02 luglio 2010

Albigesi, la Crociata tragica

Un saggio di Marco Meschini ricapitola la lotta che nel ’200 insanguinò la Linguadoca per sradicarne l’eresia catara. E torna la domanda: una tale strage (che ci fu, anche se poi è stata ingigantita dalla speculazione laicista) poteva essere giustificata?
di Franco Cardini
Può darsi che questo libro sor­prenda qualcuno, che magari scandalizzi qualche altro e che dispiaccia a molti. Dico subito e con chiarezza, per quanto mi riguarda, che mi è molto piaciuto e che ne ho ammirato sia l’impianto erudito sia il tono e il taglio appassionati e corag­giosi. Non potrei dire che proprio tut­to mi abbia ugualmente convinto nel suo assunto di fondo: non tanto per­ché va rilevato in esso – accanto, sia chiaro, all’onestà e all’equità della ri­cerca storica presentata – un intento 'apologetico' nel senso alto e nobi­le del termine, quanto per il riflesso di un messaggio che esso implicita­mente e del resto con grande misura esso invia ai lettori. Un messaggio che potrebbe essere accolto anche al di là delle sue intenzioni, sia pure nel sen­so in cui esse mi sembrano chiara­mente palesarsi. In altri termini, bisogna guardarsi senza dubbio dall’uso attualizzante della storia: d’altro canto, però, la sto­ria contiene inevitabilmente qualco­sa che obbliga anche a confrontarla col presente. In questo senso è stato detto che «tutta la storia è storia con­temporanea »; in questo senso Nietz­sche ha potuto affermare, provoca­toriamente e paradossalmente ep­pure magistralmente, che la storia è utile per la vita solo quando è sog­gettiva e guarda al presente (al con­trario di quanto sostenevano e anche sostengano, letteralmente, i profes­sionisti della ricerca storica sentita come attività scientifica).
L’eretica. Storia della Crociata contro gli albigesi (Laterza, pagine 375, € 19,00), di Marco Meschini, è un li­bro intenso e affascinante, che a qual­cuno porrà parere strano. Ho stima dell’autore e il libro merita che se ne parli: Meschini, della generazione dei più o meno quarantenni, proviene da un’ottima scuola medievistica, quel­la dell’Università Cattolica. È autore fecondo di studi sulle Crociate, sia quelle in Terrasanta sia quelle che i canonisti del Duecento avrebbero definito crucis cismarinae, cioè quel­le contra christianos: la 'strana' Quarta crociata, partita per ricon­quistare Gerusalemme e che finì per abbattersi su Costantinopoli; e quel­la 'degli albigesi', cioè contro i cata­ri della Linguadoca, combattuta fra 1208 e 1244 nell’area appunto d’i­dioma occitano grosso modo com­presa tra Pirenei, Rodano e Dordo­gna.
I fatti relativi a tale pagina del nostro passato sono noti: in un’area larga­mente e in qualche sua parte com­pletamente guadagnata a un’eresia di tipo dualistico-manicheo control­lata da un’élite iniziatica, il catarismo, al tempo del pontificato dell’ancor giovane Innocenzo III nel 1208 l’uc­cisione del legato pontificio Pietro di Castelnau provocò una spedizione crociata gestita principalmente da al­cuni capi feudali della Francia set­tentrionale che si abbatté duramen­te sul principe che governava quel territorio, il conte di Tolosa, e sui suoi territori. Vi furono episodi raccapric­cianti, come la strage di Béziers del 1209 e il rogo di Montségur del 1244. Fu una guerra feroce, che coinvolse troppi inermi e innocenti (ma i due termini non sono necessariamente e sempre sinonimi) e che desolò una contrada dolcissima, senza dubbio una delle più ricche e civili dell’Occi­dente europeo, la patria d’elezione della poesia e della musica trobadori­che.
Strano parados­so, almeno in appa­renza: come poteva il catarismo, che si presentava coma un cristianesimo auste­ramente rivolto a re­staurare la sempli­cità, la povertà e la purezza delle origini, attecchire proprio nel Paese della 'gaia scienza', tra gli alle­gri e sensuali poeti dell’amore ch’è sogno dell’anima, e nondimeno an­che piacere carnale? Non è, questo, l’ultimo degli argo­menti affrontati in questo libro che si dedica, sintomaticamente, «a Marc Bloch ed Eugenio Corti, testimoni del tempo e dell’eterno». Questo è un li­bro serio, un libro tragico: è forse il Lebensbuch, il libro che Meschini sen­te come quello più 'suo', quello del­la sua vita. Non mi stupirei se fosse so­lo l’introduzione a un’opera più va­sta, magari dedicata appunto alle Crociate 'interne alla cristianità' o al rapporto tra Crociate e Inquisizione; ma non mi stupirei neppure se esso fos­se l’ultimo suo libro di medievistica. Me­schini, ben noto an­che come apprezza­to giornalista, ha da­to da tempo l’im­pressione di tirarsi da parte nella 'car­riera' universitaria e si è dato credo al mondo della comu­nicazione mediatica, per il quale ha senza dubbio vocazione e competenza. Ma qui, con un linguaggio che talvolta rasenta quello del romanzo e che af­fronta con molta lucidità il problema del rapporto, nel racconto storico, tra documentazione scientifica ed effi­cacia narrativa, egli non si sottrae al quesito fondamentale, quello che a un certo punto s’impone sempre a chi mediti su quella tragedia vecchia ormai di otto secoli e a una parte del­la quale assisté perfino, forse, Fran­cesco d’Assisi che si trovava allora in viaggio verso Santiago de Compo­stela. Fu davvero il massacro che si dice, quella crociata? E, se lo fu, era necessario, era inevitabile? E neces­sario perché, inevitabile per chi? In­somma – la domanda, che molti giu­dicano antistorica, s’impone – era 'giusto'?
