20 settembre 2010

Abbondanza frugale

Di cosa parliamo se parliamo di felicità
di Serge Latouche
Bisogna risalire alla seconda metà del '700 per trovare le origini del pensiero economico che fa coincidere il «benessere» statistico con il «ben avere», sebbene nello stesso periodo l'illuminista napoletano Antonio Genovesi avesse sottolineato la necessità di una economia fondata sulla ricerca del bene comune. Temi che si ripropongono oggi con grande urgenza e che richiedono l'elaborazione di nuovi codici e regole. L'anticipazione di un intervento a Pordenonelegge
Per concepire e costruire una società di abbondanza frugale e una nuova forma di felicità, è necessario decostruire l'ideologia della felicità quantificata della modernità; in altre parole, per decolonizzare l'immaginario del pil pro capite, dobbiamo capire come si è radicato.
Quando, alla vigilia della Rivoluzione francese, Saint-Just dichiara che la felicità è un'idea nuova in Europa, è chiaro che non si tratta della beatitudine celeste e della felicità pubblica, ma di un benessere materiale e individuale, anticamera del pil pro capite degli economisti. Effettivamente, in questo senso, si tratta proprio di un'idea nuova che emerge un po' ovunque in Europa, ma principalmente in Inghilterra e in Francia. La Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 degli Stati Uniti d'America, paese in cui si realizza l'ideale dell'Illuminismo su un terreno ritenuto vergine, proclama come obiettivo: «La vita, la libertà e la ricerca della felicità». Nel passaggio dalla felicità al pil pro capite si verifica una tripla riduzione supplementare: la felicità terrestre è assimilata al benessere materiale, con la materia concepita nel senso fisico del termine; il benessere materiale è ricondotto al «ben avere» statistico, vale a dire alla quantità di beni e servizi commerciali e affini, prodotti e consumati; la stima della somma dei beni e dei servizi è calcolata al lordo, ossia senza tenere conto della perdita del patrimonio naturale e artificiale necessaria alla sua produzione.
Il primo punto è formulato nel dibattito fra Robert Malthus e Jean Baptiste Say. Malthus comincia col comunicarci la propria perplessità: «Se la pena che ci si dà per cantare una canzone è un lavoro produttivo, perché gli sforzi che si fanno per rendere divertente e istruttiva una conversazione e che sicuramente offrono un risultato ben più interessante, dovrebbero essere esclusi dal novero delle produzioni attuali? Perché non vi si dovrebbero comprendere gli sforzi che dobbiamo fare per moderare le nostre passioni e per diventare obbedienti a tutte le leggi divine e umane che sono, senza possibilità di smentita, i beni più preziosi? Perché, in sostanza, dovremmo escludere un'azione qualsiasi il cui fine sia quello di ottenere il piacere o di evitare il dolore, sia del momento che nel futuro?».

