09 settembre 2010

Carne, anima e sacra violenza: in scena Flannery O'Connor

Stasera a Rimini la vita e la malattia della grande scrittrice nell'opera teatrale La parola è dei pavoni
di Giuseppe Centis
«Se la vita ci soddisfacesse, fare letteratura non avrebbe senso»: questa frase di Flannery O’Connor rimbalza al Meeting di Rimini, risuonando nella piéce La parola è dei pavoni e campeggiando all’ingresso della mostra L’infinita misura del limite, dedicata alla grande e non ancora totalmente scoperta scrittrice americana. Nata a Savannah (stupenda cittadina francese sull’Oceano, quella di Mezzanotte nel giardino del bene e del male) nel Sud degli States, in quella terra orgogliosa e dura che ha dato i natali anche a William Faulkner ed Erskine Caldwell, Flannery ha vissuto vita breve attraversando con i suoi occhi blu e con un sorriso ironico i danni che un lupus ereditario (che l’ha stroncata nel 1965) hanno prodotto sul suo fisico, non intaccandone il carattere e neppure la straordinaria scrittura. Contesto storico, vita e opere della O’Connor sono raccontate con affetto e approfondimento sia nello spettacolo che nella mostra del Meeting, offrendo finalmente uno sguardo attento a questa scrittrice cui in Italia si sono dedicati in periodi diversi Fernanda Pivano, Ida Ombroni, Luca Doninelli e Davide Rondoni. Ed è proprio merito di quest’ultimo se una giovane studiosa di teatro, Francesca De Stefanis - fresca vincitrice del Premio Flaiano under 35 per il Teatro - ha costruito la rappresentazione che va in scena stasera al Meeting, una fabula su un pezzo di vita reale, vale a dire il rapporto epistolare che la Flannery ebbe con una giovane universitaria. «Sono rimasta affascinata dalla personalità della O’Connor così come emergeva nelle sue opere e nelle sue lettere - racconta l’autrice -, il tramite di questa scoperta è stato Rondoni, che mi ha aperto alla conoscenza di colei che ritengo una delle scrittrici più importanti del secolo scorso, donna fortissima, capace di farsi ascoltare da tutti, dotata di grande ironia e in grado di esprimere la concretezza di una fede non staccata dai fatti della vita».
Nata nel '25, la Flannery ha vissuto il fulcro della sua attività letteraria nell’immediato dopoguerra, osservando la scomparsa di quel South religioso che era da due secoli la radice spirituale degli States, il permanere delle violenze razziste, la nascita della Southern Christian Conference di Martin Luther King (che nella vicina Atlanta aveva casa e chiesa). Costretta dalla malattia ad abbandonare la carriera universitaria e la vita in luoghi più centrali rispetto alla produzione culturale americana, la O’Connor ha vissuto circa vent’anni a Milledgeville, agreste angolo di Georgia, allevando pavoni nella fattoria di famiglia, alternando periodi di dolore fisico e di pesanti cure mediche, ad altri ricchi di serenità.
Proprio qui, tra prati e animali da cortile, si svolge la piece della De Stefanis, interpretata da Tamara Bartolini negli abiti della studentessa che scopre da Flannery un mondo di carne e anima. Amata ancora oggi negli States dai grandi non allineati di letteratura e musica - da James Lee Burke a Cormac McCarthy, da Tom Russel a Joe Ely - la O’Connor è una scommessa vinta dal Meeting, che ha riservato nella sua libreria una scelta vastissima dei capolavori della scrittrice della Georgia, da Il cielo è dei violenti a La saggezza del sangue a La schiena di Parker, pagine e pagine su cui domina il suo spirito secco, ironico, vicino per molti versi a quello del cattolico britannico Evelyn Waugh. Come ricorda la mostra di Rimini, nel 1955 durante una cena tra intellettuali di fronte all’affermazione che l’eucarestia è un simbolo, Flannery sbottò: «Se l’eucarestia è un simbolo, allora che se ne vada al diavolo. L’eucarestia per me è il centro dell’esistenza, tutto il resto è sacrificabile». Forse per questa nettezza in molti hanno preferito dimenticarla.
«Il Giornale» del 24 agosto 2010

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