09 settembre 2010

Il coraggio della felicità

Vita e finzione. Il bisogno d’amore: non si vive di solo odio
di Alessandro Piperno
Tolstoj, Balzac, Fitzgerald: i grandi insegnano a crederci
Una ricetta per uscire indenne da un truce pomeriggio estivo in città è pensare agli amici. Immaginarli in sovraffollate spiagge alle prese con bambini pestiferi e mogli assetate di sangue. La spaventosità della loro condizione è un ottimo diversivo.
Ma alla lunga anche certi malevoli pensieri si rivelano insufficienti. L’altro giorno ci ha pensato Italia Uno a salvarmi la vita. Regalandomi l’insperata epifania di tre film, ciascuno in modo diverso un classico anni Ottanta: Sapore di mare dei fratelli Vanzina, Il segreto del mio successo con Michael J. Fox. E a chiudere, Guerre stellari.
Guardarli uno di seguito all’altro mi ha donato l’entusiasmo peloso - venato di commozione e autoironia - da cui ti senti invaso quando ti trovi faccia a faccia con una parte di te scomparsa per sempre: una felicità andata in fumo.
Bisognerebbe scrivere sul frontespizio dello scatolone della felicità il titolo che Scott Fitzgerald diede a uno dei suoi famosi saggi autobiografici: Attenzione, fragile. Non è forse quel tipo di felicità lì - delicata e intermittente - che chi scrive e chi legge non smette mai di inseguire? O almeno questo capitava una volta, agli albori, diciamo così, della narrativa, fino a quando, a un certo punto, la felicità ha smesso di godere di ottima stampa. Quando un pregiudizio moralistico ha iniziato a demonizzarla. Quando i letterati hanno spostato la loro austera attenzione su sediziosità sociologiche, miserabili constatazioni strutturali, facinorose dispute politiche.
Questo fu il trauma che patii quando all’inizio degli anni Novanta iniziai a studiare letteratura all’università. Erano tutti così seriosi e risentiti. Leggere per il gusto di identificarsi era una pratica disdicevole, da sradicare dalle teste e dai cuori delle poche riottose matricole.
Che cosa diavolo stava succedendo?
«Alle quattro, col batticuore, Lévin scese dalla vettura al giardino zoologico e si avviò per una stradina verso le montagne russe e il campo da pattinaggio, dove sapeva con certezza che l’avrebbe trovata, perché aveva visto la carrozza degli Scerbàckij all’ingresso».
Confido che i fanatici di Tolstoj abbiano riconosciuto uno dei passi più emozionanti di Anna Karenina. Quando Kostantin Lévin va al campo di pattinaggio per incontrare Kitty. Nessuno ha saputo descrivere con tanta vivida potenza l’emozione di un giovane uomo innamorato che sta per rivedere l’oggetto della sua passione. Non c’è dettaglio (le quattro del pomeriggio, il cielo terso dell’inverno, tutto quel bianco sfavillante, il cik-ciak della neve sotto le scarpe e lo stridio dei pattini sul ghiaccio) che non partecipi con fervore quasi religioso all’imbarazzante felicità da cui Lévin si sente invaso.
Ed ecco invece come Balzac, in Papà Goriot, dà conto dell’emozione che anima il giovane Rastignac a un passo del primo grande trionfo sessuale: «Ci sono emozioni che non si incontrano due volte nella vita dei giovani. La prima donna veramente tale di cui si innamora un uomo, quella cioè che gli si mostra nello splendore degli attributi che la società parigina richiede, non ha mai rivali. L’amore com’è a Parigi, è del tutto diverso dagli altri amori».
Anche qui, proprio come nella scena tolstoiana, c’è un’identificazione perfetta tra un ragazzo e il luogo di sogno in cui si è ritrovato. Se là c’era una pista di ghiaccio alle quattro di pomeriggio, qui c’è Parigi: la Parigi del faubourg Saint-Germain, la Parigi di Balzac.
Certo, non ha quasi senso paragonare Lévin a Rastignac. A ben vedere i due non si somigliano in niente. Il secondo se la sogna la magnanimità del primo, per non dire del suo conto in banca. Si potrebbe persino ipotizzare una relazione tra gli alti sentimenti di Lévin e la sua solidità patrimoniale, relazione non meno profonda di quella che intercorre tra la meschinità di Rastignac e la sua indigenza. Eppure ciò che li accomuna è l’aspirazione alla felicità. E il fatto che i loro sommi creatori non provino alcun ritegno nel raccontarla. A costo di essere pacchiani. A costo di esporsi al ridicolo.
E tuttavia mi piace notare come le felicità così splendidamente pregustate da Lévin e Rastignac stiano per essere negate ad entrambi da un concatenarsi di circostanze sfavorevoli. Sia Lévin che Rastignac dovranno aspettare un sacco di tempo per tornare a godere quel tipo di felicità. E quando essa tornerà non avrà più un sapore immacolato e primigenio. D’ora in poi per i nostri eroi solo felicità di seconda mano.
