09 giugno 2010

Manfredi: Europa nuovo «limes»?

di Edoardo Castagna
Chiusi dentro i confini del nostro limes, noi, l’Occidente, scrutiamo con preoccupazione le orde dei "barbari" che ci assediano da ogni parte. Come quelli che premevano ai margini dell’Impero romano un millennio e mezzo fa: diverse le "armi" – non più cavalli e spadoni, ma doppifondi di tir, scassate carrette del mare o passaporti truffaldini –, uguale il miraggio: non già abbattere l’impero, ma entrare a farne parte. L’archeologo Valerio Massimo Manfredi scorge numerosi parallelismi tra la Tarda antichità e l’epoca presente: identico il senso d’assedio di chi sta al di qua del limes, identica la fame di una vita migliore di chi sta al di là. E, forse, identica anche la soluzione, sebbene allora i Romani non siano riusciti a portare a termine il loro progetto di integrazione.

Cos’era l’Impero visto dai diseredati che vivono oltre i suoi confini?
«Era il sogno. Ma è chiaro: da una parte, carri coperti di pelli dove si moriva di freddo d’inverno e di caldo e di zanzare d’estate; dall’altra, città, strade lastricate, acquedotti, fontane, terme, biblioteche, porti, ville, un governo avanzato, immensi tesori artistici... I barbari volevano far parte di tutto questo. Io ho sperimentato quello che si prova quando, venendo dal deserto, si arriva in una città romana: benché in rovina, entrare a Bosra, a Palmira o a Gerasa lascia senza fiato. Oggi accade lo stesso, solo che l’impatto non è più diretto: chiunque può guardare dentro l’impero semplicemente accendendo il televisore».

Come reagì Roma?
«Aveva capito tutto questo, e cercava di attuare un’accorta politica fatta di contenimento armato, quando l’assalto era violento, ma anche di trattative, consentendo stanziamenti al di qua del limes affinché questa gente venisse pian piano romanizzata e infine integrata. È la politica portata avanti oggi dall’Unione europea ai suoi confini: dialoga con i Paesi limitrofi, li finanzia, li aiuta a costruire le infrastrutture, per portali pian piano alla piena integrazione. Certo, non sempre fila tutto liscio e da più parti si considera un errore l’aver fatto entrare tutti insieme tanti Paesi che ancora non erano pronti; da lì gli squilibri, i problemi generati nel mondo del lavoro, la delocalizzazione delle produzioni. Come si vede, un problema di vecchia data; ai tempi di Roma era stato particolarmente acuto a causa di una combinazione di eventi che aveva risparmiato, dall’altra parte, la Cina. E infatti la Cina è ancora oggi un grande impero monolitico, da sempre uguale a se stesso, con una sola lingua, un solo carattere culturale. Mentre invece, da noi, l’Impero romano è soltanto un ricordo».

Se la ricetta era giusta, che cosa non ha funzionato?
«Non ci fu il tempo, la pressione dei barbari a un certo punto divenne troppo intensa per consentire la loro graduale integrazione. Ma Roma aveva visto giusto, anche quando pensava che quelle nuove forze avrebbero potuto tornare utili allo stesso Impero: basti pensare a quanti barbari, da Stilicone in giù, hanno sacrificato la vita affinché l’Impero sopravvivesse. Quella di Roma fu una risposta audace, intelligente e strategicamente valida».

Nella sua ultima raccolta di racconti, "Archanes", ce n’è uno dedicato proprio al "Limes" e ambientato durante il magmatico passaggio dall’antichità al Medioevo. Che cosa stava accadendo?
«Anche se si è consumato in un paio di secoli, si era verificato un evento profondamente traumatico: il naufragio e l’oblio e del mondo antico. Certo, c’è stata la Chiesa, che ha avuto il merito di trasmettere alle nuove generazioni un certo numero di testi antichi; ma tanti altri sono andati distrutti. Non sappiamo esattamente quale potesse essere la coscienza di quel periodo, quale fosse l’identità di quella civiltà e dei tempi nuovi che stavano sorgendo. Ma che ci fosse una coscienza, questo lo sappiamo: ancora nel V, nel VI secolo gli ultimi aristocratici continuavano a coniare medaglie con le effigi dei grandi del passato e le distribuivano tra la gente per tenerne vivo il ricordo. Nel mio racconto mostro un aristocratico che considerava i confini della sua vasta proprietà come il limes: all’interno, la sua famiglia viveva come ai tempi di Teodosio».

Come vedevano i barbari al di là del confine?
«Per lungo tempo, per i Romani, il mondo periferico è stato quello del favoloso. Plinio, per esempio, descrive con grande realismo e acume ciò che faceva parte dell’Impero, ma man mano che si allontanava dai suoi confini sfumava nel fiabesco. Ecco allora i blemmi, mostri nel deserto, o gli uomini con un piede solo, o le formiche minatrici che portavano l’oro in superficie… In fondo, è quello che facciamo ancora noi oggi: non rispetto alla Terra, che ormai con la globalizzazione non ha più vere periferie, ma rispetto allo spazio esterno. E facciamo Avatar.

L’altro era quindi sempre e solo il diverso?
«Per la maggior parte, sì. Le masse romane, così come i Greci e perfino intellettuali come Ammiano Marcellino, percepivano il periferico, il lontano come inferiore. Ma già allora c’erano persone illuminate, capaci di vedere oltre a questo. Plinio denunciava come crimine contro l’umanità il genocidio perpetrato in Gallia da Giulio Cesare. E Tacito faceva dire al capo britanno Calgaco sui Romani: "Raptores orbis […], auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant", "Predatori del mondo, il rubare, il trucidare, il rapinare lo chiamano con falso nome impero. E dove fanno il deserto, lo chiamano pace"».
«Avvenire» del 3 giugno 2010

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