28 luglio 2010

Se lo Zio Sam perde la faccia

La più grande sfida all’egemonia Usa?
di Damiano Palano
L’erosione della sua legittimità «morale». Parla il politologo Ian Clark
All’indomani della Prima guerra mondiale, all’Uni­versity College of Wales, ad Aberystwyth, venne istituita la pri­ma cattedra al mondo di Politica in­ternazionale. Su quella cattedra – oggi intitolata a Edward H. Carr, che la occupò negli anni Trenta – siede adesso Ian Clark, tra i più raffinati studiosi di Relazioni Internaziona­li e autore di saggi noti anche in I­talia, come Globalizzazione e fram­mentazione (Il Mulino) e La legitti­mità nella società internazionale (Vita e Pensiero). Negli ultimi anni, Clark si è concentrato sulle sfide po­ste alla «società internazionale» dal­la presenza di un’unica superpo­tenza, molto simile a un impero con ambizioni universali. È proprio a questi temi che sarà dedicato Hege­mony in International Society, il nuovo libro che Clark sta ultiman­do in queste settimane e che verrà pubblicato da Oxford University Press nel 2011.
Negli ultimi anni vari studiosi han­no rispolverato il vecchio concetto di «impero». Ma gli Stati Uniti di og­gi sono veramente un impero?
«Negli ultimi anni il termine 'im­pero' è stato utilizzato con signifi­cati diversi, per esempio per indi­care il ruolo degli Stati Uniti, ma an­che per raffigurare il nuovo assetto emerso dopo la conclusione della Guerra fredda. Benché il concetto di 'impero' sia molto evocativo, è però anche piuttosto ambiguo, e ciò spiega in parte l’utilizzo disinvolto che se ne è fatto. Anche per questo, preferisco parlare di 'egemonia'. Il punto di partenza è molto simile, perché tanto 'impero' quanto 'egemonia' suggeriscono l’idea che il sistema internazionale sia organiz­zato in forma gerarchica e che vi sia un marcato squilibrio di potenza fra l’egemone e i potenziali sfidanti. Io però ritengo che non venga meno la società internazionale e che, perciò, il problema principale stia proprio nel modo in cui legittimare l’egemonia in una società formata da Stati sovrani e formalmente uguali».

Molti oggi parlano di un mondo po­st-americano. Secondo lei, siamo davvero di fronte a un declino de­gli Stati Uniti?
«Penso che i punti da sottolineare, sotto questo profilo, siano almeno tre. Innanzitutto, dagli anni Sessan­ta agli anni Ottanta, il declino degli Stati Uniti è stato previsto già pa­recchie volte. Ma, com’è evidente, finora non si è realizzato. Penso dunque che dobbiamo essere quan­tomeno molto cauti a questo pro­posito. In secondo luo­go, non dobbiamo di­menticare che il vero 'potere' non è mai de­finito soltanto delle ri­sorse materiali, ma è anche il frutto del con­senso di cui uno Stato può disporre. Proprio per questo, la legitti­mità non segue sempre in modo lineare i mu­tamenti nella dotazio­ne di risorse materiali. Infine, c’è un altro punto estremamente importante: il declino degli Stati Uniti dovrebbe implicare l’a­scesa di qualche altra potenza, ma mi sembra che da questo punto di vista non ci siano segnali così chia­ri. La Cina, per esempio, ha proble­mi immensi a livello interno, e ciò rende ogni previsione sul suo futu­ro piuttosto problematica. Le cose sono però ancora più complicate per l’Unione Europea. Per esempio, due anni fa l’euro veniva presenta­to da molti come un sostituto del dollaro. Ma oggi che valore ha un’argomentazione del genere?»

Ma l’indebolimento degli Stati U­niti non potrebbe provocare una nuova stagione di frammentazio­ne? Non si potrebbe verificare qual­cosa di simile alla frammentazione che seguì il declino britannico e la crisi del 1929?
«Non darei troppo credito alle ar­gomentazioni che vedono la pace come risultato della presenza di u­na potenza egemone. Non penso infatti che la stabilità sia stata pro­dotta soltanto dal potere degli Stati Uniti. Conseguentemente, non ri­tengo neppure che un eventuale de­clino americano sarebbe di per sé un fattore sufficiente a determina­re un ritorno della guerra. Ma una grave frammentazione, e cioè un ritorno dell’unilateralismo e di ten­tazioni autarchiche, potrebbe esse­re effettivamente favorita dall’a­cuirsi delle tensioni nell’economia globale, dal fallimento dei tentativi di contenere la proliferazione nu­cleare, oltre che dalla mancata riso­luzione delle questioni relative al cambiamento climatico. È eviden­te che il declino ameri­cano sarebbe uno dei fattori in campo. Ma non penso che, anche in quel caso, sarebbe l’unico da tenere pre­sente».

In che modo potrebbe essere evitata una si­mile deriva?
«Secondo la mia lettu­ra, il problema princi­pale non sta tanto nello squilibrio di potenza, quanto nell’assenza di un consen­so morale intorno all’egemonia a­mericana. Negli ultimi due decen­ni i principi di legittimità sono sta­ti sfidati proprio dallo squilibrio e­merso dopo la fine della guerra fred­da. Gli Stati Uniti hanno ragionato soprattutto in termini di distribu­zione di potenza, mentre la perce­zione della loro legittimità è dimi­nuita anche in Occidente. Ma è pro­prio dalla presenza o meno di que­sto consenso sul ruolo degli Stati U­niti come potenza egemone che di­penderà, nei prossimi anni, la sta­bilità della società internazionale».

Gli Stati Uniti possono riconqui­stare la loro legittimità? E come possono farlo?
«Dopo la Seconda guerra mondia­­le, gli Stati Uniti realizzarono una sorta di impero su invito, nel senso che chiamarono a parteciparvi so­lo un numero piuttosto ridotto di Stati occidentali. Con questi part­ner, gli Usa limitarono il loro pote­re all’interno di una sorta di ordine 'costituzionale'. Oggi le cose sono ovviamente più complesse, perché i soggetti coinvolti sono molto più numerosi. Ma l’unico modo con cui gli Stati Uniti possono rafforzare il loro ruolo, e contribuire alla stabilità della società internazionale, è quello di ristabilire le basi morali dell’egemonia attraverso un nuovo accordo costituzionale. Un accordo che definisca i doveri degli Stati U­niti e, al tempo stesso, i doveri de­gli altri Stati. Non si tratta di un compito facile. Ma solo seguendo questa strada si potranno racco­gliere le forze indispensabili per af­frontare le enormi questioni dei prossimi anni».
«È sul consenso da ricostruire, anche in Occidente, che gli States avranno un ruolo decisivo nella futura stabilità internazionale»
«Avvenire» del 28 luglio 2010

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