31 luglio 2010

Quando ci parliamo e ci capiamo le nostre menti si "specchiano"

s. i. a.
Uno studio diretto da Uri Hasson della Princeton University e pubblicato sulla rivista dell’Accademia Americana delle Scienze PNAS rivela che quando due persone si parlano i loro cervelli quasi si uniscono presentando un’attività neurale molto simile. Addirittura quando l’ascoltatore capisco al volo ciò che l’altro gli sta dicendo, la sua mente è in grado di anticiparlo, infatti l’attività del suo cervello anticipa quella del suo interlocutore.
La capacità di capire le intenzioni e i sentimenti altrui senza che l’altro dica nulla è un potere che chiamiamo “empatia”. Questa è possibile grazie a una classe di cellule nervose, i neuroni specchio, che “imitano” la persona di fronte a noi. Lo studio Usa sembra suggerisce che una sorta di “empatia delle parole” si sviluppi anche quando due persone si parlano aiutandole a capirsi. Gli scienziati hanno studiato con la risonanza magnetica il cervello di due individui che si parlano, registrando l’attività neurale dei due.
È emerso che durante la conversazione, «le risposte neurali che abbiamo registrato nel cervello di colui che parla - spiega Hasson - sono visibili anche nel cervello dell’ascoltatore durante la comprensione di ciò che sente. Ciò significa che i cervelli di ascoltatore e persona che parla mostrano un’attività simile (sono “accoppiati”) durante la conversazione e che, più forte è questa somiglianza, maggiore è il grado di comprensione da parte dell’ascoltatore».
«Mentre una persona racconta una storia al suo interlocutore – spiega l’altro autore del lavoro Greg Stephen - le aree neurali attive nel cervello dei due sono le stesse e mostrano una dinamica simile durante tutta la chiacchierata».
«L’accoppiamento delle due menti, quindi, evolve nel tempo, spiega Hasson. E quasi sempre le risposte neurali del cervello dell’ascoltatore arrivano un po’ in ritardo rispetto alle risposte corrispondenti nel cervello di colui che parla, come se il cervello di quest’ultimo, parlando, desse forma alle risposte neurali del suo ascoltatore».
«Inoltre abbiamo anche trovato alcune aree del cervello in cui le risposte dell’ascoltatore precedono quelle di chi gli parla - aggiunge Hasson. Probabilmente si tratta di risposte anticipatorie grazie alle quali l’ascoltatore predice ciò che il suo interlocutore sta per dirgli. Anche in questo caso maggiore è l’accoppiamento mentale tra i due, migliore e il grado di comprensione».
Questo studio dimostra quindi che, quando non capiamo qualcuno, potrebbe essere che le nostre menti non si incontrano e non fanno click per andare all’unisono.
«La Stampa» del 30 luglio 2010

Selfmade women, più ricche ma che fatica

di Monica D'Ascenzo
Tutte insieme valgono circa 400 volte il patrimonio dell'uomo più ricco del mondo. Eppure è ancora poco. Le donne facoltose sono in crescita e al mondo rappresentano il 27% della ricchezza investita per un ammontare di oltre 20 mila miliardi di dollari. Ma le stime di Boston Consulting Group indicano un continuo incremento da qui al 2014 quantificabile in un tasso dell'8% all'anno. Il doppio della crescita prevista a livello globale.
In soldoni se oggi un ricco su tre è donna, la percentuale è destinata ad aumentare nel giro di pochi anni e qualche segnale in questo senso era già venuto dalle ricerche che evidenziavano come il 22% delle donne negli Stati Uniti e il 19% in Gran Bretagna guadagna già più del compagno.
Questione di eredità improvvise e divorzi milionari? Tutt'altro. Il 42% delle donne ricche deve il proprio patrimonio alla propria professione, grazie a remunerazioni e bonus. Largo allora alle selfmade women, che hanno imparato a dare un valore al proprio lavoro e a non accontentarsi di scalare qualche gradino nella gerarchia aziendale. È ancora presto, comunque, per vederne qualcuna fare capolino nell'olimpo della classifica dei primi dieci miliardari stilata da Forbes, anche se il cambiamento non è molto di là da venire.
Ma siamo sicuri che questo basti per salutare una nuova era di equilibrio, anche patrimoniale, tra i sessi? Certo nel Nord America le donne contano per il 33% dei ricchi e gestiscono 9mila miliardi di dollari. In Europa Occidentale sono il 26% per un ammontare di circa 5,3 mila miliardi di dollari, mentre le differenze sono molto più marcate nelle aree geografiche meno sviluppate. Resta il fatto, però, che al mondo il 70% delle ricchezza viene prodotta dalle donne, che rappresentano ancora i due terzi dei poveri. Ci sarebbe, quindi, da augurarsi che quelle che raggiungono la vetta, finanziaria o professionale, poi sappiano fare la differenza perché il gender gap non si debba più misurare né in termini di miliardi né in termini di disparità.
«Il Sole 24 Ore» del 31 luglio 2010

Il giornalismo di oggi? Ce lo spiega Matilde Serao

di Luigi Mascheroni
Se chiedete in giro com’è il giornalismo italiano oggi, vi risponderanno che è tutto parole e niente fatti, che prevalgono interpretazioni e commenti, che è solo polemica o gossip... E soprattutto - sia di destra, di sinistra o «terzista» - che è piegato ai potei forti, economici e politici. E vi diranno che i giornalisti sono tutti venduti, autoreferenziali e cialtroni. E i giornali zeppi di spazzatura e bugie interessate...
Parrà strano, ma le stesse cose le diceva, più di un secolo fa, in un’Italia apparentemente diversa, una grande scrittrice (e ottima giornalista) semi-dimenticata in un romanzo ormai sconosciuto. Lei è Matilde Serao (1856-1927), autrice famosissima tra Otto e Novecento, e la prima donna italiana a fondare e dirigere un quotidiano. Il romanzo è Vita e avventure di Riccardo Joanna, pubblicato nel 1887 e ora riscoperto e riportato in libreria per la sua attualità da Selene Edizioni (pagg. 230, euro 14,90) con un’introduzione di Francesco Merlo (naturalmente in chiave anti-berlusconiana, anti-conflitto d’interessi, anti-tutte le solite cose).
Comunque. Matilde Serao e Edoardo Scarfoglio, che divisero per lunghi anni lavoro e sentimenti, fondarono nel 1885 il Corriere di Roma (poi arriverà il Corriere di Napoli e dopo ancora Il Mattino) buttandosi a capofitto nell’impresa. Ma il foglio non decollò, per la concorrenza della Tribuna, e fu presto costretto alla chiusura. Così la Serao, prendendo spunto dalla sua esperienza, scrisse di getto quello che Benedetto Croce definì - niente meno! - «il romanzo del giornalismo italiano».
Forse la prosa e il ritmo sono un po’ demodè, ma il plot, che racconta le vicende di Riccardo Joanna - partito correttore di bozze e arrivato direttore - è moderna, divertente, in qualche modo addirittura credibile. Come quando il protagonista - pensando a quanto i lettori amino le cose volgari - davanti al suo giornale commenta: «È abbastanza brutto per tirare centomila copie. Ma si può farlo più brutto ancora». Del resto è famoso il consiglio che Gaetano Afeltra, un vecchio maestro della carta stampata (vero, non romanzesco), diede a un futuro direttore: «Piglia ’o iurnale e riempilo emmerda».
Come suggerisce l’editore Piero d’Oro, la Serao non poteva sapere che stava scrivendo una sorta di promemoria del giornalismo italiano, mostrando come tra i suoi tempi e i nostri non ci sia differenza: pochi fatti e troppi commenti, una totale dipendenza dalla politica e la tendenza a cambiare idea. Rimane il fatto che leggendo quel vecchio romanzo sono molti i nomi che oggi potrebbero essere dei perfetti Riccardo Joanna, giornalisti ai quali interessa solo vendere più copie possibile e ottenere finanziamenti dai politici. Salvo poi cambiare sia il pubblico sia i finanziatori. Cose che succedono continuamente sia a destra, sia sinistra, e perfino al centro. Almeno da un secolo a questa parte.
«Il Giornale» del 31 luglio 2010

"A Cuba facevamo gli aborti per vendere le cellule dei feti"

s. i. a.
Per assicurare al governo preziosa valuta estera, una dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha scritto ieri il quotidiano britannico Independent in una corrispondenza dall'America latina basata sulle confessioni della dottoressa Hilda Molina, la quale ha personalmente eseguito i trapianti che fruttavano al governo fino a 20.000 dollari ciascuno. Neurochirurgo ed esperta di fama mondiale nella ricerca sul morbo di Parkinson, la Molina, 52 anni, si è dimessa dalla clinica di neurochirurgia (da lei diretta all'Avana per un salario mensile equivalente a 16 dollari) e da membro del partito comunista a causa di questa politica dei trapianti. La Molina, che vorrebbe lasciare Cuba ma non riesce a ottenere il visto, racconta di aborti eseguiti nelle cliniche dell'Avana e destinati, a insaputa delle donne interessate, a fornire tessuto cerebrale fetale per i trapianti su facoltosi pazienti provenienti da Usa, Canada e da paesi dell'America latina. Stando a medici cubani riparati a Miami, il governo dell' Avana avrebbe addirittura fatto abortire diverse donne con il solo scopo di procurare i tessuti per i trapianti. L'uso del tessuto cerebrale di feti appena abortiti per il trapianto su pazienti affetti dal morbo di Parkinson è una pratica già sperimentata in passato. La malattia provoca tremori, contrazioni muscolari involontarie e paralisi causate da una precoce perdita di neuroni. Una volta ' morti' , i neuroni di un organismo formato non possono più riprodursi mentre quelli del feto fino a 12 settimane di vita hanno ancora la capacità di farlo.
«La Repubblica» del 13 agosto 1995