Meschini prende posizione, sceglie il suo campo. Non è illegittimo che lo storico lo faccia; forse è imprudente che lo dichiari, ma sarebbe d’altron­de disonesto e insincero agire altri­menti; quando lo storico lo fa, deve farlo – se vuole riuscir convincente – con misura e con stretto rispetto del­la problematica che affronta e delle fonti che usa. L’asettica imparzialità non si richiede né a lui né a nessuno, perché è impossibile e in fondo an­che perché è disumana, impossibile, e se fosse possibile sarebbe morale. Ma l’equità, sì: questa è necessaria, Fa parte dell’onestà scientifica.
È un fatto che il catarismo aveva vin­to la sua battaglia controversistica e missionaria o quasi, quando Inno­cenzo III bandì come extrema ratio la Crociata. È un fatto che esso con­tava pochi veri e propri adepti (i 'per­fetti'), ma molti sostenitori e simpa­tizzanti (i 'credenti'), e che poggia­va su una larga base di tolleranza e di complicità, estesa dall’aristocrazia al clero almeno secolare alle agiate bor­ghesie cittadine ai ceti rurali. È un fat­to ch’esso non era affatto un’eresia cristiana, per quanto così potesse presentarsi e moltissimi fossero in buona fede convinti che tale fosse, così com’è obiettivamente vero che molti missionari catari erano di gran lunga moralmente migliori di troppi esponenti del clero ortodosso. Era un’altra religione, estranea al cristia­nesimo per quanto ne usasse alcune Scritture, e a esso profondamente av­versa.
La teologia catara, radicata in realtà non già nel 'Vangelo mistico di Gio­vanni' bensì nel terreno antico e profondo del manicheismo e del mazdaismo persiano – e in parte più vicina al buddismo che non al cri­stianesimo –, postulava in ultima a­nalisi la malvagità del creato come prigione dello spirito e la natura sa­tanica del Dio creatore; e alla luce di esso l’amore fuori del matrimonio e magari contra naturam, sterile co­munque, era peccato ben minore – se tale era – rispetto all’amore coniuga­le e fecondo, che prelude al frutto del­la generazione. Il catarismo, affer­matosi nella più gioiosa delle con­trade cristiane, postulava la libera­zione delle anime umane attraverso l’annientamento della vita, ch’esso vedeva come contaminazione e pri­gionia dello spirito nella materia. Da qui la sua inconciliabilità profonda col cristianesimo: e l’orrore profon­do con il quale gli autentici e consa­pevoli catari guardavano ai veri cri­stiani, e viceversa. Volete leggere un manifesto radicalmente anticataro, scritto da uno al quale certo il mas­sacro di Béziers, se ne ebbe notizia, non piacque? Leggete il Cantico del­le creature di Francesco d’Assisi.
Il catarismo era una sfida dura e un pericolo obiettivo per la cristianità. In quell’area e in quel momento, es­so era dialetticamente e socialmen­te inarrestabile, invincibile. Giustifi­cava tutto ciò la strage, se e quando ci fu (e Meschini fa bene a sottoli­neare che, in buona parte, sulla 'Cro­ciata degli albigesi' si sono abbattu­te la speculazione e la falsificazione laicista e anticlericale)? Qui sospen­diamo il giudizio: leggete il libro. Cer­to, altre soluzioni – e qui mi sbilancio anch’io – avrebbero largamente con­dotto a una sparizione del cristiane­simo in quell’area; magari a un anti­cipo della Riforma protestante; o a un mutamento perfino negli equili­bri geopolitici della regione. Ha que­sto libro insito un 'pericolo imma­nente', quello di venir utilizzato co­me giustificazione alle troppe voci politiche le quali oggi sembrano le­varsi a chiedere strampalate 'nuove crociate' contro supposti 'nuovi ne­mici della cristianità', ammesso che di 'cristianità' ancora si tratti? Anche di ciò è lecito discutere. Ma questa, a dirla con Kipling, è un’altra storia.

La teologia del catarismo era radicalmente estranea alla cristianità perché postulava la malvagità del creato, «prigione dello spirito».

L’esatto opposto della concezione che in quegli stessi anni ispirava il san Francesco del «Cantico delle creature»
«Avvenire» del 1 luglio 2010

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