30 giugno 2010

Laicità: stop agli equivoci (voluti)

di Roberto Timossi
Non passa mese che nelle nostre librerie non esca un nuovo titolo su che cosa significhi essere laico. Non si riesce a sfogliare un quotidiano o una rivista senza imbattersi nella parola «laicità» e talvolta in quella di «laicismo». Chi avrebbe mai detto soltanto alcuni anni fa che nel nostro paese il primo decennio del terzo millennio avrebbe avuto al centro del proprio dibattito culturale la questione della «laicità»? Come poi capita spesso qui da noi, tutto deve essere girato in politica, degenerare in polemica e finire col prefigurare una fazione (i laici) che si contrappone ad un’altra (i cattolici) come al tempo dei guelfi e dei ghibellini.
E dire che forse non esiste un termine più neutro di «laico».
Tertulliano, tra i primi ad usarlo in lingua latina («laicus»), lo assume dalla parola greca «laikós», che indica semplicemente «ciò che è proprio del popolo». Nessuna contrapposizione dunque tra credente e non credente, tra religioso e non religioso, tra cattolico e anticattolico, anche perché nel Medioevo si definiva «laico» perfino un frate converso non ordinato sacerdote. Se stiamo all’etimologia della parola, i laici sono tutti coloro che non appartengono a un ordine sacerdotale o al clero, non importa se atei o credenti, se cattolici o non cattolici.
Suona pertanto quantomeno strano che del termine «laico» abbiano preteso e pretendano di appropriarsi soltanto coloro che polemizzano con chi crede e ancor più con chi è cattolico, generando così una confusione tanto terminologica quanto concettuale da cui si alimenta il filone giustamente detto «laicista». Senza offesa per i laici a senso unico (atei e anticattolici), a cui la definizione di «laicista» non piace, se una parola con un significato originario universale e per certi versi addirittura agapico (in quanto riferito ad una comunità popolare) si è trasformata in uno strumento di divisione socio-culturale, lo si deve proprio a chi ha voluto marcare una divisione nel «popolo».
Laddove invece divisione non ha senso che ci sia, a chi cioè ha fatto del laicismo un atteggiamento ideologico prevalentemente anticristiano.
Non stupisce allora che in questa confusione spesso artatamente alimenta si inserisca di tutto, col risultato (voluto) di sollevare un polverone mediatico che strumentalizza quanto proviene dal mondo dei credenti: dalla bioetica ai messaggi pastorali della Cei, dai preti pedofili all’ostensione della Sacra Sindone, e via dicendo. Tutto questo senza mai un barlume di autocritica, senza neppure un solo mea culpa, come invece ha ancora avuto il coraggio di fare il Sommo Pontefice. Ma è proprio questa impostazione faziosa e «confessionale» che, come qualcuno tra gli stessi laici nota, sta condannando i laicisti e i loro profeti al fallimento, con l’evidente sconfitta del programma ateista e del tentativo di ricondurre la scelta religiosa ad una questione meramente privata.
In realtà, se si vuole davvero creare una comunità unita e al tempo stesso aperta, si deve puntare al dialogo e non all’esasperazione delle ideologie, si deve cercare l’humus che può accomunare credenti e non credenti. Questo terreno comune esiste ed è innanzitutto il prodotto dell’intelligenza e della solidarietà umane. Esso ha come principale sfondo quello dell’antifondamentalismo tanto religioso quanto laicista, in sintesi il rispetto del ruolo sociale della fede religiosa.
«Avvenire» del 30 giugno 2010

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