20 settembre 2010

Dopo Tucidide e Camus, chi ha colpa della peste?

Per fortuna che c’è la Grazia
di Sergio Givone
Contingenza e colpa sono due categorie disomogenee, asimmetriche - asimmetria rovesciata, direi. Ma solo se messe l’una di fronte all’altra mostrano la loro intera portata. Il concetto di colpa appartiene all’etica solo fino a un certo punto: infatti il colpevole sa che «ne deve rispondere, la deve pagare», ma la colpa scende per così dire più a fondo, nella dimensione del religioso, alludendo a qualcosa come a un destino, mio o di tutti, che dobbiamo sopportare anche se non ne siamo consapevoli e se non lo abbiamo scelto noi. Il concetto di contingenza a sua volta si riferisce a eventi o a un insieme di eventi che sono ma potrebbero non essere (o non sono ma potrebbero essere) e dunque appartiene all’ambito del possibile e non del necessario; tuttavia questa nozione è precisamente quella che apre lo spazio di comportamenti dov’è in gioco il senso del nostro essere al mondo e cioè la possibilità di agire liberamente dove tutto sembra governato da causa ed effetto all’interno del cosiddetto «grande meccanismo universale».
Cominciamo dal concetto di colpa. Cercando di approfondire il tema alla luce del concetto di contingenza. Colpa in greco si dice amartia. Che significa: mancare il bersaglio. Fare ciò che non si voleva. Ecco: poteva accadere, anzi, poteva esser fatto qualcosa che non doveva esser fatto ma è stato fatto, e io ho un bel giustificarmi: in fondo l’ho fatto io, l’ho voluto io, anche se non lo volevo. E ho un bel dichiarare che no, non lo volevo: in realtà più o meno oscuramente volevo e addirittura «me la sono voluta», come suol dirsi, e più lo nego più aggiungo colpa (menzogna) alla colpa (errore colpevole, delitto).
Di questo concetto esiste nel mondo greco una figura, una metafora inquietante: la peste. Quella che incombe su Tebe, e di cui è 'colpevole' Edipo, che non è colpevole, eppure lo è; quella di cui narra Tucidide, e che poi Lucrezio svolgerà in versi sublimi portando l’argomento sul piano filosofico e osservando che la peste è un fatto naturale, gli dei non c’entrano, eppure sull’uomo grava un destino di morte e di annientamento che è il suo destino ­donde una impressionante processione, da Boccaccio a Defoe a Manzoni a Camus, tutti a interrogarsi su questo destino che incombe su di noi a partire dalla peste.
Ma al di là di queste concezioni romanzesche e visionarie esiste anche una vera e propria teoria della colpa, che trova la sua prima e più profonda formulazione nel famoso frammento di Anassimandro: «principio degli esseri è l’infinito… da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Che è come dire: hai goduto della luce del sole: paga.
Calderón dirà, e poi Schopenhauer: non c’è colpa maggiore che l’essere nati. Sullo sfondo la rottura dell’ordine cosmico (la contingenza) che apre alla responsabilità individuale per qualcosa che è di tutti.
Il cristianesimo traduce amartia con peccato: anche peccare significa mancare il bersaglio, fare quel che non si voleva o comunque non si doveva, salvo che la responsabilità non è più verso gli altri uomini (i quali «pagano l’un l’altro» secondo Anassimandro), ma verso il principio stesso, verso Dio in quanto padre di tutti. Donde l’idea della solidarietà di tutti nella colpa così come nella sofferenza. Di questo concetto la figura esemplare è quella della caduta o peccato originale; qui l’accento cade sulla libertà più che sulla fatalità, ma la trasgressione avviene non solo in una dimensione di contingenza, ma estende questa contingenza a tutti facendo tutti responsabili di tutto nei confronti di Dio. A partire dalla 'seconda natura' o natura corrotta o volontà iniqua che ci fa volere anche quel che non vogliamo. Donde il problema della predestinazione. La teologia cristiana sempre di nuovo si interroga sul fatto che siamo responsabili di ciò che non solo non abbiamo voluto e tuttavia vogliamo, ma di ciò che grava su di noi come un destino.
Il filosofo che porta questi temi al punto di massima problematicità, è Leibniz. Il quale distingue verità di ragione e verità di fatto, sostenendo che le verità di fatto in Dio coincidono con le verità di ragione, ma non per questo cessano di essere contingenti, libere, liberamente volute o non volute dagli uomini, poiché Dio può benissimo sapere che l’uomo compirà in libertà ciò che per così dire sta scritto ab aeterno. Vedi Adamo. Che decide di peccare. E una volta che ha deciso, sempre di nuovo decide così: anche all’inferno. Sia l’ottimista Leibniz sia il pessimista Anassimandro aprono al tragico. Che cosa c’è di più tragico del peccatore che «vuole» l’inferno che lo tormenta o dell’incolpevole che «paga» per il fatto d’essere venuto al mondo?
«Avvenire» del 19 settembre 2010

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