10 giugno 2010

Il vero retrogrado? Chi vuol clonare l’uomo

di Andrea Vaccaro
La prima volta che un ca­nale televisivo mandò in onda un film spezzettato dalle interruzioni pubblicitarie si assisté quasi ad una solleva­zione generale. I registi e gli at­tori minacciarono di bloccare le loro opere (per quanto lo potessero); i critici si dissero scandalizzati da un tale mas­sacro di opere d’arte; anche il pubblico, snervato, gridò con­tro tale scempio. Strali inutili, come ben sappiamo. Poi arri­varono i «nativi con lo spot», ovvero le generazioni che non hanno mai visto un film in tv nella sua naturale linearità e a­desso non po­che persone cominciano ad avvertire un calo fisiologico dell’attenzione dopo 15-20 minuti consecutivi di film e a­nelano la pubblicità per «rios­sigenarsi ». La reazione degli u­mani di fronte a certe novità è spesso scandita da una simile traiettoria: negazione piena d’orrore, negazione priva di orrore, accettazione sdegnata, rassegnazione, indifferenza.
Nel 1996, l’annuncio del pri­mo mammifero nato per clo­nazione, la pecora Dolly, su­scitò, a dir poco, scalpore. Di Dolly si seguirono, con ap­prensione mediatica, le due gravidanze, l’artrite, il precoce invecchiamento, l’eutanasia all’età di sei anni. Su Dolly si sprecarono persino sottili ana­lisi psicologiche circa la sua o­besità e depressione, attribui­bili – disse qualcuno – al calo delle comitive scolastiche e dei flash dei fotografi dopo un periodo di vita da star. A Dolly (debitamente imbalsamata) è riservato un posto d’onore al Royal Museum di Edimburgo.
La storia della clonazione dei mammiferi non si è conclusa con Dolly – anzi, era appena i­niziata –, eppure è come se le scorte di stupore per il feno­meno, con lei, si fossero esau­rite. Quasi con distrazione si apprese, due anni dopo, che all’Università di Honolulu da un unico topo erano stati «prodotti» ben cinquanta clo­ni, alcuni dei quali clonati a lo­ro volta. Pari trattamento per la cavalla Stella Cometa, il pri­mo animale ad aver partorito il clone di se stesso, avendo in­serito nell’ovocito il nucleo di una cellula della propria pelle.
Nulla di più per il toro giappo­nese, clone di un esemplare morto tredici anni prima (da cellule congelate) o per uno degli ultimi arrivati, il drome­dario Injaz, un neonato clone di Dubai di 'appena' una trentina di chili. Un po’ più di risonanza l’ha riscossa Copy­cat, il gatto clonato dalla Ge­netic Saving&Clone nel 2001, ma la spiegazione ha natura e­conomica, in quanto l’azienda legava la notizia al lancio di un’offerta di clonazione di ani­maletti domestici con pedi­gree al prezzo di 50.000 dollari. Nel 2005, Arlene Judih Klotzko, nel libro Cloni di noi stessi?, informa addirittura che «una teenager intenta a frequentare uno stage estivo in un’azienda americana di biotecnologie è riuscita a clonare un maiale».
E allora, a nemmeno quindici anni di distanza da Dolly, se qualcosa riesce a destare me­raviglia, non è certo più l’e­vento in sé, ma, casomai, il clamore sensazionalistico che accompagnò il primo annun­cio. Oggi, con una certa fre­quenza, si clonano anche schede telefoniche e carte di credito. Per non parlare, in al­tri ambiti ancora, dei cloni delle tesine studentesche on line, dei programmi tv, di av­verbi 'vaganti' e persino di in­tere brevi frasi. I domini si confondono. E così Steen Mal­te Willadsen, scienziato esper­to del settore, dinanzi all’insi­stente domanda dei giornalisti sulla possibilità di clonare un essere umano può rispondere: «Clonare geneticamente l’uo­mo è da retrogradi. Ci sono al­tre maniere per rendere iden­tiche le persone. La più effica­ce è farle star davanti alla tele­visione per otto ore al giorno, anche solo per poche settima­ne».
«Avvenire» del 10 giugno 2010

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