Cuba divora i suoi figli

Dissidenti perseguitati, turismo sessuale, aborto di massa. Gli orrori del regime castrista
di di Francesco Agnoli
Nel febbraio di quest’anno Orlando Zapata, dissidente cubano, ostile al regime dittatoriale di Castro, è morto in ospedale, dopo 85 giorni di sciopero della fame. Zapata era un ex muratore di Santiago di Cuba, e aveva solo 42 anni.
La sua morte, così spettacolare, ha destato per qualche tempo l’interesse dei giornali e dell’opinione pubblica per una delle dittature comuniste ancora vive nel XXI secolo.
La protesta tramite scioperi della fame, sino alla morte, è una consuetudine degli oppositori cubani, sin dal principio del regime, come dimostra, tra le altre, la vicenda di Pedro Luis Boitel.
Costui, già nemico di Batista, era anche un oppositore di Fidel Castro, e fece l’errore di candidarsi alla presidenza della Federazione studentesca universitaria. Arrestato di lì a poco, venne condannato a dieci anni di prigione, durante i quali in più occasioni fece degli scioperi della fame per protestare contro il feroce trattamento subito. Il 3 aprile 1972 Boitel iniziò l’ennesimo sciopero: al quarantanovesimo giorno cadde in uno “stato di semicoma”: morì dopo altri quattro giorni, senza cure e senza che alla madre fosse neppure permesso di vedere il corpo del figlio.
Il fatto è che a Cuba non solo è estremamente facile finire nella galere-gulag di Castro, ma è altresì terribile rimanervi. In più occasioni infatti sono stati denunciati l’uso dell’elettrochoc, di cani da guardia lanciati contro i prigionieri, la privazione del sonno e la rottura del ritmo del sonno come modalità per sfiancare i detenuti e portarli, non di rado, alla pazzia…
Le celle cubane godono di soprannomi inquietanti. Tostadoras (tostapane), per il caldo insopportabile che vi regna; ratoneras (buchi per topi), quelle piccolissime e sotterranee; gavetas (gabbie), quelle piccole e strette come delle gabbie…
A marcirvi dentro, per anni e anni, magari in mezzo agli escrementi, senza acqua né assistenza medica, gli oppositori, religiosi e politici, a cui è negato persino il titolo di uomini: vengono infatti definiti, dal regime, gusanos cioè vermi.
Dal 1959 a oggi, secondo Pascal Fontaine, collaboratore del “Libro nero del comunismo”, circa centomila cubani “hanno sperimentato i campi di lavoro” e “sono state fucilate dalle quindicimila alle diciassettemila persone”. In verità queste cifre sembrano prudenziali, visto che i cubani che sono riusciti a scappare all’estero, evitando la morte, frequente, nelle acque dello stretto della Florida, parlano di cifre anche quattro volte superiori. La morte di Zapata, cui si accennava, ha portato a conoscenza del grande pubblico l’esistenza di altri dissidenti che coraggiosamente affrontano il regime con incredibile coraggio e speranza.
Tra questi il celebre Guillermo Farinas, psicologo e giornalista che lo scorso 23 febbraio aveva cominciato un lunghissimo sciopero della fame che lo ha ridotto alla condizione di uno spettro, ormai solo pelle e ossa. Farinas ha interrotto proprio in questi giorni la sua protesta grazie alle trattative tra chiesa cattolica e regime, che hanno portato alla liberazione di 52 prigionieri politici. Ma se queste notizie sono più o meno note, molto meno conosciuto è il fatto che uno dei motivi che hanno spinto diversi cubani a dare la propria vita per combattere il regime – oltre alla mancanza di libertà, politica ed economica –, è la dissoluzione morale del paese promossa dal regime di Castro.
Già in un messaggio ai presidenti statunitense e centroamericani in occasione del vertice di Costa Rica, del 7 maggio 1997, i dirigenti degli esuli cubani descrivevano il dramma della loro isola anche sottolineando l’“enorme tragedia di un’isola carcere comunista con i più elevati indici di suicidi e di aborti dell’emisfero e con una prostituzione, anche infantile, che ha trasformato Cuba in un vergognoso ‘paradiso sessuale’ per turisti senza scrupoli” (Cristianità, n. 265-266, 1997).
Quando Castro andò al potere, infatti, dichiarò in più occasioni un concetto che anche i bolscevichi russi avevano espresso chiaramente sin dalle origini: il comunismo realizzerà il bene dei lavoratori e dei proletari, e la nuova condizione sociale ed economica eliminerà anche la piaga della prostituzione. Quanto all’aborto, si proclamò che la sua legalizzazione avrebbe sconfitto prima l’aborto clandestino e poi l’aborto stesso.
Le cose, a Cuba come nell’Unione Sovietica, non sono andate propriamente così. Per tanti anni Cuba è stato uno dei paradisi per pedofili del mondo, in cui giungevano persone da vari paesi, sapendo di trovare giovani donne ed anche bambine, disposte a tutto, per qualche soldo. Con il regime che non solo chiudeva gli occhi, ma in molti casi favoriva lo squallido commercio del turismo sessuale, pur sempre portatore di ricchezza.
Chiaramente, insieme alla prostituzione e alla pedofilia, nell’isola si è diffusa terribilmente la piaga dell’aborto: secondo alcune fonti tra il 1968 e il 1996 si sono registrati 5,6 milioni di nati vivi e si sono effettuati 2,3 milioni di aborti.
Un dato sicuro, di cui semmai si può dubitare che sia per difetto, sono i centomila aborti annui che si compiono in questo paese, con solo undici milioni di abitanti! Una cifra che colloca Cuba ai primissimi posti al mondo per ricorso all’interruzione violenta di gravidanza, nonostante nel paese vi sia un altissimo ricorso alla contraccezione (ne fanno uso circa il 72 per cento delle donne) e persino alla sterilizzazione, secondo gli insegnamenti del Cenesex (Centro nazionale di educazione sessuale di Cuba), oggi diretto da Mariela Castro Espìn, figlia di Raul. Ai centomila aborti legali di Cuba, vanno poi aggiunti quelli forzati, a scopo di “ricerca” e di “cura”. La radicale Mirella Parachini ricorda infatti che a Cuba, secondo la testimonianza di molti medici locali, tessuti fetali e neuronali vengono procurati a scopo di ricerca o di cura, a scapito di piccole e innocenti vite umane. Dopo aver richiamato la testimonianza della dottoressa cubana Hilda Molina, secondo la quale a Cuba la medicina rigenerativa vive di “sostanza nera fetale” procurata anche nei modi più delittuosi, per fornire a malati stranieri cure presunte, che fruttano però soldi verissimi allo stato, la Parachini scrive: “Altri due dottori che avevano lavorato al Ciren (Centro Internacional de Restauración Neurológica de Cuba) sono scappati da Cuba e dall’esilio hanno denunciato come a quei malati di Parkinson, per lo più stranieri, che pagavano in dollari, venivano praticati questi innesti di materiale fetale (con esiti tutti da dimostrare, ndr). Il dottor Antonio Guedes racconta che quando il centro ne aveva necessità urgente, in qualche centro ginecologico venivano ingannate delle donne in gravidanza, veniva loro detto che il figlio che aspettavano aveva gravi malformazioni, e veniva offerta la strada dell’aborto. Il tessuto era così procurato facilmente. Il dottor Julian Alvarez ha scritto un libro, Artigiani della vita. Spiega come a Cuba “attualmente si realizzano centomila aborti ogni anno. Il Ciren si trova di conseguenza a ottenere, con relativa facilità, il tessuto embrionale per il suo impiego in questi trattamenti”. Alvarez specifica che le donne danno il loro consenso sia per l’aborto che per la cessione del materiale biologico alla medicina, ma poi aggiunge un dettaglio non rassicurante: “tutti quelli che conoscono da dentro la vita di Cuba, sanno che le ‘pazienti’ non possono decidere nulla in merito. Molti degli aborti o ‘interruzioni’ si fanno in accordo con le necessità del Ciren” (http://salute.aduc.it/staminali/articolo/cuba+ricerca+democrazia+binomio+inscindibile_8359.php
; per la Molina vedi Repubblica 13/8/1995: “Per assicurare al governo preziosa valuta estera, una dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha scritto ieri il quotidiano britannico Independent in una corrispondenza dall’America latina basata sulle confessioni della dottoressa Hilda Molina, la quale ha personalmente eseguito i trapianti, che fruttavano al governo fino a ventimila dollari ciascuno”).
Ancora oggi tra gli oppositori in carcere dei fratelli Castro, spiccano le figure di Eduardo Dìaz Fleitas, vicepresidente del movimento clandestino “5 agosto”, colpevole di aver protestato contro l’aborto forzato nel paese, e soprattutto quella del medico cattolico Oscar Elìas Biscet. Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla vita. Nello stesso anno 1997 il dottor Biscet ha effettuato uno studio per documentare le tecniche di aborto utilizzate nell’ospedale Hijas de Galicia. Lo studio, che espone rivelazioni raccapriccianti su infanticidi, aborti forzati e sull’uso del Rivanol come abortivo utilizzato sino alla XXV-XXVI settimana, è intitolato: Rivanol. Un metodo per distruggere la vita. In questo lavoro sono enumerati i metodi abortivi comuni utilizzati nel sistema sanitario cubano e si denuncia che nel caso di fallimento del Rivanol, cioè in un’alta percentuale di casi, il bambino viene ucciso per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza.
Inoltre Biscet elenca statistiche preoccupanti su quanto siano numerosi gli aborti su bambine molto piccole, probabilmente vittime del turismo sessuale e della promiscuità ormai diffusa.
Le conseguenze della battaglia pro life di Biscet non tardano ad arrivare: nel febbraio 1998 viene ufficialmente espulso del Sistema sanitario nazionale.
Ma Biscet continua a portare avanti la sua battaglia in difesa della vita tramite manifestazioni davanti agli ospedali e scioperi della fame, alternando libertà e carcere. Amnesty International e Freedom Now ricordano che Biscet è stato arrestato il 3 novembre 1999 e rilasciato il 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”. Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi è in condizioni terrificanti. Secondo Human rights first, Biscet, “difensore dei diritti umani”, soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua. Quello che però non si capisce bene, leggendo buona parte dei comunicati di Human rights first, come del resto quelli di Amnesty International, sono due cose: che il diritto umano primario per cui Biscet si batte è quello alla vita (“No a la pena de muerte, no al aborto”); e che nella sua lotta questo eroe sconosciuto è sostenuto dalla fede e dalla preghiera.
Paradossalmente sono verità, almeno la prima, che neppure il regime vuole far conoscere, visto che Biscet è in galera, ufficialmente, per motivi politici.
Molto più espliciti i siti cubani, di esuli o di suoi amici ed estimatori, che dicono apertamente che Biscet e la sua fondazione combattono per la libertà dei prigionieri e di tutti, e “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, “derechos fundamentales para la sociedad y el individuo”. Inizia infatti così un appello del dottore cubano ai suoi colleghi medici, il cui unico fine dovrebbe essere “promuovere la salute e preservare la vita”: noi siamo in difesa della famiglia, “la cellula fondamentale della società. La famiglia che è oggi in crisi per un sistema che promuove e stimola la mentalità antinatalista con metodi che offendono la dignità umana. Ci riferiamo all’aborto, crimine abominevole”, violenza contro la persona umana. E finisce: “Diciamo no alla pena di morte per aborto, eutanasia o fucilazione… Abbasso l’aborto, abbasso la pena di morte, viva il diritto alla vita”.
«Il Foglio» del 31 luglio 2010

30 luglio 2010

Tutti eguali di fronte al concorso

di Irene Tinagli
Dopo tante polemiche e dopo tanta pazienza, Mariastella Gelmini finalmente esulta. E ha molte ragioni per farlo.
La sua Riforma è stata approvata ieri in Senato, con un impianto sostanzialmente integro, non stravolto dalle centinaia di emendamenti che rischiavano di snaturarlo completamente. Ma l'approvazione del ddl non è solo un ottimo successo per il ministro, ma anche, nel complesso, un buon passo avanti per l'Università Italiana.
Alcune delle misure introdotte rappresentano delle innovazioni «culturali» sicuramente di rilievo, perché per la prima volta si introduce l'idea di valutazione sia sulle attività degli Atenei che sulle attività dei singoli docenti, anche i professori quelli già inseriti nel sistema. Le valutazioni non sono drastiche e mieteranno forse meno vittime del previsto, ma intanto viene introdotto nel sistema il «germe» della valutazione, del «merito», quel cambiamento culturale che per anni è stato oggetto di tanta retorica e annunci, ma rarissime azioni concrete.
Il decreto prevede numerose novità anche nella gestione e nella governance accademica, ma il punto che ha suscitato maggiori polemiche e che più tende a rompere vecchie logiche di funzionamento è quello che riguarda la figura dei ricercatori, che diventano a tempo determinato, per un massimo di 6 anni (quindi niente più ricercatori a vita), e le procedure di assunzione dei nuovi professori, che passeranno tutte attraverso un concorso di abilitazione nazionale (con commissione tirata a sorte) di fronte al quale ogni concorrente sarà trattato alla pari. Nessun favoritismo o priorità per chi è già nel sistema, magari da anni, nessuna ope-legis: tutti uguali di fronte al concorso. Certo, una volta ottenuta l'abilitazione, si entra in una lista unica e le Università sono libere di chiamare e dare priorità a chi vogliono all'interno di tale lista, ma per facilitare la mobilità è l'immissione di «esterni» il decreto prevede che tra i nuovi assunti di ciascuna Università ci sia una quota minima (un terzo per i professori di prima fascia) di persone che non erano già nell'Ateneo in questione.
L'introduzione di queste «quote outsider» mette forse un po' di tristezza, facendoli apparire quasi come specie da proteggere, ma visto come sono andate le cose fino ad oggi, appare l'unico modo per arginare vecchie pratiche di assunzioni «incestuose» dentro gli Atenei. Queste regole sull'assunzione saranno ancora più efficaci se saranno veramente abbinate a tutte le misure citate dall'articolo 5 del decreto, in cui si prevedono valutazione e premi per le università che avranno effettivamente seguito criteri aperti e internazionali nell'assunzione dei nuovi docenti, nonché' valutazioni regolari delle attività dei docenti anche dopo che sono stati assunti. Tali misure purtroppo sono solo citate nel decreto e demandate a successivo decreto attuativo del Governo, ma, se attuate secondo le modalità e gli indirizzi indicati nel decreto, rappresenterebbero una mezza rivoluzione e renderebbero molto più completa la Riforma.
Nel complesso, questo insieme di nuove regole, se riuscisse a passare indenne anche l'approvazione della Camera e venire poi supportata da buoni decreti attuativi, potrebbe davvero incoraggiare gli studenti più bravi a perseguire la carriera accademica e forse anche a convincere molti «cervelli» italiani emigrati all'estero a tentare la strada del rientro.
C'è un solo pezzo che manca, di cui nessuno parla, ovvero l'apertura del sistema non solo ai giovani italiani, ma anche a quelli stranieri. Su quel fronte la nuova riforma difficilmente potrà far fare grossi progressi. Il sistema ancora in piedi dei concorsi nazionali (in quale lingua?), con relativi iter burocratici, gazzetta ufficiale e così via, per non parlare dei salari ancora bassi, assai poco competitivi nel panorama internazionale, così come i fondi di ricerca ridotti all'osso non renderanno il nostro nuovo sistema universitario particolarmente attraente per gli stranieri. Quindi, anche se gli Atenei avranno incentivi all'internazionalizzazione del loro corpo docenti, difficilmente riusciranno ad attrarre docenti dall'estero, soprattutto i più bravi. Ad ogni modo, c'è da sperare che, una volta create le condizioni di un mercato interno più funzionale, meritocratico e trasparente, il resto si possa costruire su su. Insomma, un passo forse non totalmente sufficiente, ma certamente necessario.
«La Stampa» del 30 luglio 2010

Cinque miti sul protezionismo

di Jagdish Bhagwati
L'anno scorso a un dibattito intitolato Buy american, hire American: policies will backfire («Le politiche ispirate al "compra americano, assumi americani" avranno un effetto contrario a quello auspicato»), svoltosi a New York alla presenza di centinaia di persone, il mio team composto da tre promotori del libero commercio ha sfidato un terzetto di sostenitori del protezionismo, molto noti e spesso sotto i riflettori.
Ci aspettavamo di perdere il favore del pubblico con una percentuale di 45 a 55, ma in realtà abbiamo inflitto loro una cocente sconfitta, aggiudicandoci il favore del pubblico con una percentuale impensabile di 80 a 20. Il feedback di numerosi tra i presenti è che abbiamo prevalso facilmente poiché avevamo portato le «motivazioni e prove», laddove i nostri avversari avevano presentato «affermazioni e invettive».
Evidentemente, oggi il pessimismo che spesso opprime i sostenitori del libero commercio è ingiustificato. Le tesi dei protezionisti, vecchi e nuovi, sono semplici miti che è possibile contestare e sfatare facilmente. Prendiamone in considerazioni alcuni tra i più noti.

