28 luglio 2010

Sos, ho una tata

Poiché l’arte imita la vita, le nannies hanno invaso la letteratura americana
di di Annalena Benini
Dovendosi affidare a una baby sitter, è consigliabile dimenticare Mary Poppins e fingere di non aver mai visto “La mano sulla culla”, con Rebecca De Mornay (la dolce tata bionda e delirante vuole rubare i bambini, sedurre il padre e uccidere almeno la madre, dopo averle provocato un esaurimento nervoso e alcune crisi d’asma). Ci si può però preparare psicologicamente, grazie alla fascinazione che le nannies esercitano sulla letteratura americana, parecchi anni dopo “Il diario di una tata”, che ha avuto molto successo ma non era abbastanza credibile: una bella ragazza in cerca non di stipendio ma di socializzazione che sceglie di fare la baby sitter (ha tutte le mattine libere e una cameriera per le pulizie ma si lamenta più di Cenerentola) e una signora che trascorre le giornate tra massaggi, shopping e feste di beneficenza.
Le duecentomila (in realtà molte di più e difficilmente censibili) tate di New York, e soprattutto le madri che girano loro i propri stipendi raccontano storie più complicate, e molte sono state raccolte in un saggio di Lucy Kaylin, “The Perfect Stranger: The Truth about Mothers and Nannies”: senza il cliché della riccastra annoiata, ma con tutte le tensioni dovute alla razza, alla convivenza, al ruolo, allo stipendio, all’invidia, al sospetto, alla gara fra signore (senti come parla italiano questa, guarda quant’è impedita in cucina la signora, ma cosa fa tutto il tempo al telefono, non ci credo che lavora). La domanda: comprereste un’auto usata da quest’uomo? è stata surclassata da: lascereste i vostri figli in casa con questa donna? Che, nel caso appartenga al genere apprezzato da Jude Law, si infilerà con maggior gusto e con il senso di una competizione vinta nel letto di vostro marito (imbattibile la comodità delle corna a domicilio), come nel romanzo “Bad Marie”, di Marcy Dermansky, uscito il mese scorso in America (la Dermansky ha una figlia di undici mesi e, per scelta, nessuna baby sitter).
O si divertirà a criticare il vostro modo di vivere, lo stato dei vostri cassetti e delle vostre cosce con una combriccola di tate, come in “Minding Ben”, scritto da Victoria Brown, che arrivò a New York da Trinidad, per studiare fece la baby sitter e adesso vive a Brooklyn e ha una tata che si rifiuta di chiamare nanny: “Ero una di quelle donne anonime che spingono un passeggino sull’Upper East Side: entravo nel palazzo con il piccolo e i vicini salutavano il bambino ma non me. C’era un buon livello di invisibilità”. Ma dentro ogni appartamento “fatto con due stipendi”, come in “My Hollywood” di Mona Simpson, è la tata la dittatrice assoluta (in “Affetti e dispetti”, al cinema, farà di tutto per far scappare l’aiuto-tata), la persona di cui spiare con apprensione il raffreddore, temere le ferie improvvise, i malumori e le chiacchiere al parco con le sodali.
Ci sono madri che si nascondono dietro gli alberi e fanno corsi di romeno per scoprire cosa si dicono le baby sitter fra loro, ci sono baby sitter che scuotono la testa quando la signora si mette i tacchi per andare in ufficio, ci sono bambini che sanno sfruttare al meglio la situazione: dice la tata che me la prepara lei la pizza, tu mamma le sai solo comprare. Sono rapporti difficili, faticosi, salvifici: “Mio marito? Sì gli voglio bene, è simpatico, ma è la tata la persona più importante della mia vita”.
«Il Foglio» del 27 luglio 2010

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