26 settembre 2010

Fatta l'Italia, abbiamo fatto anche l'italiano?

L'alfabeto quotidiano
di Elisabetta Rasy
Nell’onda di notizie – tante, eterogenee, dal macabro al futile – che la cronaca ogni giorno ci butta addosso obbligandoci a un non facile esercizio di selezione, ogni tanto si creano delle associazioni contraddittorie o dei cortocircuiti: qualcosa, nel collegamento tra una notizia e l’altra, non funziona, c’è un contrasto. Mi è successo qualche giorno fa: in una pagina la buona notizia, una mostra speciale intitolata 'L’Italia dei libri', che sarà allestita al prossimo Salone di Torino in occasione dei centocinquant’anni dell’Unità e dedicata alla grande trasformazione della produzione editoriale nella nazione unita; qualche pagina più in là, invece, la cronaca di un grido di dolore: linguisti, pedagogisti e anche esperti di statistica denunciavano la scarsa o scarsissima padronanza della lingua italiana da parte delle giovani generazioni.
Quando, nel febbraio del 1861, si riunì il Parlamento della nuova nazione non bisognava soltanto «fare gli italiani», secondo la celebre espressione che da allora divenne un refrain della nostra storia unitaria. Bisognava anche «fare l’italiano», costruire cioè la lingua unita del nuovo Paese. Ma in questo ambito non si partiva dal vuoto: c’era un patrimonio linguistico nazionale che non aveva nulla da invidiare alle bellezze naturali e al retaggio artistico della nuova patria. Con un senso forte della tradizione (pensiamo a Italo Calvino che rilegge le fiabe italiane, a Giorgio Manganelli che rilegge Pinocchio) e, fino a un certo punto, con i nuovi mezzi di commercio e comunicazione quel patrimonio si è mantenuto e arricchito. Poi il boomerang – come altro chiamarlo? – cioè degrado, miseria, sciatteria, maleducazione verbale. Ma si sbaglierebbe a pensare che il lamento sullo stato della lingua sia il vezzo di una élite di puristi o di esteti dei quartieri alti del mondo culturale. Gli esperti che hanno valutato i temi degli studenti degli ultimi esami di maturità hanno soprattutto suonato l’allarme su un aspetto: non la sintassi, la grammatica, neppure il lessico – povero e incerto – ma l’incapacità di costruire e sostenere un ragionamento. Intonare una lingua significa infatti intonare un pensiero e anche intonare un’etica: per questo ha un senso celebrare i libri dell’Italia unita come parte essenziale del processo di integrazione nazionale. E per questo lasciare andare in rovina una lingua ha lo stesso effetto di devastazione che hanno l’incendio di un bosco, l’avvelenamento di un fiume o la rovina di un celebre monumento: non una questione puramente estetica, ma una questione umana e morale. Se la lingua che parliamo diventa qualcosa di simile a una discarica del vero italiano, in che razza di inquinamento vivranno le nostre menti?
Probabilmente – auspicabilmente – per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia ci saranno altre manifestazioni dedicate al tema del patrimonio linguistico. È inutile prendersela sempre con la scuola o con gli insegnanti o con la tv, se istituzionalmente non si ha e non si manifesta l’orgoglio di una memoria e il senso di un pericolo da combattere. Speriamo dunque che celebrando la storia di questi centocinquant’anni si celebri anche e molto quella sua essenziale componente che è la lingua. E certamente la mostra al salone di Torino è fin da ora un buon segnale. A meno che. A meno che la parola anniversario non finisca con l’assumere quell’ambiguo senso che le attribuì una volta uno che di lingua se ne intendeva, il già citato Manganelli. «È possibile – scriveva nel 1974 (ora nel volume Adelphi Il rumore sottile della prosa) – che nel nostro bizzarro amore per i centenari si nasconda un che di simile al rimorso». Con timori anche peggiori, cioè che «quei periodici armistizi che sono i centenari» non finiscano col rappresentare soltanto «una sorta di compromesso» nei confronti di un passato concepito come «un tenebroso guardaroba colmo di oggetti mortificati e taciturni». E la nostra tradizione linguistica non assomiglia sempre di più a quel genere di guardaroba?/span>
«Avvenire» del 26 settembre 2010

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