1 - I costi del protezionismo sono trascurabili.
Questo, naturalmente significa che se il protezionismo è conveniente da un punto di vista politico, non si dovrebbero versare lacrime perché si infliggono sacrifici al paese adottandolo, atteggiamento che molti democratici degli Stati Uniti trovano conveniente seguire. Paradossalmente, questo mito è stato il prodotto di una metodologia inappropriata, scaturita dalla ricerca del mio illustre professore di Cambridge Harry Johnson, rimasta alquanto inesplicabilmente la tesi favorita del mio illustre studente del Mit Paul Krugman sin dagli anni 90. Mentre però questi temi continuano a funzionare bene a Washington, nessun serio studioso li fa suoi, grazie alle convincenti confutazioni pubblicate nel 1992 da Robert Feenstra, il più illustre studioso "empirico" odierno delle politiche commerciali, e nel 1994 da Paul Romer della Stanford University.

2 - Il libero commercio può accrescere il benessere economico, ma non va bene per la classe dei lavoratori.
Questa affermazione gode di grande attendibilità presso i sindacati dei lavoratori che credono che avere rapporti commerciali con i paesi poveri provochi ristrettezze nei paesi ricchi. Di conseguenza, essi sostengono che è necessario spianare il terreno di gioco, per esempio che è opportuno che le spese dei loro concorrenti nei paesi poveri siano aumentate, imponendo i medesimi standard lavorativi che esistono nei paesi ricchi. L'uso orwelliano di definizioni come "commercio equo" maschera il fatto che questa altro non è che un'insidiosa forma di protezionismo che cerca di moderare la concorrenza nelle importazioni. Molti economisti, ciò nonostante, sono giunti alla conclusione che il principale colpevole della stagnazione che si osserva oggigiorno negli stipendi dei paesi ricchi è la continua innovazione tecnologica che incide profondamente tagliando la manodopera, e non certo il commercio con i paesi poveri. Oltretutto, i lavoratori possono approfittare loro stessi dei prezzi più bassi di prodotti importati quali abbigliamento e articoli elettronici.

3 - Il libero commercio comporta che anche gli altri paesi debbano aprire i loro mercati.
Questo ritornello si ripete ogniqualvolta negli Stati Uniti s'insedia una nuova amministrazione. Questi dati, tuttavia, sono spesso inventati, e il ragionamento che ci sta dietro non è affatto convincente. Le case automobilistiche statunitensi, per esempio, negli anni 80 - quando il Giappone andava molto forte - si lasciarono convincere che il Giappone fosse un mercato chiuso e gli Usa un mercato aperto. In realtà, erano gli Usa ad aver fissato una soglia di 2,2 milioni di vetture giapponesi, mentre il mercato giapponese era sì aperto, ma era difficile entrarci. Adesso si ripete lo stesso ritornello per la Cina. Anche se le altre economie fossero chiuse, le economie aperte trarrebbero in ogni caso vantaggi dal loro libero commercio. Un certo scetticismo circolò a proposito di questa indubitabile verità quando si sostenne che con il Giappone mercato chiuso e gli Usa mercato aperto, le aziende giapponesi avrebbero avuto due mercati, mentre quelle americane ne avrebbero avuto uno solo. Si arrivò ad affermare che le prime avrebbero avuto costi unitari inferiori rispetto a quelli delle seconde. Il problema, invece - come sempre - è l'assunzione che le aziende giapponesi possano continuare a essere efficienti quanto quelle americane, malgrado il protezionismo.

4 - Paul Samuelson ha sconfessato il libero commercio, ed è stato il più grande economista della sua epoca.
La seconda parte di questa affermazione è sicuramente vera, ma la prima, ribadita da molti protezionisti, non lo è. Perfino Hillary Clinton, durante la sua campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, ha erroneamente fatta sua questa affermazione sbagliata. Tutto ciò che Samuelson ha dimostrato è che qualsiasi cambiamento esogeno potrebbe nuocere a un'economia commerciale. Non ha sostenuto che la reazione più appropriata a questa sfortunata evenienza sia abbandonare il libero commercio. Potremmo prendere in considerazione la seguente analogia: se la Florida fosse devastata da un uragano, il suo governatore non farebbe che peggiorare le cose se rinunciasse ai commerci con gli altri stati.

5 - Delocalizzare i posti di lavoro comporterà devastanti conseguenze per i paesi ricchi.
Questa preoccupazione nacque durante la fallita campagna elettorale per la presidenza del 2004 del senatore John Kerry, periodo in cui le radiografie digitalizzate erano spedite in India dal Massachusetts General Hospital di Boston per essere refertate. Da allora, tuttavia, nessun radiologo ha perso il proprio posto di lavoro negli Stati Uniti, né i suoi guadagni sono diminuiti. In verità, è evidente che l'aumentata commerciabilità dei servizi non ha scatenato alcuno tsunami economico nei paesi ricchi.
Spesso i posti di lavoro che sarebbero scomparsi in ogni caso - per colpa degli alti costi negli Stati Uniti e in altri ricchi paesi - sono ricomparsi quando i costi si sono abbassati, fornendo così servizi che in caso contrario sarebbero andati perduti. Di conseguenza, famosi teorici preoccupati per la delocalizzazione come Alan Blinder si sono adesso orientati a sostenere semplicemente che una maggiore commerciabilità dei servizi significa che dovremmo estendere gli Adjustment Assistance Programs in vigore da tempo a favore delle attività commerciali in crisi in modo da includere i servizi. Al che i sostenitori del libero commercio rispondono: nessun problema su questo.
(traduzione di Anna Bissanti)
«Il Sole 24 Ore» del 30 luglio 2010

Basta Europa e Banca mondiale. L'Africa preferisce la Cina

di Riccardo Barlaam
Anche in Italia si sono accorti che conviene investire in Africa. L'ultima analisi del rischio paese della Sace (la compagnia pubblica che assicura le aziende italiane all'estero) indica il Sudafrica come primo paese del continente nero a ottenere una categoria di rischio bassa come mercato emergente dalle mille opportunità. Non è una novità.
La Rainbow nation fa parte del G 20, produce un terzo del Pil dell'intero continente. E ha ben 32 aziende nella classifica delle prime 50 aziende africane per fatturato. Il successo dell'organizzazione dei Mondiale di calcio, poi, con investimenti per circa 3 miliardi di dollari è sotto gli occhi di tutti. Ironia della sorte il rapporto Sace con le sue tardive conclusioni arriva quando la partita è stata già giocata e probabilmente persa. I vecchi paesi coloniali sono stati spiazzati dall'avanzata cinese che in pochi anni ha cambiato il volto del continente e mischiato le carte. Dove l'Europa, con il suo paternalismo post coloniale prometteva la Cina con la diplomazia del sorriso, come formiche operose senza troppo clamore faceva, realizzava. Dove la Banca mondiale o i Grandi della terra, nei vari G 8 promettevano, la Cina ancora faceva. Fa bene per questo l'ad di Sace Alessandro Castellano a suggerire ora alle imprese italiane di «sfruttare l'asse tra Africa e Cina.
Dal 2000 a oggi gli investimenti cinesi in Africa sono cresciuti in maniera esponenziale: hanno raggiunto i 20 miliardi di dollari, erano 7,8 miliardi nel 2000. La Cina è diventata il primo esportatore mondiale di prodotti industriali. La sua economia cresce a tassi mai conosciuti in precedenza, con fabbriche e cantieri caratterizzati da un insaziabile bisogno di materie prime: petrolio, minerali, legname. Nel 2008 le importazioni cinesi di questi prodotti dall'Africa ammontavano, in valore, a 56 miliardi di dollari, superiori a quelle degli Stati Uniti.
Non solo. Con oltre un miliardo di consumatori a basso reddito, centinaia di grandi città da risanare, un enorme arretrato di infrastrutture da costruire o modernizzare, l'Africa è anche un immenso mercato per grandi e piccole imprese cinesi che possono fornire e realizzare tutto ciò di cui il continente ha bisogno, dai vestiti ai televisori, dagli aeroporti alle reti di telefonia, dalle fabbriche di cemento agli zuccherifici. Nel 2008 le esportazioni cinesi in Africa ammontavano a 51 miliardi di dollari: il conto tra import ed export è così quasi pareggiato. In pochi anni la Cina è riuscita quindi a decuplicare l'interscambio con i paesi del continente nero. Con la diplomazia del sorriso. Con pragmatismo e non interferenza nelle questioni interne.
Determinanti per la crescita delle relazioni economiche sono stati i Forum di cooperazione Cina-Africa (Focac). Se ne sono svolti quattro finora. L'ultimo nel 2009 in Egitto. Un vertice bilaterale un po' particolare, tra uno stato sovrano – la Cina appunto – e un intero continente. Da questi forum è nata CinAfrica. Qualche giorno fa inoltre è arrivato anche il sigillo dai paesi africani su questo patto di ferro. Durante l'ultimo vertice dell'Unione africana che si è svolto a Kampala, in Uganda, terminato martedì scorso, è venuta fuori una dichiarazione che ha il sapore del congedo dall'Europa e le sue politiche di aiuto e dai complicati programmi di aiuto della Banca mondiale.
Il commissario all'economia dell'Unione africana Maxwell Mkwezalamba ha detto che ormai «l'Africa può fare a meno degli aiuti delle nazioni occidentali e della banca mondiale. Per lo sviluppo e l'integrazionedell'Africa siamo stati per troppotempo dipendenti delmondo occidentale non possiamo continuare così», ha spiegato ai giornalisti Mkwezalamba. Questo non vuol dire che faranno da soli gli africani, ma che sono aperti («sono i benvenuti») ai partner che vogliono lavorare assieme alla Cina per l'Africa. Mkwezalamba ha spiegato che le condizioni restrittive e le complicazioni burocratiche poste dai partner tradizionali europei e americani e da organizzazioni come la Banca mondiale per avere i prestiti agevolati e i finanziamenti hanno avuto come conseguenza il fatto che le nazioni africane si siano gettate nelle braccia della Cina. Che al contrario non è interessata alle questione interne ma solo al business. «Non ci serve a molto sapere che la Banca mondiale ha deciso oggi di concederci prestite agevolati per 100 milioni di dollari, se poi passano più di due anni per dar luogo a quella promessa», ha concluso». Ciao, ciao sembrano dire all'occidente gli africani: preferiamo i cinesi alle vostre promesse vuote.
«Il Sole 24 Ore» del 30 luglio 2010