Il dato beffardo della felicità è che essa non è mai in diretta ma, in un certo senso, sempre in differita. Ed ecco perché di fronte a certe grandi felicità romanzesche assistiamo alla realizzazione di una specie di discrasia temporale. L’ineffabilità della felicità è sancita dal rapporto che si stabilisce tra l’eroe del romanzo e il lettore. L’eroe del romanzo - Lévin o Rastignac - è lì tutto preso dalla voluttà che sta per assaggiare. E dall’altra parte della barricata c’è il lettore che sa che si tratta di una voluttà trascorsa: qualcosa che, sebbene sulla carta debba ancora avvenire, altrove e in altro tempo è già avvenuta. Questo produce nel lettore una specie di nostalgia: una nostalgia per ciò che deve ancora capitare e che, in uno strano paradosso, è già capitato. La nostalgia che conosce chiunque sia stato felice almeno una volta nella vita. Non è proprio questo il dato assurdo della felicità? La sua incapacità di essere contemporanea - esiliata com’è nel passato e nell’avvenire -, che produce, persino in chi la assapora, la preventiva delusione per qualcosa che si va sbriciolando?
Ed ecco perché la letteratura, molto più della vita, è il luogo deputato alla felicità. Se la felicità per sua stessa natura è anacronistica allora nessuno meglio del lettore (un essere condannato a vivere nel passato o proteso nel futuro) è più adatto a goderne i frutti troppo acerbi o già avvizziti. Tanto più perché la felicità, in presa diretta, è insostenibile, invivibile.
In un racconto di Mishima dedicato al sodalizio omoerotico tra Cocteau e Radiguet troviamo scritto: «Era una vita che precipitava a una velocità spaventosa verso la catastrofe. Era una vita spaventosa. Eppure non potevamo viverla in un altro modo».
Sì, c’è sempre qualcosa di catastrofico nella felicità. Scott Fitzgerald (campione olimpico nella specialità «felicità perdute»), in uno scritto degli anni Trenta, nel ricordare con struggimento l’euforia da lui vissuta un decennio prima, scrive: «New York aveva tutta l’iridescenza del principio del mondo. (…) La nostra era una grande nazione e c’era ovunque aria di gala». Notate come lo spirito edenico con cui Fitzgerald parla di New York non è troppo diverso da quello con cui Balzac parla di Parigi. E notate anche come, nel sentirli parlare delle loro rispettive città elettive, il nostro cuore sia appesantito dal sospetto di essere al cospetto di qualcosa di irripetibile e di irrimediabilmente compromesso. Ruderi pieni di vita.
Occorre notare, infine, che gli scrittori capaci di realizzare felicità così paradisiache sono di solito gli stessi in grado di fornirci gli scenari più mostruosi e apocalittici: Tolstoj, Balzac, Proust, Fitzgerald, Nabokov… E questo di certo non è un caso. Solo chi ha una così vivace familiarità con il Paradiso può essere così terrorizzato dall’Inferno.
Ma allora perché, se tutto questo è vero, la letteratura ha rotto il suo sodalizio millenario con la felicità? Cosa è successo? George Steiner, parlando del cattivo carattere di Thomas Bernhard commenta: «Il guaio dell’odio è che ha il fiato corto. Là dove l’odio produce un’ispirazione autenticamente classica - in Dante, in Swift, in Rimbaud -, lo fa con delle folate su breve distanza. Quando si protrae, diventa una sega monotona e mal affilata che ronza e stride senza fine. L’ossessiva, indiscriminata misantropia di Bernhard, le filippiche contro l’Austria ventiquattr’ore su ventiquattro minacciano di vanificare i loro stessi scopi».
Che non sia Steiner, al solito, a mettere il dito sulla piaga? Non si vive di solo odio. Lo sdegno perpetuo alla fine diventa un vezzo. Se la vita, nella migliore delle ipotesi, è un’alternanza tra euforia e disperazione, allora anche la letteratura deve esserlo. La letteratura deve dare conto delle intermittenze del cuore. Solo così riesce a essere grande. Per questo ho sempre trovato intollerabile, quasi illeggibile, 1984 di Orwell. Un libro tetro, privo di gioia. Persino Dostoevskij, persino Kafka sono capaci di fervide seppur momentanee felicità. Orwell ne è completamente incapace. L’ideologo uccide a ogni riga il romanziere.
Insomma la ricetta è nella felicità. È grazie ad essa che - in un ipotetico campionato mondiale tra pesi massimi - Catullo e Orazio vinceranno sempre su Giovenale, Proust non smetterà mai di sbaragliare Céline e Tolstoj non avrà mai rivali. Proprio perché anche l’odio, la disperazione, l’indignazione ogni tanto hanno bisogno di un po’ di relax.

Classici
Il classico romanzo sulla ricerca frustrata della felicità di Lev Tolstoj è Anna Karenina (Classici Einaudi, pp. 888, € 11); da una prospettiva differente affronta il tema del desiderio insoddisfatto anche Honoré de Balzac in Papà Goriot (Rizzoli Bur, pp 318, € 7,40). Lo scrittore americano Francis Scott Fitzgerald, in un periodo di crisi esistenziale, descrisse l’effimera conquista della felicità nel saggio Attenzione, fragile, contenuto nella trilogia de Il crollo (Adelphi, pp. 64, € 6). La raffinata descrizione delle «intermittenze del cuore», o «epifanie», strettamente legate alla felicità trascorsa, è contenuta in Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (Oscar Mondadori, 8 volumi, pagine 3.850, € 70).
«Corriere della sera» del 16 agosto 2010

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