03 settembre 2010

Classico assente: cercalo sotto il contemporaneo

di Daniele Piccini
Da alcuni giorni è maturato su giornali di rilievo (dal «Corriere della Sera» al «Sole 24 Ore») un dibattito meno vacuo di quanto non accada di solito intorno allo stato della nostra letteratura e della nostra critica. Berardinelli, Ferroni, Guglielmi muovono dalla rilevazione di una scarsa qualità delle scritture narrative, dalla trasformazione del romanzo da genere letterario a genere merceologico, dalla conseguente ipertrofia quantitativa e dalla difficoltà della critica a far fronte a numeri tanto estesi. Ognuno usa toni propri e diverse sono, soprattutto, le risposte. Berardinelli insiste sulla democraticità della lettura e quindi sulla fine dell’epoca del giudizio. Ferroni invita a una comprensione profonda del fenomeno per sopperire all’«angoscia della quantità». Guglielmi crede che nonostante tutto al critico sia ancora possibile tentare delle ricognizioni, mentre il dibattito che ne segue, anche sul web, cerca di buttarla in confusione, proponendo un inutile conflitto tra critici e scrittori. A ben guardare, il dato più interessante è la sostanziale concordia di opinioni sulla situazione in essere, confermata su «Avvenire» dal bell’intervento di Massimo Onofri. Se è forse inutile addossare la responsabilità dello stato di cose a una delle entità astratte o corporative in questione (il Mercato, la Critica, gli Scrittori), è invece stimolante interrogarsi su come il difficile puzzle di una nuova stagione umanistica possa ricomporsi. In fondo, la letteratura creativa e la critica soffrono le medesime condizioni e costrizioni e non si vede come la loro contrapposizione possa scioglierne i nodi. Piuttosto, proprio muovendo dalle comuni difficoltà, occorrerebbe una sorta di delicata e paziente collaborazione, una alleanza progettuale e operativa a favore di una nuova coscienza della lavorazione dei testi, della loro lettura e persino della possibilità di giudicarli. A tutti è evidente una sorta di volatilità del romanzo contemporaneo, che fatica a depositarsi, a fare storia, a collegarsi a un’idea di tradizione e a rilanciarla. Con ciò stesso, i romanzi sfornati a getto continuo sembrano in certa misura equivalersi. Ma chi dice che la critica e il romanzo debbano accettare questa direzione inerziale? Critici e scrittori di qualità dovrebbero, credo, tornare a riflettere sulla stoffa dei classici, antichi o moderni che siano: cioè ripartire da un’esperienza di scrittura e di lettura risanante, organica, esemplare. Infatti trovare occasioni di incontro e di riflessione sul terreno di opere fondanti, da assumere non come feticci, ma come organismi vivi, nati dentro una storia, un sentimento della lingua e della realtà, potrebbe ricreare le condizioni perché il Classico Assente torni a essere possibile. Si tratta di rimettere la elefantiaca contemporaneità in un virtuoso circuito con la vicenda letteraria, il suo decantamento, il suo stratificarsi. Lo scipimento della parola scritta mi sembra che sia il rischio incombente, che riguarda tutti e a tutti chiede risposte, non semplici o polarizzate, ma piuttosto coraggiose e collaborative.
«Avvenire» del 2 settembre 2010

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