23 giugno 2010

Ecco i primi «ritratti» degli apostoli

Ritrovate immagini di Pietro, Paolo, Andrea e Giovanni, che risalgono al IV secolo, a Roma nelle catacombe di Santa Tecla
di Marco Bussagli
Certo che fu assai lungimirante Pio IX fondando la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra nel 1852 con il compito di custodire, tutelare e conservare le più antiche vestigia cristiane, ovvero le catacombe e gli ipogei di Roma. Più tardi, il suo successore, Pio XI, estese le competenze della Commissione a tutta Italia, alle catacombe napoletane e agli ipogei siciliani e pure a quelli ebraici (oggi scorporati). Questi intenti vennero conservati nel primo Concordato con la Santa Sede (art. 33) e, poi, oggi, ribaditi in quello nuovo (art. 120). Lo ricordava questa mattina con la consueta affabilità Monsignor Gianfranco Ravasi che, oggi, ricopre il ruolo di Presidente di quella Commissione. L’occasione era di quelle straordinarie che dimostrano come certe intuizioni – come quella di Giovan Battista de Rossi, padre dell’archeologia cristiana moderna, che auspicò la nascita di quella Commissione, unita alla fattiva capacità politica dei pontefici –, possano avere delle così alte e benefiche ricadute sul mondo artistico e culturale moderno. Dopo due anni di studio e d’intenso lavoro, infatti, sono state miracolosamente recuperate le tenerissime pitture del Cubicolo degli Apostoli nelle catacombe romane di Santa Tecla, poco lontano da San Paolo fuori le mura. Lo studio si deve a Fabrizio Bisconti, insigne archeologo cristiano e soprintendente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, mentre il restauro, di grande impatto, è opera di Barbara Mazzei che si è avvalsa di una tecnica del tutto inedita per questi ambienti: quella del laser. Di queste pitture, infatti, si aveva notizia fin dal XVIII secolo, ma lo spesso strato di calcare rendeva praticamente impossibile la lettura della decorazione pittorica, ricoperta da concrezioni biancastre. La situazione disastrosa era dovuta all’umidità, padrona assoluta degli ipogei romani, nei confronti della quale archeologi e restauratori esercitano una lotta quotidiana. Le tecniche tradizionali, ha spiegato Barbara Mazzei, ovvero quelle basate sulla rimozione meccanica con l’impiego di piccole frese e bisturi, avrebbero rischiato di danneggiare irrimediabilmente la pellicola pittorica. Con l’apporto e la consulenza gratuita del Cnr di Sesto Fiorentino (in particolare Siano dell’Istituto di Fisica applicata), si è opportunamente tarata la capacità della macchina prodotta dalla El.En. di Cadenzano. Il raggio, infatti, viene programmato in modo da esercitare un’azione distruttiva sulle superfici biancastre del calcare e di sospenderla immediatamente in vista di cromie differenti. Si è poi verificato (ed è stato un dato sperimentale inaspettato) che l’azione del laser in presenza dell’umidità dell’ambiente provocava un micro­scoppio, causa del distacco del calcare. Il risultato è straordinario: le pitture, nelle parti conservate, come il soffitto del cubicolo, sembrano appena eseguite. Si rivela così la storia di questo singolare monumento e un altro tassello si aggiunge all’affascinante storia di Roma, una città a strati dove, scendendo le scale, ci si può veder catapultati nel IV secolo d.C. Al civico 42 di via Silvio D’Amico, infatti, si erge oggi un grande palazzone di cemento armato, eretto negli anni Cinquanta del XX secolo quando – scavandone le fondamenta – emersero le vestigia pagane e cristiane insieme. Passava da lì la via Ostiense e, a fianco, venivano costruiti dei mausolei pagani di cui ancora possediamo mura e pavimenti a mosaico con immagini e scritte dedicatorie. Accanto a quest’area sacra, doveva esservi una cava di pozzolana di cui ancora si conservano i mazzuoli degli operai. Successivamente questa venne trasformata in una semi-basilica dedicata probabilmente alla martire Tecla, glorificata da antiche pitture cristiane oggi sistemate nel piccolo abside. Dietro la semi-basilica si estende la catacomba vera e propria che è l’ultimo tratto del grande ipogeo di San Paolo fuori le mura, anche in senso cronologico. Il cubicolo è stato scavato dietro un ambiente precedentemente utilizzato a sepoltura, con due arcosoli laterali, uno dei quali è ornato dalla figura imberbe e tenerissima di Cristo in trono ( Christus magister ). Si può vedere ancora l’incertezza del pittore che, prima, lo dipinse con il braccio rivolto verso il basso e poi glielo alzò mutandogli posizione. Accanto fa bella mostra di sé un Daniele nella fossa dei leoni, precoce esempio di nudo eroico che recupera in senso cristiano la nudità classica. Quando si aprì il nuovo ambiente, il cubicolo di Tecla, si decise di ornare l’ingresso con un monumentale Collegio apostolico che si mostra come il prototipo di certe decorazioni absidali, visto che sotto il consesso dei dodici Apostoli si dipana la teoria delle pecore, stagliate su un bel rosso pompeiano. È infatti il rosso il colore dominante del soffitto del cubicolo, il pezzo forte della decorazione, con il Buon Pastore al centro e i clipei (rara iconografia) di san Paolo, san Pietro, sant’Andrea e san Giovanni che si pongono come le più antiche immagini degli apostoli raffigurati in questo modo («icone», giustamente, le chiama Bisconti). Anche la decorazione ornamentale è assai interessante, basata su un motivo ad incastro della Croce che, molti secoli dopo, sarà ripreso da Francesco Borromini nel San Carlino alle Quattro Fontane (ma lì la fonte era stata la catacomba di San Callisto). Infine, sulla destra entrando, l’immagine di lei, la facoltosa committente di questa meraviglia che qui fu sepolta insieme alla figlia, pure rappresentata nell’arcosolio e accompagnata verso la pace dei cieli proprio da Pietro e Paolo.
«Avvenire» del 23 giugno 2010

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