28 luglio 2010

Dio si nasconde nelle parole? Non del tutto

di Francesco Tomatis
Sostenne Nietzsche nel «Crepuscolo degli idoli» (1888): «Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica». Premesso che per Dio egli intendeva ogni Idolo supremo escogitato dagli uomini, dovremmo forse allora pensare che la grammatica favorisca l’idolatrizzazione e quindi allontani dal vero Dio, il Dio vivente? E ciò al contrario, dunque, di quanto invece verrebbe immediatamente da pensare a proposito dell’affermazione nietzscheana, cioè che per chi non desideri affatto sbarazzarsi di Dio sia consigliabile affidarsi alla grammatica, trovando magari in essa se non la piena presenza sostanziale almeno le tracce dell’essere di Dio? A corroborare questa tesi giunge ora, per altre vie, un bel saggio di Andrea Moro, «Breve storia del verbo essere» (Adelphi). Infatti, in esso, l’acuto linguista non solo si guarda bene dal parlare di Dio, magari identificandolo all’essere, come la lunga storia dell’essere e del verbo occidentalizzato frequentemente ha fatto, ma riesce a formulare una teoria linguistica attraverso cui è possibile considerare in maniera unificata i possibili usi e significati del verbo essere: tempo, affermazione, identità, copula... Nell’analisi in particolare delle frasi copulari inverse, egli nota come venga infatti meno la tradizionale, rigida corrispondenza fra soggetto e sintagma nominale, predicato e sintagma verbale. «Il verbo essere – conclude Moro – è vuoto, come sono vuoti tutti gli elementi che compongono la grammatica: ha un ruolo solo perché si distingue da altri elementi». Se grammaticalmente l’essere è un vuoto, un nulla, tuttavia capace di esprimere il tempo nella frase, come già ben colse Aristotele, riconoscerne l’insostanzialità ne accresce il valore, evitando di attribuire ad esso funzioni rigidamente fissate dalla linguistica o dalla filosofia. Del resto, almeno un terzo delle lingue note non possiede il verbo essere, pur esprimendosi per certi versi ancora meglio di quelle «ontofile», amiche dell’essere. Persino riconoscendo che «la grammatica è un 'cristallo' prodotto di leggi naturali», non è possibile comprenderne l’uso e la significazione attraverso tali sole leggi di natura: sempre e soltanto tracce, labili o marcate, protese verso una realtà trascendente ogni categorizzazione linguistico­trascendentale. Anselmo d’Aosta, nel «Proslogion» (1077), così pregando si rivolse a Dio: «Dunque, o Signore, tu sei non solo ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore, ma qualcosa di maggiore di quanto possa essere pensato». Non è necessario abbandonare il pensiero e la sua grammatica relativa, anzi essa stessa è indispensabile, però proprio per fare un passo oltre, per aprirsi a ciò che è ulteriore a qualsiasi grammatica e parola: compresa quella che vorrebbe dire che Dio è l’essere e ad esso si riduce.
«Avvenire» del 28 luglio 2010

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