28 giugno 2010

Giovanni Botero, l'anti-machiavelli

di Alessandro Augusto Monti della Corte
Del piemontese Giovanni Botero — passato alla storia letteraria e politica come il "Machiavelli cattolico" — le biografie forniscono pochissime notizie, fino all'epoca in cui diede alle stampe le sue prime scritture, già quarantenne e segretario in Milano del Cardinale Carlo Borromeo.
Sappiamo solo che, di famiglia borghese e largamente fornita di censo, nacque a Bene Giavenna intorno al 1540, e fu messo agli studi in Torino nel Collegio dei Padri Gesuiti; ma non si iscrisse nella Compagnia, preferendo far parte del clero secolare. E certo dovette acquistarsi buona fama di virtù e di dottrina, se dal santo Arcivescovo lombardo, fu onorato di un posto di così grande fiducia e lo tenne con lode otto anni circa, fino alla morte del suo illustre protettore.
Ho detto che a Milano scrisse i primi lavori dei quali abbiamo traccia, su argomenti politici e morali: prima d'allora non aveva composto che versi e panegirici latini, senza interesse per il nostro studio.
Ma coi tre libri del De Regia Sapientia, affrontò arditamente le scienze sociali e s'impose senz’altro al pubblico dei dotti, sia laici che ecclesiastici.
Fervevano in quegli anni le discussioni sull'opera di Niccolò Machiavelli, che era letta e studiata in tutte le Corti d'Europa; ed alcuni levavano alle stelle la dottrina del Principe, altri e in particolare i Gesuiti, ne condannavano l’immoralità e il pessimismo, e avrebbero voluto bruciare sulle piazze quel libro, nel quale ravvisavano un compendio di tutte le eresie.
Il Botero, disceso nella mischia, nel nome di una rigida ortodossia cattolica, non poteva accettare le conclusioni dello spregiudicato Fiorentino; ma invece di attaccarlo e di accusarlo alla cieca, come facevano tanti del suo campo, si assunse di provare che il buon governo dei popoli e l'arte di creare e di conservare gli stati, non sono in alcun modo incompatibili con il rispetto e l’osservanza della legge religiosa e morale.
Nel De Regia Sapientia, scrivendo da teologo, pose le basi della sua teoria dello Stato: Iddio da’ i regni solo a chi ne è degno: li conserva a chi osserva i suoi comandamenti, e li toglie o li guasta a chi se ne allontana; la vittoria e il successo sono nelle sue mani.... È la fiducia nella Provvidenza, fattore decisivo nelle vicende storielle, che ritroveremo in De Maistre e in De Bonald; il bene tende sempre a realizzarsi; e in ultimo, malgrado le apparenze, i "meglio intenzionati" risultano i più abili.... Teoria che non esclude l'attività più gagliarda e l'uso tempestivo di tutti i mezzi leciti nelle lotte terrene.
Ma il De Regia Sapientia, posti questi principii, non ne mostrava ancora le applicazioni pratiche: era l'introduzione a un'opera più vasta; i dieci grossi libri della Ragion di Stato da lui dati alle stampe solo sei anni dopo, nel l589.
Nel frattempo era morto S. Carlo Borromeo, e a Giovanni Botero, rimasto senza impiego, il Duca di Savoia, Carlo Emanuele I, grande figura di guerriero e di politico ed avvedutissimo conoscitore di uomini, aveva affidato una importante missione.
Si trattava di stringere accordi con la Lega Cattolica di Franchi che combatteva contro gli Ugonotti. e preparare — in caso di estinzione della casa regnante di Valois — la successione del Principe sabaudo, che vantava diritti, più o meno fondati, sulla Corona dei Gigli.
II prete piemontese fu ben lieto di poter servire utilmente il suo signore, e passò in Francia nel 1585, recandosi a Parigi e alla Corte dei Guisa, e seguendo l'esercito cattolico nelle sue marce attraverso le provincie devastate e sconvolte dalla guerra civile. Detestava Calvino e i suoi seguaci, e, ammesso nei consigli della Lega, non mancò di proporre le misure più energiche per estirpare l'eresia.