Materiali e immateriali
Certo, ma è Malthus stesso poi a osservare che questa soluzione porterebbe direttamente all'autodistruzione dell'economia come campo specifico. «È vero che in tal modo potrebbero esservi comprese tutte le attività della specie umana in tutti i momenti della vita», nota giustamente. Infine, aderisce al punto di vista riduttivo di Say: «Se poi, insieme a Say», scrive Malthus «desideriamo fare dell'economia politica una scienza positiva, fondata sull'esperienza e capace di dare risultati precisi, dobbiamo essere particolarmente precisi nella definizione del termine principale di cui essa di serve (cioè, la ricchezza) e comprendervi solamente quegli oggetti il cui aumento o diminuzione siano tali da potere essere valutati; e la linea più ovvia e utile da tracciare è quella che separa gli oggetti materiali da quelli immateriali».
In accordo con Jean-Baptiste Say, che definisce così la felicità del consumo, non molto tempo fa Jan Tinbergen proponeva di ribattezzare il pnl semplicemente fnl (felicità nazionale lorda). In realtà, questa pretesa arrogante dell'economista olandese è solo un ritorno alle fonti. Se la felicità si materializza in benessere, versione eufemizzata del «ben avere», qualsiasi tentativo di trovare altri indicatori di ricchezza e di felicità sarebbe vano. Il pil è la felicità quantificata.
È facile condannare questa pretesa di equiparare felicità e pil pro capite, dimostrando che il prodotto interno o nazionale misura solo la «ricchezza» commerciale. In effetti, dal pil sono escluse le transazioni fuori mercato (lavori domestici, volontariato, lavoro in nero), mentre invece le spese di «riparazione»sono contate in positivo e i danni generati (esternalità negative) non vengono dedotti, neppure la perdita del patrimonio naturale. Si dice ancora che il pil misura gli outputs o la produzione, non gli outcomes o i risultati.
È appropriato ricordare il bellissimo discorso di Robert Kennedy (scritto probabilmente da John Kenneth Galbraith) pronunciato qualche giorno prima del suo assassinio. «Il nostro pil (...) include l'inquinamento dell'aria, la pubblicità delle sigarette e le corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade. Include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei rifiuti radioattivi. In compenso, il pil non conteggia la salute dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l'allegria dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra saggezza. Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta».
La società economica della crescita e del benessere non realizza l'obiettivo proclamato dalla modernità, cioè: la felicità più grande per il maggior numero di persone. Lo constatiamo chiaramente. «Nel XIX secolo, nota Jacques Ellul, la felicità è legata essenzialmente al benessere, ottenuto grazie a mezzi meccanici, industriali, e grazie alla produzione. (...) Una tale immagine della felicità ci ha condotti alla società del consumo. Adesso che sappiamo per esperienza che il consumo non fa la felicità, conosciamo una crisi di valori». Il fatto è che nella riduzione economicista , come osserva Arnaud Berthoud, «tutto ciò che fa la gioia di vivere insieme e tutti i piaceri dello spettacolo sociale dove ognuno si mostra agli altri in tutti i luoghi del mondo - mercati, laboratori, scuole, amministrazioni, vie o piazze pubbliche, vita domestica, luoghi di svago... sono rimossi dalla sfera economica e collocati nella sfera della morale, della psicologia o della politica. La sola felicità che ci si aspetta ancora dal consumo è separata dalla felicità degli altri e dalla gioia comune». (...)
Il progetto di una «economia» civile o della felicità sviluppato soprattutto da un gruppo di economisti italiani (rappresentato principalmente da Stefano Zamagli, Luigino Bruni, Benedetto Gui, Stefano Bartolini e Leonardo Becchetti) si ricollega alla tradizione aristotelica e trae origine da una critica dell'individualismo. La costruzione di una tale economia resuscita la «publica felicità» di Antonio Genovesi e della scuola napoletana del XVIII secolo che il trionfo dell'economia politica scozzese ha respinto. La felicità terrestre, in attesa della beatitudine promessa ai giusti nell'aldilà, generata da un governo retto (buon governo) che persegue la ricerca del bene comune era, in effetti, l'oggetto di riflessione degli Illuministi napoletani. Integrando il mercato, la concorrenza e la ricerca da parte del soggetto commerciale di un proprio interesse personale, essi non ripudiavano l'eredità del tomismo. Questi teorici dell'economia civile sono perfettamente coscienti del «paradosso della felicità» riscoperto dall'economista americano Richard Easterlin. «È legge dell'universo - scriveva Genovesi - che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri». Ci sono voluti due secoli di distruzione frenetica del pianeta grazie al «buon governo» della mano invisibile e dell'interesse individuale eretto a divinità per riscoprire queste verità elementari. (...)

Merci fittizie
Come aveva visto bene Baudrillard a suo tempo, «una delle contraddizioni della crescita è che produce beni e bisogni allo stesso tempo, ma non li produce allo stesso ritmo». Ne risulta ciò che egli chiama «una pauperizzazione psicologica», uno stato di insoddisfazione generalizzata, che, dice, «definisce la società di crescita come l'opposto di una società di abbondanza». La frugalità ritrovata permette di ricostruire una società di abbondanza sulla base di quello che Ivan Illich chiamava la «sussistenza moderna». Vale a dire, «il modo di vita in un'economia postindustriale all'interno della quale le persone sono riuscite a ridurre la propria dipendenza nei confronti del mercato, e l'hanno fatto proteggendo - con mezzi politici - un'infrastruttura in cui tecniche e strumenti servono, essenzialmente, a creare valori di uso non quantificato e non quantificabile dai fabbricanti professionali di bisogni». Si tratta di uscire dall'immaginario dello sviluppo e della crescita, e di re-incastonare il dominio dell'economia nel sociale attraverso una Aufhebung (toglimento/superamento).
Tuttavia, uscire dall'immaginario economico implica rotture molto concrete. Sarà necessario fissare regole che inquadrino e limitino l'esplosione dell'avidità degli agenti (ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione delle imprese e così via. E in primo luogo la «demercificazione» di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la moneta. Si sa che Karl Polanyi vedeva nella trasformazione forzata di questi pilastri della vita sociale in merci il momento fondante del mercato autoregolatore. Il loro ritiro dal mercato mondializzato segnerebbe il punto di partenza di una reincorporazione/reinnesto dell'economia nel sociale. Parallelamente a una lotta contro lo spirito del capitalismo, sarà opportuno dunque favorire le imprese miste in cui lo spirito del dono e la ricerca della giustizia mitighino l'asprezza del mercato. Certo, per partire dallo stato attuale e raggiungere «l'abbondanza frugale», la transizione implica nuove regole e ibridazioni e in questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell'economia solidale fino alle esortazioni alla semplicità volontaria, possono ricevere l'appoggio incondizionato dei partigiani della decrescita. Se il rigore teorico (l'etica della convinzione di Max Weber) esclude i compromessi del pensiero, il realismo politico (l'etica della responsabilità) presuppone il compromesso per l'azione. La concezione dell'utopia concreta della costruzione di una società di decrescita è rivoluzionaria, ma il programma di transizione per giungervi è necessariamente riformista. Molte proposte «alternative» che non rivendicano esplicitamente la decrescita possono dunque felicemente trovare posto all'interno del programma.

