29 luglio 2010

È civilissimo quel no alla corrida

Hemingway se ne dorrebbe, sbagliando
di Ferdinando Camon
Ieri, con una decisione storica, il parlamento della Catalogna ha abolito le corride a Barcellona.
È un grande gesto di civiltà. Non ho mai capito perché Hemingway amasse la corrida. Non è che 'non sentivo' Hemingway, come Moravia: Moravia lo sentiva come un falso barbaro, un decadente alla ricerca di emozioni artificiali, uno che corre a combattere in guerre non sue, solo per sentire l’odore della guerra.
Scrivendo un articolo valutativo su Hemingway, Moravia concludeva con una formula rimasta memorabile come la più feroce stroncatura mai scritta: «Niente, e così sia». No, non è vero, Hemingway non è il niente. Il suo bisogno di Africa è diventato un bisogno anche di Moravia, che ci andava ogni anno, solitamente verso Natale: l’Africa soddisfaceva in lui il bisogno di Natura che c’è in ogni occidentale.
L’Africa per Hemingway era il rischio, la caccia grossa, l’uomo a tu per tu con la morte, l’uomo che se vince è un vero uomo, se perde non è un uomo.
La stessa condizione di rischio assoluto (sei solo di fronte alla grande bestia, siete in due, ma uno solo sopravvivrà), Hemingway l’avvertiva nella corrida.
Torero contro toro. Spada affilata contro corna appuntite. La spada vuol troncare il flusso di sangue dietro il collo della bestia, aprendo il cuore, le corna vogliono infilzarsi nella pancia dell’uomo e scaraventarlo in aria, sventrandolo. La folla assiste segnando le fasi della battaglia con silenzi e grida, ci sono le fasi del silenzio, ci sono le fasi delle grida. Lo scontro finale è preceduto dalle schermaglie. Il toro entra nell’arena di corsa, già ferito e perciò infuriato e istupidito, furia e stupidità lo rendono più animale. Io, italiano, non capisco bene cosa vuol dire se il toro fa di corsa il giro dell’arena in senso orario o antiorario, ma gli spagnoli lo sanno. Da quel giro il torero capisce come il toro attaccherà e come lui potrà infilzarlo. Anche i picadores studiano quel movimento, perché a turno devono piantargli una lancia sulla groppa, mentre il toro tenta di scagliarli in aria col loro cavallo ingualdrappato. Il rito fissa i colpi di lancia, da due a cinque, non di meno, non di più. Tre banderilleros entrano in scena per prostrare il toro e infuriarlo ancora di più: gli piantano sul collo tre paia di lance corte e colorate, forgiate per il dolore. Il toro deve dar segni di massima sofferenza e incipiente debolezza. Quello è il momento del torero, o, come dice Hemingway, «il momento della verità». Il torero agita adesso un mantello più corto, colorato, e nasconde la spada dietro la schiena, come un sicario. Il toro raccoglie le forze per l’ultimo balzo. Il torero si tiene pronto con la spada. È il toro che, con l’assalto, s’infilza la spada nella groppa. Se la spada penetra a fondo e apre il cuore, la corrida è perfetta. Più ripetuti sono gli attacchi, meno è perfetta.
Matato il toro, segue il rito dei trofei, le orecchie o anche la coda, da donare al torero. Ultimo particolare macabro: il toro stramazzato vien arpionato e trascinato via dall’arena, su cui lascia un rivolo di sangue. Ultimissimo rito: appositi inservienti corrono a smuovere la sabbia con rastrelli, per coprire il sangue. Non devono restar tracce della passata corrida sul terreno della nuova corrida.
È un rito macabro, la celebrazione di una 'morte lunga', introdotta da una lunga tortura. Gli strumenti del rito sono pensati per produrre dolore su un corpo vivente, e infine la morte. Lo spettacolo non dà godimento estetico, dà godimento sadico. È lo spegnimento di una vita che ha un senso perché ha un progetto, vivere, aver figli, mangiare, evitare il dolore. L’uomo che ritiene di aver diritto di uccidere le vite inferiori, perché lui vive una vita superiore, applica una forma di razzismo che è il razzismo della specie. A Hemingway viene attribuito un detto, e se non l’ha detto vuol dire che s’è dimenticato: per essere uomo bisogna fare un figlio, scrivere un libro, ammazzare un toro. Io di figli ne ho più d’uno. Di libri pure. Ma mi manca il toro. Vuol dire, hitlerianamente, che non appartengo alla razza umana?
«Avvenire» del 29 luglio 2010

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