08 luglio 2010

Intellettuali: testimoni sì, ma col cuore

di Davide Rondoni
Non l’avrei fatto. Non avrei ribadito, per amore di chiarezza, quel che già avevo d’impeto e passione scritto qualche giorno fa, come supplica e invettiva, e che Giuliano Ladolfi ha criticato in un suo fondo di sabato scorso. Non ci sarei tornato, se non fosse stata la bella intervista di Emmanuel Mounier pubblicata domenica 27 giugno su queste pagine. Ma andiamo con ordine, per il lettore che ci raggiunge ora. Alfonso Berardinelli sul «Corsera» commentando un libro di De Michelis sugli intellettuali, buttava lì una espressione importante: «La lotta contro la menzogna è impolitica». Bene, dicevo, allora se non è la politica – cioè il luogo dei consensi e di maggioranze e minoranze – il luogo in cui si decide cosa è vero e cosa è menzogna, dove è questo luogo? Il cuore, gridavo. Lo dice la Bibbia. Il cuore, inteso come sede più profonda della nostra umanità e del nostro rapporto con il reale e con il mistero. Ma gli intellettuali, supplicavo, che finalmente riconoscono che la verità non dipende e non si gioca innanzitutto nel campo politico (lì si manifesta e viene contesa), aiutino le persone a intendere cosa significa la parola cuore, tanto abusata quanto fraintesa, e come è possibile che il cuore di un uomo riconosca il vero. Troppo lavoro intellettuale in questi decenni è stato rivolto a farci ritenere impossibile il riconoscimento del vero, e a convincere le persone che in fondo non abbiamo nessuno strumento per orientarci nella complessità del reale e della vita personale alla ricerca del vero. Si è confuso il cuore con il sentimentalismo, si sono separati ragione e «affectus», si è messo sul cuore una specie di lastra tombale fatta di scetticismi. Supplicavo, e ancora lo faccio (non mi interessano i dibattiti sugli intellettuali, ma su cosa è conoscere se stessi) che il servizio intellettuale giochi il suo ruolo aiutando il cuore delle persone. Se non è il cuore a riconoscere il vero, si dipenderà di fatto dalla politica (intesa pure nel senso nobile di dibattito e consenso), sia che vi si partecipi attivamente oppure no. Se non si dipende dal cuore si dipende dal 'potere'. Lo ricordava l’intervista ultima di Mounier: «Se non vi è niente di costante nell’uomo, niente di irriducibile, niente di sacro, dove passerà e chi dirà qual è la frontiera dell’inumano?». È il cuore che avverte e difende l’irriducibile presente in ogni uomo. È il cuore che avverte (quando pure l’esito della discussione politica sia diverso) dove passa la frontiera dell’inumano. E che lo dimostra, nell’arte come nel gesto semplice di una madre o di un lavoratore. Per Ladolfi il problema è invece l’opposizione tra sistema «emporiocentrico» e l’eredità a suo dire più preziosa, «l’Umanesimo». In tale scontro, dice Ladolfi, l’intellettuale che sta dalla parte dell’Umanesimo si deve comportare come testimone. Certo, l’intellettuale che non è testimone è meno credibile. Ma la testimonianza dipende da che cosa si testimonia, a meno di ridurla a suggestiva parola romantica valida per ogni contenuto e per il suo contrario – quanti intellettuali testimoni di visioni opposte e anche di aberranti menzogne! Il problema, a mio parere, resta la meravigliosa drammatica valutazione del cuore.
«Avvenire» dell'8 luglio 2010

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