Lo spirito del dono
Un elemento importante per uscire dalle aporie del superamento della modernità è la convivialità. Oltre ad affrontare il riciclaggio dei rifiuti materiali, la decrescita si deve interessare alla riabilitazione degli emarginati. Se lo scarto migliore è quello che non è prodotto, l'emarginato migliore è quello che la società non genera. Una società decente o conviviale non produce esclusi. La convivialità, il cui termine Ivan Illich prende in prestito dal grande gastronomo francese del XVIII secolo Brillat Savarin (Le fisiologia del gusto. Meditazioni di gastronomia trascendentale), mira appunto a ritessere il legame sociale smagliato dall'«orrore economico» (Rimbaud). La convivialità reintroduce lo spirito del dono nel commercio sociale accanto alla legge della giungla e riprende così la philia (amicizia) aristotelica, ricordando al contempo lo spirito dell'agape cristiana. Questa preoccupazione si ricollega appieno all'intuizione di Marcel Mauss che nel suo articolo del 1924 Apprezzamento sociologico del bolscevismo sostiene, «a rischio di apparire antiquato» di dover tornare «ai vecchi concetti greci e latini di caritas (che oggi traduciamo così male con carità), di philia, di koinomia, di questa "amicizia" necessaria, di questa "comunità" che sono l'essenza delicata della città».
È importante anche scongiurare la rivalità mimetica e l'invidia distruttrice che minacciano ogni società democratica. Lo spirito del dono, fondamentale per la costruzione di una società di decrescita, è presente in ognuna delle R che formano il cerchio virtuoso proposto per dare vita all'utopia concreta della società autonoma. Soprattutto nella prima R, rivalutare, poiché indica la sostituzione dei valori della società commerciale (la concorrenza esacerbata, il ciascuno per sé, l'accumulo senza limiti) e della mentalità predatrice nei rapporti con la natura, con i valori di altruismo, di reciprocità e di rispetto dell'ambiente. Il mito dell'inferno dalle lunghe forchette con cui si apre la seconda parte del libro La scommessa della decrescita è esplicito: l'abbondanza abbinata al ciascuno per sé produce miseria, mentre la spartizione, pur nella frugalità, genera soddisfazione in tutti, perfino gioia di vivere. La seconda R, riconcettualizzare, insiste invece sulla necessità di ripensare la ricchezza e la povertà. La «vera» ricchezza è fatta di beni relazionali, quelli fondati appunto sulla reciprocità e la non rivalità, il sapere, l'amore, l'amicizia. Al contrario, la miseria è soprattutto psichica e deriva dall'abbandono nella «folla solitaria», con cui la modernità ha sostituito la comunità solidale. (...)
È imperativo ridurre il peso del nostro modo di vita sulla biosfera, ridurre l'impronta ecologica i cui eccessi si traducono in prestiti richiesti alle generazioni future e all'insieme del cosmo, ma anche al Sud del mondo. Abbiamo dunque l'obbligo di dare in cambio ciò che si trova al centro della maggior parte delle altre R: ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Ridistribuire rimanda all'etica della spartizione, ridurre (la propria impronta ecologica) al rifiuto della predazione e dell'accaparramento, riutilizzare, al rispetto per il dono ricevuto e riciclare, alla necessità di restituire alla natura e a Gaia ciò che è stato preso in prestito da loro.
(traduzione di Laura Pagliara)
«Il Manifesto» del 17 settembre 2010

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