19 settembre 2010

Dire quello che non si fa

Il Festival italiano delle parole (vuote)
di Giovanni Belardelli
Molti anni fa un grande storico, Franco Venturi, definì il fascismo come il «regno della parola», appunto per il peso sempre maggiore che vi aveva acquistato la dimensione oratoria fatta di proclamazioni altisonanti e retoriche. Quella stessa definizione si applica altrettanto bene all’Italia di oggi, alla sua vita politica fatta sempre più di formule e di parole, di provvedimenti annunciati con grandi fanfare ma che poi si perdono nei meandri di Montecitorio o Palazzo Madama (Sergio Rizzo ha provato a farne un elenco sul Corriere del 10 settembre).
In nessun Paese come il nostro, ad esempio, si esalta tanto la famiglia e si proclama la necessità di sostenere le coppie con figli attraverso misure ad hoc. Ma nella realtà il sostegno effettivo dello Stato alle famiglie ha dimensioni risibili, soprattutto se paragonato alle misure messe in campo da Paesi come la Francia e la Germania. Cose analoghe si potrebbero dire riguardo al tema del merito: non c’è politico di destra o di sinistra che non affermi la assoluta necessità di ripristinare criteri meritocratici nella scuola e nel mondo del lavoro; ma l’esperienza quotidiana di ciascuno permette di verificare come l’affermazione del merito sia avvenuta soltanto nel mondo delle parole e come nella realtà continuino invece a contare soprattutto le appartenenze e i legami politici, familiari, clientelari.
Tutto questo, certo, ha molto a che fare con la politica spettacolo, con la società della comunicazione (e dell’apparenza) in cui viviamo, insomma con fenomeni non soltanto italiani. Ma se la vacuità e l’autoreferenzialità del discorso politico ha raggiunto da noi un’estensione particolare, questo rimanda anche a tratti profondi della nostra storia. Forse, se nella politica italiana le parole hanno tanta importanza, è anche perché soprattutto dalle parole è nato un secolo e mezzo fa lo Stato nazionale. In un saggio di vari anni fa uno studioso francese distinse le nazioni europee in «classiche» e «romantiche». Le prime erano scaturite dall’azione politica e militare di grandi monarchie, condotta attraverso i secoli; in questo senso, quelle nazioni erano «figlie della realtà». Le nazioni romantiche, invece, nate grazie al ruolo decisivo del dato culturale, grazie spesso a un’opera di vera e propria invenzione artistica e letteraria, gli apparivano «figlie della poesia ». Per i modi e i tempi in cui si è formata come Stato nazionale, l’Italia appartiene evidentemente alla seconda categoria, è figlia di una lunga storia culturale venuta a contatto nell’800 con l’immaginazione del nazionalismo romantico («La messe raccolta da Cavour è quella seminata da Dante», scrisse uno storico del nazionalismo).
L’Italia è nata insomma dalle parole, e non avrebbe potuto essere altrimenti giacché le genti della penisola avevano avuto una storia assai diversa da quella di Francia o Inghilterra. Ma l’esser nati in questo modo ha probabilmente segnato la nostra cultura, ha subito lasciato in eredità al Paese una propensione a vivere prigioniero della dimensione fatata delle parole.
Una propensione italiana che le stesse grandi ideologie del ’900, per definizione poco permeabili ai dati di realtà, avrebbero successivamente alimentato. Tutto questo non vuol dire che oggi dobbiamo considerarci condannati a essere governati o da una «cultura del fare», come quella evocata dal presidente del Consiglio, che in realtà appare poco in grado di affrontare i problemi del Paese; oppure da un’opposizione per la quale il riformismo (come ha indicato Angelo Panebianco, Corriere di ieri) sembra non riuscire a essere altro che una parola. È qui che dovrebbero intervenire le qualità della leadership politica, la sua capacità di recuperare un rapporto con la realtà e affrontare davvero le grandi questioni italiane. Purtroppo, almeno per il momento, di leader politici che possiedano una tale capacità non se ne vedono molti.
«Corriere della Sera» del 19 settembre 2010

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