06 luglio 2010

Saramago dimentica Wiesel

Dio e Auschwitz
di Alessandro Zaccuri
Assomiglia a un testamento, forse è una dichiarazione di poetica. Di certo il breve testo di José Saramago pubblicato domenica dal «Corriere della Sera» è una conferma. La conferma di un’ossessione, verrebbe da dire, precisando subito (il terreno è infido, il fraintendimento in agguato) che senza ossessione non esisterebbe letteratura. A meno di un mese dalla morte del premio Nobel portoghese appare dunque la nota introduttiva alla mostra praghese della pittrice Sofía Gandarias. Tra le varie opere ispirate a «Kafka, il visionario», Saramago sceglie di commentare una tela del 2006, «Dio non è qui»: una macchia rossa al centro, il piccolo prigioniero del lager in primo piano, il volto fantasmatico di Kafka sullo sfondo e di lato, semicoperto da un muro, Joseph Ratzinger in abito talare. Saramago se la prende subito con lui, con il Papa (era il maggio 2006) che in visita ad Auschwitz avrebbe pronunciato una domanda «angosciosa, sebbene carica di facile retorica»: dov’era Dio? La risposta, per l’autore del Vangelo secondo Gesù Cristo, è semplicissima: Dio non è qui. E non è qui perché «non ha letto Kafka e, a quanto pare, neppure Ratzinger. Tanto meno Primo Levi – prosegue Saramago – che è più prossimo al nostro tempo e che mai si è servito di allegorie per descrivere l’orrore». Ci si potrebbe domandare come mai in Se questo è un uomo l’antiallegorico Levi dedichi tanto spazio all’Inferno dantesco, un testo in cui l’allegoria gioca un ruolo di un certo rilievo, per tacere dell’anagogia. Il problema, però, è che tutto il testo di Saramago è caratterizzato da un tono apodittico, inappellabile, pressoché ieratico. «L’unica e autentica libertà dell’essere umano è quella dello spirito, uno spirito non contaminato da credenze irrazionali e da superstizioni, in alcuni casi magari poetiche, che però deformano la percezione della realtà e che dovrebbero offendere la ragione più elementare», afferma lo scrittore. Bene, ma se «la percezione della realtà» è univoca e non falsificabile, perché poeti e romanzieri ne danno una versione sempre diversa? Un testimone non sospetto come Elie Wiesel, per esempio, alla domanda su Dio e la Shoah ha risposto in tutt’altro modo, riconoscendo cioè Dio stesso in qualunque vittima appesa a qualunque forca. In ogni vero credente, lo sappiamo, si nasconde un non credente ed è per questo che perfino il Papa può interrogarsi senza scandalo sull’apparente assenza di Dio. Allo stesso modo, però, sarebbe opportuno ammettere che ogni agnosticismo tende oggi a strutturarsi in sistema, ogni incredulità si propone di cancellare il dubbio, ogni eresia invoca, da ultimo, il magistero di un eresiarca. Discutibile da diversi punti di vista, l’opera di Saramago ha conservato fino all’ultimo la fecondità – e l’ossessività – di queste contraddizioni. Il vero tradimento consisterebbe nel trasformare Saramago nel patriarca di una chiesa (o di un’anti-chiesa) che lui, in effetti, non ha fondato.
«Avvenire» del 6 luglio 2010

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