26 giugno 2010

Eroi greci si diventa, ma scendendo dall’Olimpo

Ad Atene il rapporto tra mito e rito era stretto: gli immortali campioni erano una categoria precisa, composta da dèi decaduti oppure da uomini divinizzati
di Andrea Bisicchia
La prima cosa che colpisce del libro di Angelo Brelich è l’apparato delle note, circa 100 pagine, e quello delle illustrazioni – che sono dettagli del vaso François di origine attica (VI secolo), nel quale sono raffigurate scene corrispondenti ai temi religiosi trattati nel volume.
Lo studio di Brelich intende infatti dimostrare, facendo uso di una metodologia storico-comparatistica, il rapporto che esiste tra mito e rito, tra divino e semidivino, dato che nella religione greca l’eroe, non essendo un concetto ben definibile, si muoveva tra queste due connotazioni, trattandosi di un essere che aveva sperimentato un determinato complesso di esperienze religiose, connesse l’una all’altra, tanto da costituire una «sfera» ricorrente della religione oltre che di una sua particolare struttura. Brelich, da buon allievo di Kerényi, fa attento uso della filologia, dell’archeologia, ma estende i suoi studi verso altre discipline, come l’antropologia e la storia delle religioni. Così, dopo un capitolo dedicato al problema della mitologia greca, alle sue peculiarità formali, al suo funzionamento sociale, psicologico e religioso e quindi alla sua complessità (essendo il prodotto non solo di una proiezione fantastica del vivere rituale, ma anche di liturgie festive, di esoterismi), Brelich sposta la sua attenzione sui caratteri degli eroi, sul loro evolversi nel mito e nel culto. Lo studioso si chiede se esista, tra questi, una appartenenza, individuando una serie di rapporti tra l’eroe e la morte, l’eroe e il combattimento, l’eroe e l’agonistica, l’eroe e la mantica e la ieratica, l’eroe e i misteri e le iniziazioni, fino a sostenere la tesi secondo la quale gli eroi sono da considerare o Dei decaduti, o uomini divinizzati, ed a definire la presenza di uno status o di un «rango» degli eroi rispetto a quello degli dei. Questa dialettica era già stata individuata da Esiodo quando, esaminando il mito delle razze, corrispondente a quello delle varie età (dell’oro, d’argento, di bronzo), poneva l’eroe in una situazione «a parte», distinguendo il tempo degli dei da quello dei miti e degli umani. Jean-Pierre Vernant (Mito e pensiero presso i greci, Einaudi 1970) sosteneva che gli eroi «formano, nell’età classica, una categoria religiosa abbastanza ben definita, che si oppone tanto ai morti che agli dei». Si trattava, pertanto, di un uomo che era stato una volta vivo e che, consacrato alla morte, si era trovato promosso in una condizione divina, come se per lui esistesse un’assistenza soprannaturale. La verità è che, a mio avviso, mancando, alla religione greca il Libro rivelato, una delle sue caratteristiche permane quella di aver organizzato la sua esperienza sacrale attorno alla persona, integrando la vita religiosa con quella sociale e politica, tanto che per esempio sacerdozio e magistratura si equivalevano. Tra il fedele e Dio finiva per esistere una mediazione di tipo sociale; così, accadeva che, quando l’individuo per una colpa verso gli dei veniva scacciato, perdeva contemporaneamente il suo statuto sociale e la sua essenza religiosa.
Entrambe non spettavano all’eroe, la cui storia apparteneva a un passato di lotte, di conflitti, di pericoli, essendo inevitabilmente legata al tempo del mito, ben diverso dal tempo storico, che segnava il passaggio da un disordine primordiale all’ordine attuale; il quale non spettava certo all’eroe, ma a una divinità eterna e perfetta.

Angelo Brelich, Gli eroi greci
, Adelphi, pp. 478, € 35,00
«Avvenire» del 26 giugno 2010

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