Il Mare nostrum in un bicchiere

Dall’enologia del Neolitico a quella dei Galli tramite il «classico» nettare degli dei. Una rassegna su vino e Mediterraneo
di Massimo Centini
In vino veritas: e la verità è il luogo della bellezza, come ci conferma la mostra Vinum nostrum. Arte, scienza e miti del vino nelle civiltà del Mediterraneo antico, allestita a Firenze (fino al 15 maggio prossimo) nel Museo degli Argenti di Palazzo Pitti. Il catalogo della mostra (edito da Giunti) è curato da Giovanni Di Pasquale, Annamaria Ciarallo e Ernesto De Carolis.
Effettivamente questa rassegna ha il ruolo di porre in rilievo non solo gli aspetti eminentemente archeologici e antropologici del rapporto uomo/vino, ma ci consente di scorgere come il «nettare degli dei» sia stato un fondamentale catalizzatore all’interno del linguaggio artistico.
A Palazzo Pitti il compito di raccontare la nascita e la diffusione della coltura delle vite e della produ­zione del vino è affidata a tutta una serie di reperti, che sono il fil rouge di un viaggio nel mondo antico tra Vicino Oriente e baci­no del Mediterraneo.
L’archeologia ci informa che già nel Neolitico l’uo­mo ebbe modo di apprez­zare il prodotto della fer­mentazione dell’uva: qua­si certamente fu un effetto casuale, di cui non resta­no che flebili tracce in cocci di ceramica. Sarà poi nella civiltà ellenica che il vino troverà il pro­prio «luogo» di afferma­zione. Inoltre, il vino (e in un’altra misura l’olio) ha rappresentato uno dei se­gni di civiltà di una cultu­ra fiorita sulle sponde del Mediterraneo: quell’ine­briante bevanda aveva trovato in quei luoghi un proprio fertile territorio in cui le alchimie della vinifi­cazione erano giunte dalle terre a Est.
Seguendo un itinerario che è prevalentemente cronologico, la mostra traccia un racconto scan­dito dal sapere delle cul­ture in cui il vino ha occu­pato una posizione rile­vante, non solo dal punto di vista enologico; quindi sceglie di soffermarsi sulle implicazioni simboliche, che hanno il loro back­ground nel mito e nella religione.
Per la diffusione del vino svolsero un ruolo deter­minante fenici ed etru­schi, artefici della coltiva­zione della vitis vinifera nel Mediterraneo. Greci e eomani fecero il resto, portando il vino a emble­ma della cultura italica.
Un emblema ambito e in­vidiato: lo conferma il mai esausto mito dei galli che invadono l’Italia attirati dal vino, contro il quale nulla potevano sidro e i­dromele… A Firenze, per parlarci del­l’importanza del vino nel mondo antico, ci sono coppe e servizi da tavola, vetri e contenitori in me­tallo prezioso: oggetti spesso affini all’oreficeria di alto livello. Ma contri­buiscono a scandire la storia del vino oggetti d’u­so quotidiano, strumenti per la lavorazione e il tra­sporto delle uve, anfore e altri oggetti che la ricerca archeologica ha riportato alla luce. Materiali che, opportunamente studiati e correlati alle puntuali te­stimonianze della lettera­tura latina, consentono di ricostruire ambienti, me­todi e aspetti meno tecni­ci e più ludici. Attraverso le raffigurazio­ni artistiche è quindi pos­sibile ridisegnare ban­chetti, feste e rituali in cui il vino attraversava tra­sversalmente simposi e culto, piacere della com­pagnia e illusioni della trasgressione.
La mostra ha una naturale appendice in una serie di itinerari nell’antica Eno­tria (tra la Campania e la Basilicata): vengono infat­ti suggerite visite a Pom­pei dove l’eruzione del Ve­suvio del 79 d.C. sigillò tracce di viticoltura oggi reimpiantate. E poi le altre località note attraverso gli autori classici che ne can­tano il ruolo determinante nella produzione del vino: il Falerno, il Pompeiano, il Sorrentino. E ancora I­schia, l’antica Pithecusae, nel cui museo archeologi­co si trova la testimonian­za più antica della viticol­tura campana «La coppa di Nestore» datata a circa 3000 anni fa.
In Lucania sarà possibile ricercare le tracce della popolazione autoctona più antica: gli Enotri, che abitavano l’Enotria, cioè la terra del vino… Nell’area del Vulture si trovano estesi vigneti col­tivati ad aglianico: il ter­mine che qualcuno consi­dera la corruzione di vitis hellenica, il vitigno che se­condo la tradizione mag­giormente diffusa (ma non priva di campanili­smo) fu importato dall’an­tica Grecia dagli Enotri: autentici iniziatori dell’ar­te di produrre una bevan­da che non per niente è considerata «degli dei»…
«Avvenire» del 30 luglio 2010

E Solov’ëv smascherò l’Anticristo

Moriva il 31 luglio del 1900 il filosofo russo citato nella «Fides et Ratio», che gettò un ponte fra Oriente e Occidente
di Filippo Rizzi
Centodieci anni fa, il 31 luglio del 1900, a Uzkoe, presso Mosca, si spegneva Vladimir Sergeevic Solov’ëv. Aveva quarantasette anni ed era nella pienezza del suo fervore intellettuale e religioso. Un autore che aveva lasciato una traccia indelebile nella letteratura e filosofia/teologia russa del suo tempo, con capolavori come le Lezioni sulla Divinoumanità, I fondamenti spirituali della vita e soprattutto quello che viene considerato il suo testamento spirituale, I tre dialoghi.
Ad ascoltarlo erano accorse personalità del calibro di Dostoevskij e Tolstoj. Per la sua passione per i Padri della Chiesa fu definito amabilmente da Bernard Dupuy l’«Origene dei tempi moderni». Hans Urs von Balthasar lo accostò a Tommaso d’Aquino come «il più grande artefice di ordine e di organizzazione nella storia del pensiero». Anche Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio lo collocò tra i pensatori che hanno condotto una «coraggiosa ricerca» sul rapporto tra filosofia e parola di Dio, assieme a figure come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain e Pavel Florenskij.
«Uno dei motivi della sua grandezza – rileva Adriano Dell’Asta , docente di Letteratura russa all’Università Cattolica di Milano e direttore dell’Istituto italiano di cultura a Mosca – è proprio l’aver realizzato una sintesi armonica tra fede e ragione, tra teologia e filosofia. Per Solov’ëv la pienezza dell’uomo si raggiunge solo quando questi si apre alla fede e la fede gli si spalanca, permettendogli uno sviluppo integrale delle sue facoltà e di viverle in pienezza». Dell’Asta ricorda poi il suo cristocentrismo, così affine a quello di Dostoevskij, l’interesse per Hegel e Kant, di cui fu un eccellente traduttore e divulgatore, la concezione divino-umana di Cristo proclamata dal Concilio di Calcedonia come il filo rosso della sua ricerca teologica, così come la grande tenerezza con cui parlava del Salvatore: «Si racconta spesso questo aneddoto: molti amici gli chiedevano perché si facesse il segno della croce prima di una conferenza o di mangiare. E flemmatica era la sua risposta: 'Non voglio che nessuno possa sospettare che io mi vergogno del mio Cristo'. Il suo era un cristianesimo senza compromessi».
Un debito di riconoscenza verso Solov’ëv lo serba Michelina Tenace, docente di Antropologia teologica alla Pontificia Università Gregoriana, e che è stata tra le prime in Italia a studiarlo in profondità dal punto di vista teologico, grazie ai suggerimenti dei suoi «maestri di sempre», il gesuita Marko Ivan Rupnik e il cardinale Tomáš Špidlík: «Riprendendo e radicalizzando un’espressione di Dostoevskij, Solov’ëv afferma che 'la bellezza salva il mondo'. Cosa significa concretamente? La salvezza è già in atto lì dove la materia si lascia trasfigurare dalla forza del contenuto divino, dalla luce, dalla vita, dall’amore. La bellezza quindi ha a che fare con la discesa dello Spirito Santo (ispirazione) e con la trasfigurazione della realtà in vista del Figlio».
L’ultimo scritto del pensatore russo è senz’altro quello più celebre, il Breve racconto sull’Anticristo. Il testo narra di un uomo dotato di virtù eccezionali che riesce a pacificare l’umanità e sa anche ridare unità ai cristiani divisi da secoli di separazioni e scismi. La sua opera viene contrastata e sconfitta e lui smascherato come l’Anticristo da un nucleo irriducibile di cristiani. «L’inganno più pericoloso dell’Anticristo è nel far credere – commenta il critico letterario de La Civiltà Cattolica , il gesuita Ferdinando Castelli – che sia lui il vero Messia, il salvatore, venuto a perfezionare anzi a correggere l’opera di Cristo. Il profeta della Galilea ha complicato la vita, l’ha resa dura, violenta, impraticabile; egli, al contrario, la rende facile e piacevole perché elimina le divisioni e le contraddizioni. E nella società odierna dei cosiddetti consumi facili, di una certa messianicità alla portata di tutti, noi siamo sedotti e tentati di seguire il richiamo di questo Anticristo, piuttosto che il vero messaggio evangelico».
Un saggio che, secondo il sacerdote ortodosso e docente di Letteratura russa alla Cattolica di Brescia, Vladimir Zelinskij, deve essere riletto anche nella sua forte tensione ecumenica: «Per tutta la vita egli ricercò l’unità visibile nella storia, tuttavia nella sua ultima opera profetizzò il ritorno all’unità non prima del Giudizio finale. La sua eredità più grande è il messaggio di riconciliazione fra Oriente e Occidente cristiano, fra l’intelligentsia agnostica e la Chiesa, fra il cristianesimo e il popolo ebraico, fra la razionalità e la mistica, così come la ricerca di una risposta comune alla sfida delle forze anticristiane. Un lascito che a 110 anni dalla sua morte resta ancora da scoprire e vivere pienamente».
Nelle pagine dell’Anticristo vive sottotraccia la discussione con l’autore di Guerra e pace – a cui Solov’ëv indirizzò nel 1894 una lettera sulla Resurrezione di Cristo – sull’autenticità del messaggio evangelico. «La parabola letteraria dell’Anticristo richiama l’urgenza di un discernimento da parte dei cristiani di fronte alla falsificazione del 'bene' – sottolinea la Tenace –: è falso quel bene che rende vana la croce di Cristo, vana la fede nella Resurrezione, vana la Rivelazione divina. Persino il Vangelo può diventare ideologia, ossia teoria sulla pace, sul benessere e la riconciliazione. Questo è il motivo della sua opposizione a Tolstoj».
Tre anni prima di morire, il 13 febbraio 1896, Solov’ëv aderì alla Chiesa cattolica, sostenendo che essa è fondata su Pietro «il pastore del gregge di Cristo». «Solov’ëv nell’arco della sua breve vita – è la riflessione finale di padre Castelli – ha difeso la Rivelazione cristiana dal materialismo e positivismo dominanti in quegli anni in Russia. Non ha soprattutto voluto relegare Cristo in un ambito puramente umano e filantropico. Contro questa corrente si è schierato assieme a Dostoevskij. Entrambi hanno testimoniato, in opere dense di dottrina e di arte, che senza Cristo, Verbo incarnato, Dio si confonde con gli idoli e l’uomo si configura a un viandante senza meta. L’idea portante del suo dramma sull’Anticristo è nell’affermazione trionfale: 'Il nostro signore è Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente'. E in questo sta la sua cifra di grande pensatore e di cristiano».
Ferdinando Castelli: «Non ha voluto relegare Cristo in un ambito umano e filantropico». Michelina Tenace: «Ha denunciato quel falso 'bene' che rende vana la Croce e la Resurrezione» Adriano Dell’Asta: «Il suo era un cristianesimo senza compromessi». Vladimir Zelinskij: «Un messaggio di riconciliazione fra razionalità e mistica»
«Avvenire» del 30 luglio 2010

E se i Tartari fossero arrivati?

