17 giugno 2010

Dietro gli slogan la banalizzazione di un dramma

Aborto e RU486
di Assuntina Morresi
Per una battaglia politica e cultura­le che si rispetti, bisogna dichiara­re apertamente il proprio obiettivo, con argomentazioni solide a sostegno, ed essere disposti a un confronto fran­co e aperto con gli interlocutori. Ma non è andata così a chi si è adoperato per introdurre la Ru486, la pillola a­bortiva, in Italia. Dopo anni di dibattito pubblico, anco­ra oggi nella gran parte dei cosiddetti grandi media il metodo abortivo far­macologico è spacciato come facile, più sicuro e meno doloroso di quello chi­rurgico, in barba a tutte le evidenze scientifiche e di pratica clinica. Le mor­ti delle donne dopo l’assunzione dei farmaci abortivi vengono ignorate, sot­tovalutate o addirittura negate. Conti­nuiamo a sentirci ripetere che altrove la Ru486 si usa tranquillamente da vent’anni, senza però che sia detto che in quegli stessi Paesi dov’è più diffusa – Francia, Gran Bretagna e Svezia, gli u­nici con percentuale di uso a due cifre – la situazione è di allarme sociale, e non solo per le morti: i numeri degli a­borti sono costanti ed elevati, da tem­po, o continuano ad aumentare, con un’incidenza sempre più alta fra le mi­norenni. Non si capisce, francamente, cosa avremmo da imitare, almeno in questo ambito. Dovrebbe accadere piuttosto il contrario (fermo restando che anche un solo aborto è di troppo, e che neppure i nostri numeri, migliori di quelli degli altri Paesi, possono tran­quillizzarci).
Se ben tre pareri della più autorevole i­stituzione nazionale in campo sanita­rio – il Consiglio superiore di sanità – e­spressi in anni diversi, con componen­ti e direzioni differenti, arrivano sem­pre alla stessa conclusione (per chi u­sa la Ru486 è necessario un ricovero or­dinario in ospedale fino a che l’aborto è completato), i paladini della pillola a­bortiva anziché porsi qualche doman­da in merito gridano al «boicottaggio». Non solo: contestando la scelta del go­vernatore del Lazio Renata Polverini – posti letto dedicati a chi abortisce con la pillola – c’è chi ha affermato che sa­rebbe «un’esagerazione: del resto per i casi di appendicite non è così».
E allora, giù la maschera e affrontiamo il vero problema posto dalla Ru486: l’a­borto può essere considerato un atto medico come tanti altri, oppure è co­munque un grave problema sociale, pure per chi ne condivide la legalizza­zione? Anche tra chi ritiene che l’abor­to sia sempre e comunque la soppres­sione di un essere umano (e tale rima­ne, indipendentemente dal metodo) la risposta che si dà a questa domanda non è indifferente. Se per la nostra so­cietà l’aborto è comunque un disvalo­re, una piaga sociale pure quando se ne ammette la legalizzazione, allora ci so­no le condizioni culturali e politiche per combatterlo. Se invece è ridotto a un atto medico, una richiesta privata al ser­vizio sanitario nazionale, allora è un fat­to che riguarda solamente chi lo chie­de e chi lo esegue. La Ru486 serve a mascherare cultural­mente l’aborto, nascondendolo dentro una scatola di pillole, che si possono prendere pure a casa propria, anche quando sarebbe necessario per la sa­lute della donna rimanere in ospedale. È l’aborto a domicilio il vero obiettivo dei sostenitori della Ru486, perché so­lo in questo modo abortire diventa un fatto esclusivamente privato, una que­stione di scelta fra tecniche mediche.
Allora se ne parli apertamente, senza nascondersi – com’è accaduto ieri, tra manifestazioni pubbliche e articoli di giornale contro la scelta della Regione Lazio – dietro vecchi slogan e inutili pre­testi. Ricordandosi però che se questo è lo scopo, bisogna anche dire che la legge 194 non lo prevede affatto, e che non si vuole applicare questa legge ma cambiarla come si è già fatto nella vici­na Francia, rendendo così legittimo l’a­borto a domicilio. È questa la vera po­sta in gioco: lo si dica con chiarezza.
«Avvenire» del 16 giugno 2010

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