Tutti i mali di cui soffriva la Francia erano derivati dall'empietà ugonotta; né il Regno avrebbe potuto sollevarsi dall'abisso nel quale era caduto, se prima non si fosse cancellata la lebbra dell'errore. E poiché i protestanti, nella loro protervia, erano sordi ad ogni persuasione, bisognava che il braccio secolare provvedesse a disperderli e a schiacciarli.
Gli infedeli, i gentili delle contrade barbare, si possono trattare con indulgenza, perché non sono colpevoli della propria ignoranza; ma per questi ribelli non vi sono attenuanti. Mossi soltanto da un orgoglio satanico, si sono sottratti all’obbedienza di Roma, e a quella dei legittimi sovrani, si sono levati in armi contro il Re Cristianissimo, e contro l'Imperatore Apostolico, si sono accinti a sovvertire gli Stati e vogliono darli in preda all'anarchia: vanno colpiti senza debolezza. Il modo tenuto da Caterina de’ Medici nella famosa notte di S. Bartolomeo per sbarazzarsi dei calvinisti armati che minacciavano il Re fino in Parigi, non gli sembra immorale o scandaloso: era un atto di savia prevenzione, una operazione chirurgica ardita, legittimata e imposta dinanzi ad ogni coscienza cattolica dalla suprema necessità di difendere la Religione e lo Stato.
Tornato di Francia e riferito ai Duca il risultato delle sue osservazioni e i messaggi dei capi della Lega, il Botero fu assunto a consigliere dal Conte Federico Borromeo, che sulle tracce dell'illustre zio aveva scelto la carriera ecclesiastica e si recava a Roma per diventare cardinale.
Anche a fianco del giovane prelato, in mezzo agli intrighi della corte papale, diede prova di grande accorgimento, conducendo a buon fine la delicata impresa. Il Conte Federico ebbe la porpora a ventitré anni, e — come poi si vide — ne era degno.
Ma il Botero non volle seguirlo a Milano; mise da parte ogni altra occupazione, per dedicarsi interamente all'opera che doveva farlo illustre, e restò a Roma a scrivere la sua Ragion di Stato, destinata a mostrare — come spiega nella Dedica — "le vere e reali maniere, che deve tenere un principe per divenire grande e per governare felicemente i suoi popoli", dando "notizia dei mezzi atti a fondare, conservare ed ampliare un dominio".
Voleva insomma, come ho già accennato, proporre ai Principi un modello migliore di quello offerto loro da Niccolò Machiavelli; ugualmente capace di alte imprese, ma non intinto di spirito pagano e non estraneo alla pratica delle virtù cristiane, non meno necessario a un reggitore di uomini che a un semplice privato. Anzi affermava che il Principe, per imporsi al rispetto dei sudditi, doveva mostrarsi in ogni campo più virtuoso che la media degli uomini, perché "niuno si sdegna di ubbidire e di star sotto a chi gli è superiore, ma bene a chi gli è inferiore od anche pari".
E s'intende che, prima fra le virtù dei Monarchi, egli pone il rispetto ed il timore di Dio. e il servizio devoto della Chiesa. Laddove il Fiorentino, cattolico mediocre, faceva della fede un "instrumentum regni" nelle mani di un Principe tutt'altro che ortodosso, il Piemontese vuole che lo Stato sia "instrumentum ecclesiae", sotto la guida di un "defensor fidei", rappresentante del Signore in terra, sotto l'alto controllo del Papa, suo Vicario....
Allo Stato, pensato come fine a se stesso, si contrappone lo Stato, inteso come mezzo per far entrare e mantenere i popoli nell'ordine cattolico e romano. Ma si capisce che perché lo Stato possa bastare a un tal compito, occorre che sia forte, prospero ed agguerrito, omogeneo all’interno e rispettato all'estero. E nella parte pratica della sua trattazione, che si occupa dell'arte di governo, il Botero si trova molto spesso d'accordo con Fautore del Principe.