Domenica inizia la serie agostana di «Avvenire»: quest’anno gli scrittori reinventano personaggi e classici della letteratura
di Fulvio Panzeri
I libri non sono solo degli scrittori che li hanno scritti. Loro sono gli autori. Per vivere le storie hanno però bisogno dei lettori, nel loro immergersi nelle pagine, nel fluire delle vicende e trovarvi sentimenti ed emozioni, oltre alla possibilità di immaginarsi, di entrare e di vivere, in un mondo diverso da quello della quotidianità. In questo ruolo 'creativo' che ha il lettore c’è anche la possibilità di non essere d’accordo sui destini che lo scrittore ha voluto per i vari personaggi o il desiderio di un altro finale che potrebbe intrigare di più rispetto a quello che ha pensato l’autore. In qualche modo anche il lettore, giocando con le storie, ne diventa un ipotetico costruttore e spesso le reinvenzioni che ha immaginato rimangono senza occasione di confronto: una questione strettamente personale.
Negli anni Sessanta e Settanta, in tempi di aggiornamenti e di giochi letterari più frequenti di oggi, erano varie le iniziative, anche sulle riviste, in cui si chiedeva agli scrittori di immaginare nuovi finali o di rileggere i destini dei personaggi dei grandi classici. Si veda ad esempio una serie radiofonica diventata molto popolare, quella delle Interviste impossibili, che come metodo ha a che vedere con questo tipo di invenzione, ma anche la popolare serie televisiva Biblioteca di Studio Uno, che raccontava negli anni Sessanta, in musical grazie al Quartetto Cetra, i grandi 'classici', un controcanto al successo dei 'teleromanzi' che facevano conoscere, in un’altra ottica, Tolstoj e Bacchelli, Manzoni e Stevenson. Al di là delle singole iniziative, la voglia di entrare nei libri degli altri, soprattutto in quelli che hanno assunto una funzione simbolica, per destrutturarli, reinventarli, parodiarli, è sempre stata una tentazione forte per gli scrittori, che hanno scelto via via varie angolature per riscrivere il loro classico: dal romanzo in cui le situazioni vengono attualizzate alla parodia fino alla sceneggiatura cinematografica. Si pensi a quanta fortuna in questo senso abbiano avuto Ulisse e Pinocchio, riletto secondo nuove ipotesi pedagogiche, con un’ultimissima reinvenzione di Silvano Agosti con Il ritorno di Pinocchio da poco uscito presso Salani. Per non parlare de I promessi sposi, dalle parodie di Guido da Verona e di Piero Chiara all’esperimento per il cinema di Giorgio Bassani fino alla reinvenzione teatrale di Testori, con I Promessi sposi alla prova, autore che ha tratto dalla rilettura dei grandi classici la forza della sua scrittura. Si pensi alle tre diverse versioni dell’Amleto shakespeariano. Anche l’ultimo romanzo di Giuseppe Bonura, I fuochi parlanti, pubblicato dopo la morte da Medusa, gioca proprio sulla reinvenzione dei destini dei grandi personaggi della letteratura che, dopo l’incendio di una biblioteca, escono dai libri in fiamme per andare in cerca di una nuova vita o di avventure diverse da quelle che abitualmente 'recitano' nei capolavori nei quali sono stati relegati.
L’appuntamento con i racconti che pubblichiamo durante il mese di agosto, da domenica prossima fino al 29, quest’anno propone un gioco di riletture dei grandi classici della letteratura di tutti i tempi, un viaggio insolito, in una biblioteca reinventata da venticinque scrittori. Sono 'classici al bivio', perché si è trattato di scegliere strade nuove, rispetto a quelle indicate in originale dai grandi autori, di valutare la possibilità di un percorso diverso, sia nel finale, sia nella vita dei personaggi. È anche un omaggio al grande amico che ha sempre partecipato con entusiasmo a questa iniziativa, Giuseppe Bonura, e al gioco che ha inventato nel già citato, ultimo romanzo, proprio quest’anno in cui si è svolta la prima edizione del Premio per la critica militante, assegnato nel maggio scorso a Todorov. È l’occasione per riscoprire, attraverso nuovi destini per i personaggi o nuovi finali, la ricchezza delle opere più famose della letteratura, con un invito alla rilettura, augurandoci che queste 'riscritture', riportimo in biblioteca, per riscoprire un grande classico. Ogni scrittore ha scelto, secondo i propri interessi, il libro da reinventare, scelte diverse che però hanno permesso di comporre una biblioteca varia, popolare, ma anche con qualche sorpresa, come diverso è l’approccio nella riscrittura di ciascun scrittore, una varietà di stili che rende anche varia l’iniziativa: si va dal racconto vero e proprio che ribalta le situazioni, in senso ironico o drammatico alla riflessione circa le possibilità di reinvenzione del testo.
In qualche caso si arriva addirittura a chiamare in gioco lo scrittore.
Scoprirete, in questo mese di agosto, come possono essere diverse le scelte di alcuni personaggi (da Ulisse a Pieta di Guerra e pace, dalla Monaca di Monza raccontata da Paola Pitagora, che è stata la Lucia televisiva per eccellenza negli anni Sessanta nello sceneggiato di Sandro Bolchi, a Madame Bovary, da Griselda, dal Decameron di Boccaccio al cagnolino del celebre racconto di Cechov) e come possono cambiare il destino di una storia.
E poi tanti nuovi finali, dai classici dell’antichità (la Bibbia e i miti greci, Edipo re), alla storia d’amore per eccellenza, Romeo e Giulietta, dal grande poema dell’Orlando furioso fino all’Ottocento con la Regina Margot di Dumas, Moby Dick, I promessi sposi, Oliver Twist, Pinocchio, Sandokan e Alice nel paese delle meraviglie. Nutrita anche la schiera dei classici del Novecento: dal Processo di Kafka a Barabba, dal Marcovaldo di Calvino al Deserto dei Tartari di Buzzati, fino a Sciascia con Il giorno della civetta e a Fenoglio con Una questione privata. Un racconto al giorno, per tutto agosto, per incontrare le 'storie diverse' delle grandi storie che conosciamo e che fondato il valore della letteratura.
Il «gioco» è come quello dell’ultimo romanzo di Bonura, «I fuochi parlanti»: caratteri in cerca di vite diverse da quelle sempre «recitate» Da Edipo re a Romeo e Giulietta, da Moby Dick a Oliver Twist: tante figure ispirano la tentazione di creare destini alternativi
«Avvenire» del 30 luglio 2010

«Famiglia, tutelare il modello italiano»

Il sottosegretario: torni lo spirito del Family Day
di Pierluigi Fornari
Intervista Roccella: oltre agli aiuti economici è necessaria una vigorosa battaglia culturale
Tornare all’ispirazione originaria del Family day. Eugenia Roccel­la, portavoce insieme a Savino Pezzotta di quella storica mobi­litazione, invita ad una rifles­sione sulle politiche in favore della famiglia per superare formule re­toriche, luoghi comuni, impostazioni riduttive. «Da quella storica mobilita­zione della società civile viene una le­zione importante. La ragione primaria del raduno di oltre un milione di ita­liani in piazza San Giovanni era la vo­lontà di dire 'no' ad uno stravolgi­mento della concezione della famiglia così come delineata nella Costituzio­ne, stravolgimento operato attraverso una sostanziale equiparazione delle coppie di fatto alla famiglia. E ciò an­che per aprire la strada al matrimonio gay. Tutto il pacchetto di misure eco­nomiche che pure indicammo nel cor­so del Family day (equità fiscale, con­ciliazione maternità - famiglia, ecc) e­ra importante in tanto quanto era im­plicito nella difesa di quella defini­zione di famiglia.

E adesso invece cosa succede?
Mi sembra che il dibattito sia appiat­tito unicamente sulle misure sociali, sulle misure economiche, e ciò indi­scriminatamente, senza esplicitare, cioè, in modo inequivocabile le pre­messe antropologiche della difesa del­la vita, del matrimonio, della famiglia. Eppure Benedetto XVI nella Caritas in veritate ha dimostrato come oggi la questione sociale sia integralmente u­na questione antropologica. Del resto l’esperienza storica dell’Europa ce lo conferma.

Si riferisce alle politiche adottate da altri Paesi europei?
C’è la tendenza a indicare questi Stati come esempi virtuosi perché le cifre degli interventi economici sono più sostanziose, trascurando di dire che in quelle nazioni la famiglia in quanto ta­le è in via di estinzione.

Ma gli aiuti economici strutturati sul­la famiglia e non sull’individuo re­stano una necessità...
Sia ben chiaro non voglio dire che il quoziente familiare non si deve fare. Si deve fare e il nostro governo lo ha posto come priorità. Allo stesso mo­do devono essere potenziati i servizi a favore della famiglia. Ma il problema di fondo, la discriminante, è salva­guardare il modello italiano, nella consapevolezza che le misure econo­miche di per sé, come appunto di­mostra l’esperienza dei Paesi stranie­ri, non bastano.

Eppure in Francia il tasso di fecon­dità è al 1,9...
A questo proposito io penso che sia necessario chiarire che politiche a so­stegno della natalità e politiche in fa­vore della famiglia non sono la stessa cosa. Nel senso che si può avere per e­sempio, come in Svezia, un rialzo del­l’indice di fertilità di qualche punto decimale nel contesto di una società dove la famiglia scompare e l’indice delle madri single è elevatissimo. Io sono a favore di una politica a soste­gno della natalità ma deve essere chia­ramente inquadrata nel contesto del­la tradizione culturale e sociale italia­na, una politica che subordini gli in­terventi monetari alla concezione del­la famiglia iscritta nella nostra Costi­tuzione.

Allora da dove partire?
Io penso che la priorità sia l’emergenza educativa, una battaglia culturale che sappia trasmettere attraverso la fami­glia alle nuove generazioni un patri­monio di valori, la ricchezza costitui­ta da ogni figlio e dall’apertura alla vi­ta. In questo senso mi sembra neces­sario sfatare una serie di luoghi co­muni.

Per esempio?
Nell’immediato dopoguerra gli italia­ni avevano una natalità elevata, ep­pure le condizioni economiche non erano migliori di oggi. In un certo sen­so l’apertura alla vita era una risposta coraggiosa ad una condizione di dif­ficoltà e di povertà. Una risposta che è stata premiata, infatti proprio quel­le generazioni hanno realizzato il 'mi­racolo economico'. Ora invece il fi­glio è considerato un optional, tal­volta persino un oggetto di consumo, da collocare in una scala dove è pre­ceduto da altre priorità. La procrea­zione medicalmente assistita è un po’ frutto di questa mentalità.

Ma se guardiamo al presente?
Anche se guardiamo al presente ci ren­diamo conto che lo schema econo­micistico non funziona: il 48% delle donne che abortiscono sono occupa­te, le disoccupate sono solo il 12%. Quindi l’occupazione femminile, per quanto importante, non è di per sé, co­me qualcuno vuol far credere, un fat­tore che incoraggia la maternità. Se fosse così, del resto, le regioni del nord, dove il tasso di occupazione femminile è pari e talvolta anche su­periore alle medie europee e dove i servizi ci sono, avrebbero un’impen­nata di natalità che invece non c’è mai stata. Quindi non è solo un problema di servizi.

Lei propone di puntare sul modello italiano, ma questo cosa significa in concreto?
C’è una specificità italiana che va sal­vaguardata. Tutta una serie di indica­tori negativi a riguardo dell’aborto, dei divorzi, delle madri single, sono nel nostro Paese meno pesanti che in altri Paesi europei.

Quali gli elementi di questa formu­la?
Una grandissima risorsa è un asso­ciazionismo che si ispira ai valori non negoziabili, una rete di solida­rietà che ci sta permettendo di fron­teggiare la crisi, partendo dalla fa­miglia e allargandosi al vicinato e al­la comunità. La politica a favore del­la famiglia deve partire da qui. Deve sostenere la stabilità del vincolo ma­trimoniale anche laicamente conce­pito. Deve aprire canali di scambio culturale con le nuove generazioni chiuse nella rete delle comunicazio­ni orizzontali, ristrette al mondo dei loro coetanei, e volatili quanto un sms, un twitter. Allo stesso modo per quanto riguarda la natalità deve par­tire dall’origine, del valore della ma­ternità, dalla riscoperta, grazie anche ad adeguate politiche, che partorire e allattare sono la cosa più naturale del mondo. Un figlio è sempre una ricchezza: lo è per l’economia di u­na Nazione (come dice Gotti Tede­schi) e lo è per il senso dell’esisten­za di ciascuno.
«Il pacchetto sociale di misure e di equità fiscale va integrato con le premesse della difesa della vita e del matrimonio C’è una cultura che va difesa Gli indicatori negativi (aborti, divorzi, madri single), sono nel nostro Paese meno pesanti che altrove in Europa»
«Avvenire» del 30 luglio 2010

