26 giugno 2010

Fmi sott’accusa

Il «custode» dei bilanci criticato per le ultime scelte Ma sarà l’arbitro del G20
di Giorgio Ferrari
Non sono pochi gli analisti indipendenti che ritengono il Fondo monetario, nato nel 1946, corresponsabile di molti disastri finanziari del dopoguerra. La crisi argentina del 2001 il caso più clamoroso Dato in declino, l’anno scorso è stato rivitalizzato con un robusto aumento delle capacità di prestito
Ora che al G20 in corso a Toronto si prospetta un significativo braccio di ferro fra gli Stati Uni­ti (fautori di una politica di stimolo alla crescita) e la Germania, la Cina e a se­guire molte nazioni europee (che pun­tano su politiche di rigore e di conteni­mento della spesa pubblica) finirà pro­babilmente che ancora una volta l’arbi­trò sarà il Fondo monetario internazio­nale. Il che non toglie che il più severo fra i suoi detrattori sia – come si conviene ad ogni apostata – l’ex vicepresiden­te della Banca Mondiale e premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, anche se non mancano critici feroci, come l’economista Jean-Paul Fitoussi o – manco a dirlo – il pluriosannato linguista Noam Chomsky. Secondo questi grandi saggi, il Fmi è ritenuto in qualche modo cor­responsabile della maggior parte dei di­sastri finanziari del secondo dopoguerra.
Stiglitz in particolare, nel suo saggio del 2002 dal titolo La globalizzazione e i suoi oppositori, stigmatizza la gestione delle crisi finanziarie degli anni Novanta da parte del Fmi: dalla Russia, al Sudest a­siatico, all’Argentina – dice – la ricetta del Fondo è stata sempre la medesima, ovvero riduzione della spesa pubblica, politiche deflazionistiche, ingresso dei capitali esteri. In buona sostanza – è sempre Stiglitz a sostenerlo – un teatra­le fallimento. E non bastano le critiche di tipo tecnico, ci sono anche quelle dai risvolti politici: come l’allarme lanciato dal presidente della Bce Jean-Claude Trichet all’indomani dell’accordo fra la Ue e il Fmi per sostenere la Grecia e i Paesi indebitati con un fondo di sostegno da 750 miliardi di euro: in questo modo, ha ammonito Trichet, l’Europa ha perso una quota di sovranità e l’euro molta della sua credibilità. Forse non ha tutti i torti.
Ma che cos’è il Fondo monetario inter­nazionale, che cosa sappiamo di lui, chi ne fa parte, a che cosa serve realmente, oltre a somministrare agli Stati sovrani consigli che hanno tutta l’aria di ordini irrevocabili, a distribuire pagelle (le ultime fornite all’Italia peraltro sono incoraggianti), esortazioni, censure, dati, previsioni da brivido, neanche fosse un nemico spietato delle nostre sicurezze? Nato assieme alla Banca Mondiale nel 1946, all’indomani della conferenza di Bretton Woods, il Fmi ha tre compiti essenziali:
  1. monitorare e sorvegliare gli sviluppi economici e finanziari di ogni Paese e fornire consulenza politica vol­ta in particolare a prevenire le crisi;
  2. finanziare a breve e medio termine i Pae­si in difficoltà nella bilancia dei pagamenti e sostenere le politiche volte a cor­reggere i problemi di fondo, offrendo crediti a Paesi a basso reddito destinati in primo luogo alla riduzione della povertà;
  3. offrire assistenza tecnica e formazione per ridurre le debolezze strut­turali e le aree di vulnerabilità dei Paesi più arretrati.

La sua vocazione negli anni è mutata. Entrato in crisi negli anni Novanta, da­to quasi per spacciato e costretto a ri­durre la sua a­rea di influen­za, ha ripreso vigore con le crisi dell’ulti­mo decennio e nel 2009 – gra­zie a una deci­sione del G20 – ha quadrupli­cato le sue ca­pacità di prestito. Oggi – nonostante il benigno soprannome di Mister Courte­sy – è un censore severo delle malefatte degli Stati sovrani e un occhiuto scruta­tore dei loro conti. Giusto pochi giorni fa il Fmi ha pro­mosso l’Italia, ma con una striminzita sufficienza: i peggiori effetti della crisi per la nostra economia – recita il rap­porto divulgato a Washington – sono passati, «ma l’Italia è un Paese che si por­ta dietro grandi problemi strutturali e la ripresa, seppure avviata, sarà comun­que modesta. Per questo, anche se il go­verno ha reagito con misure appropria­te all’emergenza, si trova a far fronte a un debito pubblico destinato a salire anche oltre il 125% ed è perciò costretto a man­tenere una ferrea disciplina sul fronte dei conti pubblici». Insomma, anche se il peggio sembra passato, secondo il Fondo rimaniamo molto vulnerabili.
«Non voglio contestare il Fondo, ma...», esordisce l’ad di BancaIntesa Corrado Passera. Ed è una frase molto significa­tiva: onnipotente e difficile da contrad­dire, il Fmi non è ritenuto un oracolo né un deposito di verità assolute. Sulla co­scienza dei grandi strate­ghi del Fmi pe­sa infatti il caso argentino: con­siderata l’allie­vo modello del Fondo, scivolò nel 2001 nella più spaventosa delle sue crisi, con ipersvalutazione del peso, inflazio­ne galoppante e una sanguinosa ri­strutturazione del proprio debito. Il Fmi venne ripetutamente accusato di non a­ver compreso (o non aver voluto com­prendere) a che cosa stava andando in­contro il Paese. E se esaminassimo l’attività del Fondo nei Paesi ex comunisti, scopriremmo co­me i prestiti concessi hanno agevolato ben poco le economie emergenti degli ex satelliti sovietici, piuttosto sono ser­viti a ripagare i creditori occidentali, co­sì come le privatizzazioni forzate impo­ste in nazioni dove tutto era da cin­quant’anni proprietà dello Stato hanno sì incrementato la crescita economica ma hanno amplificato le disuguaglian­ze e redistribuito la ricchezza – com’è il caso russo – nelle mani di pochi oligar­chi e di una ristretta élite di nuovo co­nio.
I detrattori del Fondo amano ricordare come Cina e Polonia, che hanno pla­tealmente disatteso le indicazioni del Fondo monetario, hanno ottenuto ri­sultati di gran lunga migliori degli 'al­lievi' più diligenti. E non è tutto: pur di sottrarsi all’abbraccio del Fmi, molti Paesi africani hanno preferito indebi­tarsi con la Cina piuttosto che avere a che fare con i burocrati di Washington.
Ma una cosa è chiara a tutti: il Fmi non può prevedere il futuro, solo correggere il presente rimediando gli errori del pas­sato. Al futuro ci pensano gli economi­sti, ma sappiamo bene che non tutti si fidano di Mister Courtesy e delle sue ri­cette. Come diceva George Bernard Shaw, «insegnate a un pappagallo a ri­petere le parole 'domanda' e 'offerta' e avrete un economista ...».

«Avvenire» del 26 giugno 2010

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