Le virtù più essenziali del monarca, sono per lui la prudenza, la giustizia. la liberalità ed il valore. Prudente affinché sappia governarsi nel mare infido della diplomazia, e soprattutto tenere la bilancia fra gli avversi partiti. "Giacché — egli scrive, — un Principe che avendo lo Stato diviso in due fazioni, più per l’una che per l’altra senza necessità si dichiara, lascia il grado e la persona di Principe e si fa capo di parte".
Giusto, nei suoi rapporti con i sudditi, quando ne abbia ottenuto il necessario a mantenerli e a difenderli. "non li lascerà straziare con gravezze insolite e sproporzionate alle loro facoltà, né consentirà che gravezze convenienti sieno da' ministri acerbamente esatte"; li proteggerà dall’usura e dai rischi della speculazione, che fa "lasciare all’artegiano la bottega, al contadino l'aratro e al nobile vendere la sua nobiltà e metterla in danaro" ; li castigherà quando occorra, esemplarmente, come Dio "il quale col tuonare spesse volte cagiona agli uomini paura e terrore senza danno; ma acciocché i tuoni non perdano il credito, per non far mai colpo, fra i mille tuoni saetta qualche volta e per lo più qualche cima d’albero o giogo di monte".
Liberale, saprà dare largamente e non tanto ai signori e ai cortigiani turbolenti e faziosi, quanto alla plebe lacera degli umili, oppressa e taglieggiata dai potenti: giacché non vi è "alcuna opera né più regia né più divina che il soccorrere i miseri, conciosiachè celebratissima sopra ogni altra cosa nella Scrittura si è la misericordia di Dio e la cura e la protezione, ch'egli si prende degli afflitti e de' poveri".
Valoroso, ed esperto in tutti gli esercizi del corpo, deve saper condurre nelle imprese guerresche il suo esercito e porre ogni suo studio nell’ordinare la milizia e nel mantenere la disciplina che è "l’arte di far buono il soldato, e buon soldato è colui che obbedisce con valore".
Il Monarca, fornito di tutte queste doti saprà tenere saldamente in pugno le sorti del gregge affidatogli da Dio; e non gli verrà meno l'affezione dei sudditi.
Del resto, se per caso costoro si mostrassero disubbidienti e riottosi; e ciechi — come accade — ai benefizi di un'autorità forte, non mancano i mezzi per ridurli al dovere ...
Il Botero in proposito si esprime chiaramente: "Io sono di parere che per la sicurezza degli Stati e de' Prencipi loro, miglior cosa sia la severità del governo che la piacevolezza e la paura che l’amore".
Egli non crede alla forza di un redime subordinato al consenso ed all'accettazione spontanea dell'universale: "Non è forma di Governo più incerta e fallace". " .... I cittadini di una repubblica — scrive — sono tirati dai loro particolari interessi nel mentre che il Principe non ha altro interesse all’infuori del bene comune dello Stato".
La sola Repubblica per la quale fa eccezione è quella di Venezia che essendo autoritaria e aristocratica partecipa ai caratteri essenziali delle monarchie ereditarie: la continuità e la durata.
