le promesse sono state reiterate, gli oratori hanno riversato torrenti di dati, spesso presentando aiuti già stanziati o addirittura erogati come nuovi impegni. E la vecchia parola d’ordine dell’aiuto ai poveri, se non accantonata, è stata quantomeno sempre più affiancata dalla richiesta di «responsabilità». Come ha detto con efficacia il cancelliere Angela Merkel, l’aiuto dell’Occidente continuerà, però i Paesi del Terzo mondo devono imparare a prendere in mano il loro futuro. Se la povertà sta calando, infatti, ciò dipende non tanto dagli aiuti governativi quanto dall’effetto positivo di alcune iniziative filantropiche private (come quelle contro le malattie e la siccità in Africa); e soprattutto dal successo di alcune economie asiatiche, Cina in testa, che, conquistando una grossa fetta del commercio mondiale, hanno dato un lavoro a centinaia di milioni di loro cittadini, strappandoli alla miseria. Un processo che, tuttavia, ha alterato profondamente il mercato del lavoro, creando crisi in Occidente, acuite dal fatto che i principi del free trade sono stati alterati da forzature di ogni tipo: dalle manipolazioni della valuta cinese, ai vincoli ai quali vengono assoggettate le imprese europee e americane che sono entrate nei mercati asiatici. Così la fiducia dei lavoratori nel libero mercato ha cominciato ad essere scossa anche nell’America liberista. E Obama, come già Bush, trova enorme difficoltà a portare avanti accordi di libero scambio che un tempo erano l’abc della politica commerciale Usa.
«Corriere della Sera» del 23 settembre 2010

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