29 giugno 2010

Noi, post-moderni, saggi o disincantati?

di Jean-Claude Guillebaud
Non passa settimana senza che una rivista, un saggista, una trasmissione televisiva non ci inviti a ritrovare l’antica «saggezza» greca, l’edonismo pacifico e lo stoicismo. Questo revival di interesse risale all’inizio degli anni Ottanta. All’epoca si riscoprivano Seneca, Cicerone, Plutarco, Aristotele, Epitteto, Lucrezio e qualche altro, che diversi editori iniziarono a pubblicare in nuove traduzioni. Al contempo filosofi come André Comte-Sponville o Luc Ferry incontravano il favore del pubblico riformulando, a loro modo, le lezioni dello stoicismo o dell’epicureismo.
Attualmente questa curiosità ha guadagnato il grande pubblico. Un fatto che rappresenta qualcosa di molto rispettabile, ciononostante si presenta come sintomo di qualcos’altro ancora.
Il nuovo appetito per la saggezza e la filosofia greco-romana non è privo di rapporti con quella che viene chiamata la fine delle ideologie. Il disorientamento contemporaneo, il fallimento dei «grandi racconti» politici legati alla crisi della modernità, ovvero della postmodernità, invitano ad un ritorno alle radici del pensiero. Le grandi epoche di trasformazioni – che si tratti del Rinascimento, dei Lumi o della Rivoluzione francese – si sono sempre accompagnate ad un simile ritorno alle fonti.
Rileggendo Seneca i nostri contemporanei cercano di reimparare a vivere.
Questa nuova cura di sé si accorda perfettamente con l’individualismo. In altre termini, vi è una rilettura quasi californiana o new age dei filosofi greci e romani. Ma essa nasconde un malinteso. Nel suo rapporto con il tempo, il pensiero greco partecipa in effetti ad un principio di «acconsentimento». Esso invita alla «saggezza», ovvero all’accettazione di quello che è. Un’espressione ne dà ben conto: l’amor fati, questo amore nietzschiano del destino. Ora, il messianismo ebraico, espresso dai profeti nel V secolo prima di Cristo, rompeva espressamente appunto con questa rappresentazione circolare del tempo, un messianismo che fu all’origine della speranza cristiana e del concetto molto laico di «progresso». Nella cultura occidentale, questa grande sovversione del tempo «diritto» (e non più circolare) aveva finito per imporsi. Invece che invitare alla salvezza, essa nutriva un’interpretazione volontaristica della Storia. Non vi è «destino» per Israele, si legge nel Talmud.
Ovvero, non c’è fatalità. È quello che Max Weber riprendeva a sua volta quando definiva la politica come «il gusto del futuro», ovvero una volontà di costruire l’avvenire piuttosto che subirlo.
Oggi bisogna domandarsi se questo fascino per la saggezza (passiva) e questo abbandono al destino non tradiscano lo scavo di un vuoto di un – formidabile – disincanto collettivo.

Il fatalismo contrasta con la visione biblica del progresso In questa «cura di sé» c’è troppo individualismo
«Avvenire» del 29 giugno 2010

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