È difficile dare in poche pagine un riassunto completo della Ragion di Stato, piena com'è di lunghe digressioni su questo o quell’aspetto della politica regia, con frequenti richiami a esempi storici, presentati nel modo più opportuno per confortare la tesi dell'autore. Si occupa dei commerci, delle fortificazioni, dei mezzi adatti ad imbrigliare gli eretici, riguardo ai quali osserva acutamente che "il cambiare religione può esser di qualche utile a un particolare ed è contro il bene pubblico, quindi avviene che una città libera abbraccia più facilmente l'eresia che un principe assoluto": consiglia ai governanti di cercare all'esterno un diversivo per i contrasti interni: "la Spagna è in somma quiete perché si è impiegata in guerre straniere e in imprese remote nelle Indie e nei Paesi Bassi.... La Francia, stando in pace con gli stranieri, se rivolta contro sé stessa e gli animi sono pieni di furore e di rabbia"; raccomanda il possesso di colonie oltremare per dare terre e pane al sopravanzo della popolazione; e, contro l’opinione dominante ai suoi tempi, vuole che le imposte regie colpiscano proporzionatamente tutte le proprietà dei privati non siano personali, ma reali, cioè non su le teste, ma su i beni, altrimenti tutto il carico delle taglie cadrà sopra de’ poveri, come avviene ordinariamente, perché la nobiltà si scarica sopra la plebe e le città grosse sopra i contadini "l'agricoltura dev'essere" e si deve "far conto della gente che s’intende di migliorare e fecondare i terreni e di quelli i cui poderi sono eccellentemente coltivati", perciò da lode ai Duelli di Milano che scavando canali irrigatori "hanno arricchito sopra ogni credenza quel felicissimo contado": è avverso alle milizie mercenarie, che "vendono a guisa di mercatanti e di bottegai di poca fede l’opera loro piena di infinita tara di mille paghe morte o truffate, o di gente a buon mercato e perciò di poco valore e mal condizionata": si dilunga sull'arte militare, sulla scelta delle armi per i cavalieri ed i fanti ...

Favorita la Ragion di Stato e le Aggiunte che ad essa tennero dietro: Della eccellenza dei grandi capitani; Della neutralità; Della reputazione del Principe; oltre alle Relazioni universali che il Botero, veniva pubblicando sui vari Stati di Europa, quasi ad illustrazione ed a commento delle sue teorie di governo, gli valsero fama e considerazione grandissima, non solo a Roma. nell'ambito della Corte pontificia, ma presso i principali potentati nazionali e stranieri; tanto che il Duca Carlo Emanuele volle chiamarlo a Torino, per affidargli l'educazione dei suoi tre figli, ancora giovinetti.
Don Giovanni Botero, da buon suddito, non esitò ad obbedire e benché forse gli pesasse un poco di perdere la sua cara indipendenza e di interrompere i suoi studi prediletti, tornò in Piemonte dopo quindici anni di assenza, e si accinse con zelo coscienzioso ad assolvere il compito che gli avevano assegnato.
Egli del resto aveva sempre professato che "un privato non può l’opera e il saper suo meglio impiegare che in servire o di consiglio o di aiuto a quegli a cui Dio ha la cura dei popoli e l’amministrazione delle città confidato".
Ora la sorte gli offriva l'occasione di porre in atto questo suo principio preparando e plasmando per le responsabilità del comando la mente ed il carattere di futuri sovrani.
Alla corte di Carlo Emanuele, il nuovo precettore visse circa quattro anni e seppe così bene accattivarsi l'affezione dei principi e la fiducia del Duca, che quando nel 1603 i suoi allievi dovettero partire per la Spagna, invitati a passare qualche tempo alla corte del Re Filippo III. egli fu scelto per accompagnarli.
Il soggiorno durò quasi tre anni e si sarebbe forse prolungato, se la tragica sorte del principe Filippo, rimasto vittima di una epidemia di vaiolo, non avesse indotto il Duca padre a richiamare presso di sé i due superstiti. Vittorio Amedeo e Filiberto.
Dopo il ritorno in Piemonte l'illustre precettore che fra le cure pedagogiche e di corte non perdeva di vista la politica e dalla Spagna aveva mandato a Torino molte informazioni preziose, fu promosso alle cariche onorevoli e ambite di Consigliere e Primo Segretario dei Duchi di Savoia.
E non furono vane sinecure: ché il Sovrano teneva in alta stima il senno e l'esperienza dell'Abate Botero, e lo consultava spessissimo sugli affari di Stato.
Aveva allora molta carne al fuoco, l'ambizioso Signore montanaro che vedeva lontano, grande ed alto, e pensava all'Impero, ed ai Regni di Macedonia e di Cipro, alla Provenza ed alla Lombardia come alle splendide possibili poste di una grande partita!