Ai confini della vita la solidarietà esige di più

Le storie parallele di Richard e Tony
di Gian Luigi Gigli
Storie parallele dalla Gran Bretagna. Storie drammatiche, ai confini della vita. Due pazienti, Richard Rudd e Tony Nicklinson, resi totalmente dipendenti da un trauma cranico (Richard) e da un ictus ( Tony).
Richard aveva detto a suo padre di non voler vivere attaccato a una macchina. Ripresa coscienza, però, riesce in extremis a far sapere con l’inatteso movimento degli occhi di aver cambiato idea, proprio quando ormai stanno per spegnergli il ventilatore. Tony invece, costretto da cinque anni a comunicare anch’egli solo con gli occhi, decide che quella per lui non è più vita. Chiede perciò alla moglie di ucciderlo con un’iniezione letale e avvia l’iter giudiziario per evitarle i rigori della legge, se e quando lo aiuterà a uscire di scena.
Entrambe volontà determinate di persone al culmine della propria fragilità, ma con richieste opposte. In Richard prevale l’istinto vitale, a dispetto di ogni limitazione, che per lui come per Tony è totale. Il testamento biologico si rivela lo strumento scivoloso che è, specie quando manca di attualità e le decisioni non sono affidate a un testo scritto ma a confidenze riferite da altri. La lezione che va tratta è che mai vanno rese vincolanti le dichiarazioni anticipate del paziente, salvaguardando la sua libertà di cambiare opzione per il proprio futuro, fosse pure all’ultimo istante.
Analogo ma paradossalmente diverso è il caso di Tony, nel quale invece prevale il rifiuto della propria condizione di assoluta dipendenza dagli altri, non perché dolorosa o terminale ma proprio perché privata di ogni autonomia e – secondo lo stesso Tony – anche della dignità. La legge britannica oggi vieta l’eutanasia attiva: ma com’è già accaduto con la recente apertura di Londra alla non punibilità di chi aiuta il suicidio altrui all’estero, ora ci si industria per depenalizzare l’omicidio del consenziente, travestendolo con sembianze compassionevoli.
Tutti siamo lieti per il ripensamento di Richard, ma è la decisione di Tony a darci angoscia. Una domanda emerge inevitabile dallo stridente contrasto delle due vicende: cosa dire a chi desidera la morte, per dissuaderlo? Non basterà ricordargli che la sua scelta non è legalmente possibile: la battaglia legale che ha intrapreso mira infatti ad aprire una breccia nel diritto. Forse occorre ricordare a lui – e anche a noi stessi – che tutti siamo stati totalmente dipendenti, e torneremo a esserlo invecchiando. E non è per la totale mancanza di autonomia che la dignità di ciascuno viene meno.
Vorremmo però anzitutto dire a Tony, appassionatamente, che la sua vita ci è preziosa, è un bene per tutta la società anche in quelle condizioni estreme, e che saremmo tutti più poveri se si arrendesse davvero. Ci è impossibile restare a guardarlo mentre si consuma un lento omicidio, anche se avviene per mano di sua moglie e la vittima è consenziente. Non vogliamo restare inerti perché siamo consapevoli che, se Tony dovesse veramente morire per mano della persona che gli è più cara, un altro giudice domani potrebbe autorizzare un’iniezione (naturalmente 'compassionevole') anche per spegnere altre vite, preziose al pari della sua. Come quella di chi abbia manifestato per iscritto una volontà simile a quella di Tony e che, a differenza di Richard, non siano poi riusciti a comunicarci di aver cambiato idea. Ma è anche il caso di chi per la minore età o l’incapacità mentale ha dovuto affidare la sua vita nelle mani di un tutore, capace all’occorrenza di decidere per la morte «nel miglior interesse del paziente» se ai suoi occhi (anche se padre, madre o coniuge) quella vita non ha più i contorni di una pietra preziosa ma solo le caratteristiche di un rottame inutile.
Non possiamo far finta di niente di fronte alla richiesta di Tony, perché siamo consapevoli che ci sono in giro tante altre persone in difficoltà che ascoltano ogni giorno proclami simili ai suoi sulla mancanza di senso e di dignità per una vita ridotta in condizione di dipendenza e spinta fino a sentire il dovere morale di uscire di scena, per cessare di essere di peso ai propri cari. I tanti Tony da assistere educano anche noi 'sani' a non smarrire il significato della solidarietà.
«Avvenire» del 30 luglio 2010

29 luglio 2010

Perché sto dalla parte del nucleare

di Umberto Veronesi
Le polemiche sorte intorno alla proposta di una mia nomina a presidente dell’Agenzia per la Sicurezza Nucleare non mi stupiscono, anzi sono comprensibili e in gran parte giustificate.
In particolare capisco il pensiero del Pd di fronte all’offerta che mi ha rivolto il governo: riflette un dilemma che io stesso ho vissuto e sto ancora vivendo. Mi sono chiesto infatti se fosse giusto compiere una scelta che va contro la posizione del partito con il quale ho accettato di candidarmi al Senato.
Oppure se non fosse più corretto operare una sorta di autocensura e dire no al coordinamento di un piano che pure considero importante per lo sviluppo del Paese. Alla fine ha prevalso in me il desiderio di partecipare con decisione al ritorno del nucleare in Italia, se pure a condizione di un programma ineccepibile dal punto di vista della qualità scientifica, della sicurezza per l’uomo e per l’ambiente e della sostenibilità economica.
Con questa scelta è difficile continuare l’attività senatoriale. Già avevo elaborato dentro di me questa consapevolezza, che poi mi è stata espressa da molti membri del partito. Ha ragione il senatore del Pd Roberto Della Seta: non potrei perché gli impegni sarebbero troppi, ma anche perché la mia coscienza non me lo permetterebbe. La legittima discussione sulla mia scelta ha tuttavia oscurato agli occhi della gente le sue motivazioni: perché sono così convinto del nucleare da assumermi un incarico così spinoso e largamente impopolare? Che cosa glielo fa fare, professore, mi chiedono i pazienti e gli amici più stretti? Mi spinge la mia convinzione che l’energia nucleare è un progresso scientifico straordinario per l’uomo e, proprio poiché ci credo, ritengo in coscienza di dover offrire tutto il mio impegno di scienziato e di cittadino perché il mio Paese, che amo, sia all’avanguardia in questo settore e non rimanga arenato per motivi ideologici.
Vorrei ricordare che il nucleare è nato in Italia grazie a Enrico Fermi e quando nel dicembre 1942 lui e la sua squadra festeggiarono con un fiasco di vino Chianti (fiasco che fu firmato da tutti i fisici presenti e che diventò da allora un oggetto di «culto») si aprì una nuova era per la scienza e per l’umanità. Il brindisi era per la scoperta della «pila atomica» che era in grado di produrre enormi quantità di energia con la rottura di un atomo di uranio colpito da un neutrone. Fermi scoprì che per produrre energia non è necessaria la combustione (che consuma ossigeno) né il riscaldamento a carbone, o petrolio, e trovò quindi una soluzione potenziale al crescente fabbisogno energetico nel mondo. La politica poi fece un uso tragicamente improprio della sua scoperta, facendo costruire la bomba che gettò un’ombra indelebile su questo progresso.
Sul nucleare come fonte di energia io mi sento di poter rassicurare la popolazione circa la sostanziale assenza di rischio. L’attività delle centrali nucleari produce energia pulita, senza emissioni (presenti invece nei processi di combustione) di sostanze che rappresentano un rischio di malattie respiratorie, allergiche o tumorali nell’uomo.
Ma ciò di cui la gente ha paura sono gli incidenti alle centrali. Va detto che in 40 anni di utilizzo del nucleare nel mondo si sono verificati solo 2 casi: quello di Three Mile Island in Pennsylvania nel 1979, che non provocò nessuna contaminazione e nessuna vittima, e quello di Cernobil nel 1986, che fu un vero disastro. Spesso però si ignora che a Cernobil la causa fu la leggerezza e l’incompetenza del personale. Il direttore aveva esperienza solo di impianti a carbone e il capo ingegnere ne aveva soltanto con i reattori nucleari preparati per i sottomarini sovietici. Si è inoltre unito il fatto che il reattore era già allora inadeguato e tecnologicamente incapace di autoproteggersi dal rischio di malfunzionamento e infine che la tragedia avvenne nel corso di un esperimento, in cui furono paradossalmente violate tutte le regole di sicurezza e di buon senso. Si tratta quindi di un evento unico che ha dei tratti di pura assurdità, e che oggi non si potrebbe ripetere. La presenza di un rischio molto limitato non toglie nulla al compito dell’agenzia per la Sicurezza, che mantiene un ruolo importante e va gestita con fermezza e senza compromessi. Il mio obiettivo potrebbe essere non solo dare una certezza solida alla popolazione, ma anche mettere a punto un modello nuovo di approccio al concetto di sicurezza, più attento ai bisogni reali di salute e di tranquillità dei cittadini.
«La Stampa» del 29 luglio 2010

Vietato innamorarsi in ufficio? Giusto, così torna l'amore vero

Il regolamento di una multinazionale: rischio licenziamento per una storia tra colleghi. Ma il gusto della trasgressione farà nascere molti flirt
di Claudio Risè
Forse uomini e donne torneranno finalmente ad amarsi. Finirà così, si spera, la tetra epoca della diffidenza, della competizione, del guardarsi in cagnesco, del «siamo più brave noi» «no noi», che ci sta togliendo il sorriso, inevitabile complemento dello sguardo di apprezzamento, o di intesa. Chi ci fa questo bel regalo, di riaprire la comunicazione erotica tra uomo e donna? Un'entità che riassume in sé tre caratteristiche che la cultura politicamente corretta considera la quint'essenza di ciò che non bisogna essere o fare: si tratta infatti di una multinazionale, di nazionalità svizzera, del settore del lusso, la Richemont, con sede a Ginevra. Come mai la Richemont potrebbe dare il via a un nuovo risveglio amoroso? Con un ordine di servizio nel quale l'azienda, senza tergiversare, deplora flirt e relazioni sentimentali sul lavoro e prega chi vi si trovasse di riferirne ai superiori. I quali provvederanno con spostamenti, ammonimenti o licenziamenti. Naturalmente gli esperti del diritto del lavoro hanno subito strillato: «Ma non siamo mica matti, qui non siamo in America, ma in Europa, ci sono di mezzo le tendenze personali, la vita affettiva dei dipendenti, la protezione dei dati, l'azienda non può ficcarci il naso ci mancherebbe» etc etc. Tutto vero, naturalmente. Peccato però che una legge che stabilisce nuovi diritti e doveri di datori di lavoro e dipendenti, proprio sul tema dell'amore in ufficio, è appena stata approvata dal Parlamento tedesco: evidentemente la questione non nasce soltanto dalla tradizionale «pruderie» della città di Calvino, e dalla presunta arroganza di una multinazionale, ma dal tema della crescente diffusione delle molestie di vario genere, e dei costi sia sociali sia aziendali che vi sono legati. Insomma: la cultura del permissivismo e del «facciamo finta che le persone siano asessuate e uguali, e tutto andrà bene», è fallita. Maschi e femmine sono diversissimi, questa differenza continua a interessarli e a turbare molto entrambi (il 12% delle unioni, e un numero ben maggiore di problemi sentimentali e sessuali, nasce sul luogo di lavoro), e quindi sia la scuola sia l'azienda e gli Stati passano sempre più in fretta da un permissivismo unisex a una politica di attenzione.
L'amore tra i dipendenti non può essere considerato irrilevante, come è accaduto nella cultura, anche aziendale, dagli anni 70 in poi, anche la sessualità e i sentimenti sono tra i fattori che più incidono sul benessere delle persone, e quindi sulla loro produttività e la la loro efficienza. Inoltre, la sovrapposizione tra i conflitti sentimentali-sessuali (generati dalla relazione amorosa), e quelli aziendali e di carriera costituisce un mixing esplosivo che, coperto e sedato dalla cultura puritana che ha dominato i rapporti aziendali fino alla metà degli anni 70, è poi esploso in un malessere crescente, di cui molestie, stalking, e «casi» aziendali di notorietà anche internazionale costituiscono le cronache quotidiane.
La Richemont dunque, con quel misto di ingenuità, determinazione e solido buonsenso che solo una multinazionale svizzera del lusso può avere (consciamente o no), ha semplicemente dato voce al bambino che vede che Il Re è nudo: il permissivismo non porta nulla, se non guai. Dal punto di vista dell'inconscio collettivo questo «proibire l'amore» equivale, del resto, a tornare a dargli importanza, valore, significato, potere. Quando, nei primi anni 60, bighellonavo per le strade, appunto, di Ginevra, era di moda una canzone di Claude François che metteva in guardia: «È pericoloso (in italiano) l'amour»; negli anni seguenti avrebbe fatto ridere. Ma oggi (anche grazie a Richemont), si torna a pensare che è vero: è pericoloso, quindi interessante, quindi (a volte) da vietare. Così facendo si torna a riconoscergli un interesse, lo si toglie dal suo status di videogioco personalizzato rimettendolo al posto di evento misterioso, inquietante, che fa risuonare corde altrimenti mute.
«Il Giornale» del 29 luglio 2010