Di tutto ciò trattava col Primo Segretario negli intimi colloqui a palazzo, o per lettere; e discuteva se colui familiarmente anche di storia e di letteratura, sottoponendo al suo esame e al suo giudizio gli scritti in versi e in prosa di cui si dilettava nei momenti di svago.
Anche il Botero aveva ripreso a scrivere e diede fuori in quegli anni alcune aggiunte alle sue Relazioni; e un'opera sui Principi Cristiani, "ove nelle azioni di ottimi e valorosissimi Re la pratica e l’uso di essa ragione di Stato quasi pittura al suo lume si scorge"; a cui segue una storia della Casa Sabauda dai tempi di Beroldo fìno al Duca regnante.
Dello stesso periodo sono un trattato didattico sui Grandi Capitani: un Discorso sull’Eccellenza della Monarchia in cui riprende e illustra le idee che già sappiamo, ed un Discorso della Nobiltà, in cui mostra di anteporre l'aristocrazia militare a quella civile o togata "perché la toga non è così efficace e pronta all’operare come la spada in tagliare i nodi gordiani e le difficoltà che si sogliono nelle alte imprese attraversare" ; ed ancora poemetti e dissertazioni diverse, sempre in lode del Duca e del Piemonte, produzioni di gusto secentesco per la ricerca preziosa dei concetti, ma tuttavia eleganti ed aggraziate.
Il suo ultimo scritto politico è del 1611: il Discorso sopra la lega contro il Turco, alla cui testa sognava il suo Signore, breve lavoro che tradisce in qualche punto la grave età dell'autore, già più che settantenne.
Sentendosi ormai prossimo alla fine il vecchio infaticabile scrittore cominciò a distaccarsi dalle cose terrene e rinunziò alla ricca abbazia di S. Michele in favore dell'ultimo dei suoi augusti discepoli, il Cardinale Maurizio di Savoia; nel tempo stesso cedette a Don Luigi Cid, Cappellano di Sua Maestà Cattolica, un lauto benefizio che possedeva in Milano, e fece testamento istituendo erede universale il Collegio dei Gesuiti in Torino, dove aveva studiato giovinetto e nella cui chiesa voleva esser sepolto.
Non s'ingannava nei suoi presentimenti ed il 23 Giugno 1617 si spense.

* * *

Invano cercheremmo nell'opera di Giovanni Botero le grandi architetture filosofiche e la ricchezza di definizioni teoriche che troveremo invece negli scritti degli altri pubblicisti autoritari dei secoli seguenti.
Ai suoi tempi i principi basilari dello Stato monarchico e della subordinazione sociale erano generalmente accettati: solo qua e là, favorite dall'eresia protestante, le teorie ugualitarie e sovversive facevano la loro apparizione. Mancava quindi l'esca alla polemica e alle discussioni d'idee.
I problemi che si offrono all'esame e allo studio degli scrittori politici fino alla metà del '600 sono di ordine pratico: è l’arte del governo, il mestiere di principe che forma oggetto del loro insegnamento tutto fondato sull'osservazione dei fatti e sulla quotidiana esperienza.
Ma ciò non toglie, anzi aggiunge interesse e valore a questi libri che hanno il merito grande di darci un quadro completo e fedele dello Stato monarchico tradizionale, considerato nel suo funzionamento, di fronte alle svariate molteplici esigenze della vita sociale e nazionale: in concreto cioè, non in astratto.
Ed il savio empirismo di un Botero è quasi la premessa necessaria dell'assolutismo teologico di Monsignor Bossuet, e della filosofia autoritaria dei Maistre e dei Bonald.

Fonte: Biografia tratta dal volume I grandi atleti del trono e dell'altare,
di Alessandro Augusto Monti della Corte (Vittorio Gatti Editore, Brescia 1929)/span>
Postato il 28 giugno 2010

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