La scienza non mente. Gli scienziati invece sì

Dalla macchina del tempo al gene della menopausa: tutti i giorni bombardati dall'annuncio di grandi scoperte. La maggior parte sono bufale, servono solo a finanziare questa o quella ricerca. E così il metodo galileiano viene ridicolizzato
di Giorgio Israel
Negli
«Quando giunsi all’Institute of Advanced Study di Prin­ceton - rac­contava nel 1964 il premio Nobel per la medici­na Albert Szent-Györgyi - speravo che gomito a gomito con quei grandi scienziati atomisti e mate­matici avrei appreso qualcosa sul­la “vita”. Appena dissi loro che in ogni sistema vivente vi sono più di due elettroni, i fisici smisero di par­larmi. Con tutti i loro calcolatori, non potevano neppure dire cosa avrebbe fatto il terzo elettrone». Szent-Györgyi non faceva che descrivere in modo sarcastico la consapevolezza dei fisico-mate­matici dei limiti di previsione del­la loro disciplina. Fin dalla fine del­l­’Ottocento è noto che in meccani­ca classica non si può prevedere in modo esatto la dinamica del moto di più di due corpi celesti. Non solo. Per fare questa previsio­ne occorre con­oscere i dati che de­finiscono lo stato iniziale del siste­ma. Ma può accadere che una per­turbazione anche minima di quei dati conduca a prevedere un’evo­luzione completamente diversa e, siccome la determinazione dei dati è inevitabilmente soggetta a errori, la previsione sul medio­lungo periodo è inattendibile. Poi ci si è resi conto che anche i model­l­i matematici usati per prevedere i fenomeni atmosferici sono sog­getti a questa «patologia», il che spiega come mai le previsioni me­te­orologiche sul medio e lungo pe­riodo siano inattendibili. Ma an­che nel caso del sistema solare si è calcolato che oltre i 100mila anni le previsioni perdono valore. Un altro esempio. Fin dal Sette­cento si è tentato di dimostrare che il sistema solare è «stabile», nel senso che mai potrà accadere che uno dei suoi pianeti scappi via perdendosi nell’universo oppure che due pianeti entrino in collisio­ne. Ebbene, una dimostrazione completa dell’impossibilità di si­mili spiacevoli eventi non esiste, salvo un risultato in questa direzio­ne, un teorema estremamente complesso alla cui dimostrazione ha contribuito in modo decisivo Vladimir I. Arnold, uno dei massi­mi matematici contemporanei. Mal visto dal regime sovietico, do­po la caduta del Muro si trasferì a Parigi, dove è morto di recente, quasi ignorato dai mezzi d’infor­mazione. Insomma, quanto precede per dire che sono noti i limiti di previ­sione nel campo dei fenomeni fisi­ci. Eppure in questo contesto la si­tuazione è relativamente «sempli­ce»: Giove non cade in crisi depres­sive per la morte di una moglie che non ha, le nuvole non divor­ziano, non si è mai vista una pietra far figli e Venere (il pianeta) non va incontro alla menopausa. Cio­nonostante, ci si racconta quoti­dianamente che, in contesti enor­memente più­ complessi e sogget­ti a influssi esterni ed evoluzioni in­terne imprevedibili, gli scienziati sono in grado di prevedere tutto. Un giorno si annuncia la scoperta di un metodo con cui determina­re la data esatta in cui una donna avrà la menopausa. Un altro gior­no si annuncia la scoperta di un metodo con cui determinare chi sarà centenario, oppure indivi­duare chi avrà il mal di schiena. Quanto alla felicità, non so se sia noto che il suo decorso è assoluta­mente determinato: secondo una vasta letteratura «scientifica» la fe­licità è «convessa», U-shaped, a forma di U. In parole povere, sare­te felici all’inizio e alla fine, mentre in mezzo vedrete il peggio. È fin troppo facile, quasi mara­gg maldesco, infierire sulle assurdità che inficiano queste «previsioni». È poco serio fare previsioni sulla data d’inizio della menopausa di una donna, indipendentemente dal fatto che costei si sposi oppure no, che abbia figli e quanti, che su­bisca aborti, che la sua vita sia feli­ce oppure no, che abbia altre ma­l­attie e vada incontro a eventi che, come questi, possono avere influs­si determinanti sulle sue funzioni ormonali. Si tratta di esercizi inuti­li, e anche poco commendevoli, se servono a fabbricare credenzia­li di produttività scientifica. E che senso ha fare previsioni circa il futuro mal di schiena di una perso­na indipendentemente dalle sue abitudini di vita - se sarà sedenta­rio oppure no, se farà il mestiere del sarto o quello del taglialegna ­e dalla sua inclinazione a «somatizzare» i dispiaceri della vita? È fin troppo facile, ripeto, andare alla ri­cerca dei fattori perturbativi che rendono queste previsioni senza senso, inutili, fuorvianti, e colpe­voli di diffondere un’immagine mitica e magica della scienza. Sappiamo bene qual è l’autodi­fesa. Si proclama di voler fornire previsioni circa il futuro di unindi­viduo sulla base della sua struttu­ra genetica indipendentemente dai fattori perturbativi del tipo di quelli sopra descritti. Questo sa­r­ebbe conforme al metodo scienti­fico della fisica galileiana. Occorre «difalcare gli impedimenti», dice­va Galileo, ovvero descrivere il mo­to dei corpi prescindendo dall’at­trito e da caratteristiche particola­ri e inessenziali, come il colore. Il piccolo dettaglio è che in fisica il metodo funziona, perché gli «im­pedimenti » sono effettivamente marginali: e quando non lo sono si sa spesso come tenerne conto. Invece qui non funziona perché i fattori marginali sono per lo più es­senziali, e molto spesso persino predominanti. La predisposizio­ne ge­netica è uno dei tanti elemen­ti determinanti, ma non è né l’uni­co né il principale. Ma anche se si potesse conside­rare l’individuo come un corpo isolato e considerare la sua evolu­zione in modo puramente inter­no, il ragionamento che è alla ba­se di quelle previsioni è viziato alla radice. Difatti, esso si basa sul prin­cipio secondo cui «tutto è geneti­co ».Ma questo principio è falso:lo hanno mostrato tutte le scoperte e le acquisizioni delle genetica con­temporanea, a partire dal succes­so della clonazione degli animali. Eppure questa premessa «scienti­ficamente » falsa viene data conti­nuamente per vera: altrimenti bi­sognerebbe ammettere che tutte quelle «previsioni» non sono altro che osservazioni di importanza marginale. Inutile dire che la colpa di que­sta disinformazione non è dei mezzi d’informazione ma degli pseudo-scienziati che produco­no una valanga di notizie sensazio­nali di fronte alle quali è difficile destreggiarsi. Fa quasi pena vede­re un giornale riportare con cla­more la notizia che si nasce cente­nari e poi commentarla spiegan­do che i centenari abbondano in Sardegna in virtù dei vantaggi del­l’ambiente rurale e a Trieste per il buon sistema di welfare. Ma non era una faccenda puramente ge­netica? Ora leggiamo che uno scienzia­t­o ha scoperto come andare indie­tro e avanti nel tempo. Non si tro­va neppure la forza per avanzare le cento osservazioni e riserve sul modo avventuroso con cui vengo­no­manipolate questioni tanto sot­tili. E anche qui fa pena il povero giornalista costretto addirittura a riferire che questa scoperta per­metterebbe di risolvere uno dei problemi più ostici dell’ultimo se­colo scientifico: la conciliazione tra relatività einsteiniana e mecca­nica quantistica. Non stupisce che certi «scienzia­ti » si comportino così, annuncian­do grandi «scoperte» e «risolven­do» problemi epocali sulla pubbli­ca piazza. Sono della stoffa di colo­ro che annunciarono di essere prossimi alla scoperta del vaccino per l’Aids. Sono passati dieci anni. Qualcuno ha visto quel vaccino? Anzi, si è ammesso a denti stretti che realizzarlo era teoricamente impossibile. Nel frattempo, c’è chi ha ottenuto notorietà e quattri­n i. Povero Arnold. Dopo aver dovu­to rinunciare alla medaglia Fields per l’opposizione del regime so­vietico viene ignorato pure dopo la morte, mentre i chiassosi scopri­tori di pietre filosofali assurgono agli onori delle cronache. E poi c’è chi straparla di cultura scientifica e, invece di rimboccarsi le mani­che per divulgare le scoperte di un vero scienziato, propaganda co­me «scienza» queste sceneggiate.
«Il Giornale» del 29 luglio 2010

La «libera Chiesa» secondo Cavour

Mangiapreti o buon cristiano? A duecento anni dalla nascita, storici a confronto sui rapporti tra lo statista e il cattolicesimo
di Edoardo Castagna
La formula era quella, celeberri­ma, della «Libera Chiesa in libe­ro Stato». Ma cosa Cavour esat­tamente intendesse con quel suo e­nunciato resta oggetto di dibattito fra gli storici. L’artefice dell’Unità, nato a Torino il 10 agosto di due secoli fa, «fu uno statista dal respiro europeo – no­ta Andrea Riccardi, storico della Chie­sa e fondatore della Comunità di Sant’Egidio –, che fece entrare il picco­lo Piemonte nel grande gioco conti­nentale. Mise al servizio dell’unifica­zione e delle ambizioni di casa Savoia la sua cultura europea; non era un teo­rico, ma un pragmatico che marciava verso il suo obiettivo, l’Unità. Per lui la Chiesa era un problema sia verso la creazione di uno Stato liberale, con il fo­ro ecclesiastico che sottraeva i sacer­doti ai tribunali statali e i vasti posse­dimenti in mano ai religiosi, sia verso l’Unità, con l’esistenza stessa dello Sta­to pontificio. Tutto questo lo portò i­nevitabilmente allo scontro con un pa­pa che invece concepiva la Chiesa en­tro l’orizzonte culturale della Restau­razione. Per Pio IX – ma sarebbe stato così anche con Leone XIII, fino alla co­siddetta 'conciliazione silenziosa' di Benedetto XV – il potere temporale e­ra la garanzia della libertà spirituale della Chiesa. Una visione certo datata, da Antico regime, ma è corretto che il papa non sia suddito di alcuno Stato, secondo il principio che infatti sareb­be stato alla base dei Patti lateranensi del 1929: immaginiamoci che cosa sa­rebbe accaduto, se il papa non fosse stato protetto dalla sua sovranità, nel­­l’Italia del fascismo, dell’occupazione nazifascista, e giù giù fino alla politica e alla magistratura di oggi… Pio IX non aveva la cultura politica necessaria per comprendere l’Unità, eppure la sua in­tuizione era giusta».
All’interno del movimento risorgi­mentale, tuttavia, di pulsioni anticleri­cali ce n’erano. «Mazzini – prosegue Riccardi – voleva senza mezzi termini sradicare la Chiesa dall’Italia, conside­randola un fenomeno retrivo, una pia­ga nazionale. Ma tutta la laicità italia­na era connessa a certi filoni massoni­ci, fin dalla Carboneria». E con questi filoni, sia pure nelle varianti più mo­derate, lo stesso Cavour era in contat­to. Spiega Massimo Introvigne, diret­tore del Cesnur: «Cavour non era affi­liato, non c’è alcun documento che lo dimostri – sebbene a rigore non ve ne siano nemmeno che lo escludano. Tut­tavia, se non possiamo dire che Cavour fosse massone, certo lo era la suo cer­chia politica». Uno statista circondato da famelici mangiapreti, quindi? «Un momento. La massoneria dell’epoca e­ra divisa in due riti, cui corrispondeva­no differenze di atteggiamento. I man­giapreti erano quelli di rito scozzese; nelle cerchia di Cavour c’erano invece i massoni del rito simbolico, secondo i quali la Chiesa non solo non andava attaccata, ma anzi applaudita con tut­ti gli onori: ma solo finché si occupava di coscienze, dell’uomo come indivi­duo singolo. Guai, però, se pretendeva di dire la sua sui problemi economici, sociali e politici; una posizione, questa dei massoni di rito simbolico, che arri­vava addirittura a incontrarsi con quel­la di certo cattolicesimo liberale, alla Lamennais seconda maniera. Il mas­sone vicino a Cavour è quello in redin­gote e cravatta del suo amico Pier Car­lo Boggio, suo punto di riferimento nel­l’elaborazione teorica dei rapporti tra Stato e Chiesa; quello che incensa la Chiesa quale bellissima istituzione, u­tile per la pubblica morale, purché se ne rimanga nelle sue sagrestie. Per que­sto le gerarchie ecclesiastiche dell’e­poca consideravano, non senza ragio­ne, il massonismo moderato del rito simbolico non meno pericoloso di quello che faceva capo al rito scozze­se, alla Garibaldi, che con la bava alla bocca si piazzava davanti a una chiesa il Venerdì Santo e agitava il cosciotto di maiale urlando volgarità».
Nulla di più distante, anche caratte­rialmente, dall’accorto primo ministro sabaudo. Anzi, puntualizza ancora In­trovigne, «può darsi che, esaurito il pe­riodo giovanile di a­teismo, Cavour con­servasse nel suo cuo­re un genuino rispet­to per la Chiesa e una certa nostalgia del cattolicesimo pie­montese profondo». Conferma lo storico Ernesto Galli della Loggia: «Cavour non era assolutamente un massone; un anticlericale, sì, nella misura in cui lo erano tutti i liberali compresi quelli cattolici come Manzoni o Fogazzaro. Perché nell’Italia dell’Ottocento non poteva essere diversamente: la Chiesa con l’enciclica Mirari vos del 1832 si e­ra schierata recisamente non tanto contro l’indipendenza italiana, ma contro la stessa libertà di coscienza. E­ra la tragica contrapposizione tra la Chiesa dell’epoca e la modernità, i di­ritti civili e politici, i governi rappre­sentativi fondati sulle elezioni. Per que­sto i liberali non potevano non essere anticlericali; il che, nella politica con­creta di Cavour, significava rimuovere dall’ordinamento piemontese tutti i re­sidui di Antico regime, dal foro eccle­siastico che minava il principio dell’uguaglianza davanti alla legge alla ridu­zione del potere economico della Chie­sa. Certo, per farlo furono adottati prov­vedimenti prevaricatori: ma anche la riforma agraria voluta da De Gasperi fu prevaricatrice... Che alternativa c’era? Forse sostenere che fosse giusto per la Chiesa possedere enormi proprietà ter­riere, spesso improduttive? Dubito che oggi la dottrina sociale della Chiesa approverebbe una cosa del genere; per questo è bene evitare di combattere sterili battaglie di retroguardia, come pure qualche studioso si ostina a fare». La contrapposizione tra movimento nazionale e temporalismo della Chie­sa era inevitabile; «eppure personal­mente – rimarca Galli della Loggia – Ca­vour non rinnegò mai la sua apparte­nenza cattolica. Sul letto di morte vol­le i conforti religiosi, e in seguito perfi­no 'L’Armonia', giornale cattolico di Torino che tante volte l’aveva contestato, gli tributò l’onore delle armi con un bellissimo necrologio, nel quale si ri­cordava come spesso lo statista avesse fatto, segretamente, molta beneficen­za, e proprio attraverso istituzioni cattoliche. Cavour non condivise mai l’i­dea, propria invece di altri settori del fronte risorgimentale, di 'scattolicizzare' l’Ita­lia. Anzi, cercò di get­tare le basi per una so­luzione politica del temporalismo, più o meno nella direzione poi adottata dal Concordato del 1929». Paolo VI, un secolo dopo, avrebbe definito «provvidenziale» la fine del potere temporale della Chiesa. «Io aggiungo – conclude Riccardi – che anche la per­dita dei possedimenti fondiari in qual­che misura lo fu. Ma una cosa va det­ta: venne perseguita con metodi gia­cobini, colpendo anche i poveri che dai conventi soppressi ricevevano assi­stenza. Nel nuovo sistema liberal-bor­ghese la mendicità divenne reato, co­sa ben lontana dall’attenzione ai de­boli propria della Chiesa, oggi come al­lora».
Lo Stato pontificio era un ostacolo oggettivo all’unificazione nazionale, mentre l’evoluzione in senso liberale dello Stato era frenata da fori ecclesiastici e possedimenti degli ordini religiosi, spesso improduttivi
«Avvenire» del 29 luglio 2010

Il monastero della tortura

Dopo la rivoluzione russa molti edifici sacri furono adibiti a carceri e centri di repressione politica Una studiosa narra la storia del complesso di Santa Caterina, presso Mosca
di Marta Dell'Asta
Pubblichiamo un brano tratto da «La dacia delle torture» di Marta Dell’Asta, articolo che compare sull’ultimo numero della rivista «La Nuova Europa», edita da Russia Cristiana Edizioni 'La Casa di Matriona' di Seriate. Tra gli altri contributi del bimestrale: «Il cuore del dissenso nelle Lettere di Havel» di Sante Maletta, «Stalin e la carta stampata» di Aleksandr Posadskov, «L’arte è più potente della politica» di Ljudmila Saraskina, «Gli anni meravigliosi di Reiner Kunze» di Thomas Brose, «Iosif Germanovic, che celebrava nei lager» di Rostislav Kolupaev, «Margherita Karikas, prigioniera di due regimi» di Monia Lippi, «Pellegrini nel mirino» di Angelo Bonaguro.
Un’aberrante logica ha fatto sì che dopo la rivoluzione russa molti edifici sacri, soprattut­to monasteri, siano tornati utili agli scopi della repressione con le loro mura, le celle, i sotterranei… Il prototipo di questa mostruosa me­tamorfosi è il tante volte ricordato monastero delle isole Solovki, diven­tato il lager scuola di tutto il futuro Arcipelago. Ma non è il solo esempio, ce ne sono anche di più terribili per le violenze che vi si perpetravano, co­me il monastero di Santa Caterina, presso Mosca, trasformato nel 1938 in un carcere specializzato in torture, la famigerata e misteriosa «dacia delle torture», o prigione di Suchanovka. Misteriosa perché sembrava che non esistessero testimoni sopravvissuti, la si conosceva solo attraverso voci incontrollate e leggende; la voce po­polare collegava insistentemente la prigione al nome di Berija.
Lidija Golovkova, grande esperta di nuovi martiri del periodo sovietico, e conseguentemente dei luoghi della loro morte, carceri e fosse comuni, nei primi anni ’90 l’ha fortunosa­mente identificata e letteralmente ri­portata alla luce, con tutto il carico di storie atroci che vi sono collegate. Ed ha pubblicato un libro perché tutto questo pesante fardello di memorie trovasse un senso, e non corresse il rischio di scomparire nuovamente. [...] L’eremo maschile di Santa Caterina e­ra stato fondato a metà del XVII se­colo nei pressi del villaggio di Ra­storguevo, accanto alla tenuta dei principi Volkonskij chiamata Sucha­novo. Dopo la rivoluzione di ottobre i monaci si erano trasferiti altrove per fare spazio a un gruppo di monache sfollate dalla Polonia durante la guer­ra; l’eremo era così diventato da ma­schile, femminile. Ben presto la nuo­va amministrazione bolscevica ave­va imposto di trasformare il mona­stero in una cooperativa agricola, che le suore erano riuscite a far funzio­nare così egregiamente che, in anni di fame, potevano dar da mangiare all’intero villaggio di Rastorguevo. Poi, secondo un sistema ormai classico, le autorità civili, alla fine degli anni ’20, avevano imposto nuovi coinquilini, i delinquenti minorili di un riforma­torio, ospitato in alcuni edifici del mo­nastero riadattati a prigione. Ma già nell’ottobre del 1930 l’amministra­zione del carcere aveva chiesto mag­gior spazio, e l’autorità locale si era affrettata a compiacerla: «Anche se le monache erano preparate al peggio, quello che accadde le sconvolse per la sua crudele insensatezza. Ai primi del 1931 arrivò da Mosca un foglio: liberare gli edifici entro ventiquat­tr’ore. Si narra che le suore, racco­gliendo in fretta i loro fagottelli, si di­ressero alla stazione ferroviaria di Ra­storguevo, dove restarono tutto il giorno sedute a piangere. Molte non avevano dove andare perché erano cresciute in un orfanotrofio, e per di più in Polonia. Alcuni abitanti ebbe­ro compassione delle povere donne, portavano di nascosto alla stazione patate bollite, ma soprattutto si pre­sero le monache in casa».
Ciononostante, molte sarebbe­ro state arrestate entro breve. Subito dopo la chiusura del monastero era incominciato il sac­cheggio a man bassa, anche se fortu­natamente i vasi sacri e le icone mi­racolose erano già state messe in sal­vo di nascosto da alcuni fedeli del luo­go. A quel punto accanto al riforma­torio si era creata una prigione per delinquenti comuni con condanne sotto i tre anni. Per una incongruen­za inspiegabile, fino al 1934 aveva però continuato a funzionare una delle chiese, e alcune monache lavo­ravano come cuoche nella cucina della prigione. Ma nel ’34 tutte le in­congruenze erano state eliminate: la chiesa era stata chiusa, il sacerdote che vi officiava deportato, un diaco­no del monastero arrestato (morirà in un lager dell’Asia centrale nel ’37), un altro sacerdote fucilato.
Dal 1938 le cose nel monastero cam­biano in modo radicale e repentino: alla fine di novembre nel giro di po­chi giorni tutti i nuovi inquilini del monastero vengono sfrattati e inizia­no grossi lavori di rifacimento.
All’origine di tanta fretta c’è il Decre­to del 16 novembre che pone fine al terrore di massa. In base alla logica normale questo dovrebbe annuncia­re un periodo di respiro nelle perse­cuzioni, invece la logica dell’ideolo­gia esige nuovi arresti e repressioni, perché bisogna trovare un colpevole cui addossare la responsabilità degli eccessi precedenti. Il colpevole in questo caso è il commissario gene­rale della Sicurezza, l’inflessibile Nikolaj Ežov, che viene destituito e subito rimpiazzato da Lavrentij Be­rija. Il nuovo capo della Sicurezza ha già in mente un lungo elenco di alti papaveri da arrestare (sono il suo pre­decessore e tutto il suo apparato, si­no ai gradi inferiori), e quindi ha l’e­sigenza di una nuova prigione di si­curezza lontana da Mosca ma non troppo. Due giorni prima di arresta­re Ežov, Berija scrive una lettera uffi­ciale a Molotov, presidente del Con­siglio dei ministri: «In relazione alle insorgenti necessità di creare una pri­gione di isolamento a destinazione speciale, proponiamo a questo sco­po l’utilizzo del territorioe degli edi­fici del monastero di Suchanovo». Dall’errore di Berija sul nome del mo­nastero di Santa Caterina è derivato poi l’uso di chiamare la prigione co­me la tenuta dei principi Volkonskij. [...] Le dimensioni soffocanti delle celle hanno uno scopo preciso: chiusi lì dentro con la luce costantemente ac­cesa, controllati ogni paio di minuti dalla sentinella, si perde il senso del tempo e dello spazio, i nervi cedono. Questa è la prima tortura cui è sotto­posto il prigioniero: «Lo spioncino si apriva quasi ogni minuto, bastava fa­re il minimo movimento che il chia­vistello scattava e il secondino entra­va a controllare il detenuto e la cella. Il guardiano non toglieva gli occhi di dosso alla persona sotto inchiesta, so­prattutto per impedirgli di assopirsi dopo le notti passate sotto interroga­torio. Alcuni detenuti non li lasciava­no dormire per molti giorni e notti, e bastava questo per farli uscire di te­sta », racconta il sopravvissuto Evge­nij Gnedin (ex primo segretario d’am­basciata).
Durante la giornata la vita si svolge secondo un ritmo nor­male: sveglia alle 6 e visita al­la latrina, poi la colazione fatta di mi­nestra e 300 o 400 grammi di pane. Per un certo periodo, quando anco­ra le cucine non esistono, portano il rancio dalla vicina Casa di riposo per architetti, ma le normali porzioni vengono divise per dodici. Nel carce­re di Suchanovka, diversamente da tutte le altre prigioni compresa la Lubjanka, non è prevista l’ora d’aria, non si ricevono posta né pacchi; al detenuto non danno neppure il sa­pone per lavarsi però, ogni tanto, la sera lo accompagnano alla doccia. Solo che l’acqua sulle ferite aperte è un’ulteriore tortura.
La vera attività del carcere incomin­cia di notte, quando arriva in auto Lavrentij Berija. I giudici iniziano al­lora gli interrogatori e i pestaggi nei loro uffici, e incomincia il coro di ge­miti e urla. Del resto, l’ordine supe­riore dice che un’inchiesta non deve durare oltre le due settimane, per cui è necessario ricorrere a mezzi estre­mi per ottenere le confessioni. L’ex detenuto Aleksandr Dolgan ha elen­cato 52 tipi diversi di tortura. Secon­do le affermazioni di un funzionario del Ministero della Sicurezza, Ja. Se­rov, che ha lavorato a Suchanovka per oltre dodici anni, fra il 1939 e il 1952 dal carcere sarebbero passati alme­no 35 mila detenuti, tutti mandati qui per decisione esclusiva dei vertici, ossia dal ministro della Sicurezza o dal suo vice.
«Sembrava che non ci fossero testimoni. Ma la voce popolare collegava la prigione al nome di Berija»
«Avvenire» del 29 luglio 2010