10 giugno 2010

Bisanzio, una fine senza fine

di Alessandro Zaccuri
Bisanzio continua a cadere. Gli uomini precipitano dalle mura, sono «grani succhiati dalla clessidra». Altri, gli «scorpioni nel cerchio del fuoco», si gettano in mare cercando salvezza dall’assedio e dal saccheggio. La data è il 29 maggio 1453, i turchi hanno travolto ogni resistenza, sono come un drago che infili «la testa nell’apertura / senza curarsi della nafta e della calce».
Già nel suo primo libro (La Riviera del sangue, uscito nel 2005 da Mimesis e poi, in edizione accresciuta, da Fara nel 2007) Alessandro Rivali aveva rivelato la volontà di misurarsi con la materia incandescente della fine. A scorrere sotto gli occhi del lettore erano, in quel caso, anzitutto le memorie della guerra partigiana, ma anche il martirio che la città di Otranto patì nel 1480, ancora per mano dei turchi, e una manciata di componimenti ispirati alla disfatta di Persepoli. Questi ultimi versi si ritrovano oggi, rimaneggiati, nel cuore di La caduta di Bisanzio (Jaca Book, pagine 136, euro 14,00), inconsueto esperimento di poema epico disseminato in frammenti. «Un lungo viaggio attraverso il collasso delle civiltà», lo definisce l’autore. «Perché Bisanzio? – prosegue – Perché è una città di rimandi continui, emblema del declino e del tramonto senza fine».
Il punto è proprio questo: una fine che non finisce. Anche se condivide molto della temperie apocalittica che attraversa la letteratura dei nostri anni, lungo una linea che va da La strada di Cormac McCarthy a L’uomo verticale di Davide Longo, La caduta di Bisanzio si contraddistingue per la lucidità di una visione non arresa, non disponibile all’accettazione incondizionata della sconfitta.
Nato a Genova nel 1977, negli ultimi anni Rivali è stato più volte selezionato per autorevoli antologie di poeti emergenti, tra cui La stella polare (Città Nuova, 2008) e Il miele del silenzio (Interlinea, 2009). Nondimeno, Rivali va molto fiero della sua laurea in storia militare, una disciplina che educa a prospettive altrimenti inconsuete: «Quando i singoli episodi sono scremati da fantasie retoriche – spiega, restano uomini davanti a un sipario assoluto».
La Bisanzio di questo libro è più di una città, dunque, è il punto fermo che rende possibile «il pendolo delle capitali». Il destino della metropoli imperiale rimanda a ciò che è accaduto a Pompei, e che prima ancora – nel tempo immobile del mito – era accaduto ad Atlantide, e a Persepoli, appunto, e poi nell’Eldorado violata dai conquistadores. Ogni sacrario che sia Redipuglia o la Kolyma immortalata da Varlam Salamov trattiene l’identico nucleo di dolore e di meraviglia. «Ogni porta aperta un vento di fuoco», recita uno degli endecasillabi di Rivali, quasi a certificare la sovrapposizione fra l’essenza irripetibile di ciascuna vicenda umana e, insieme, l’identità originaria che rende il sofferente simile a tutti gli altri sofferenti.
Scommessa ambiziosa, certo, anche perché La caduta di Bisanzio non è soltanto denuncia dell’orrore («Secondo le storie degli Sciti / nell’ultimo dei giorni / avrebbero legato profeti alle ruote, / incendiato carri e timoni / per lanciarli nella pianura / come comete in fuga / sulla piana assiderata dal vento»), ma attesa della redenzione, atto di speranza e di sottomissione alla misericordia. L’Apocalisse viene così riletta con lo sguardo di un altro Giovanni, il mistico della Croce: «Dagli spalti invidiano / i tuoi occhi asciutti, / le notti di veglia e ardore, / anche senza intuire la tua sete / per il divino cauterio / e il lungo volo verso il Trafitto».
Nella Caduta di Bisanzio abbondano i soggetti sottintesi, le terze persone repentine, che costringono a uno sforzo di immedesimazione. Quando appaiono, però, i nomi propri sono un invito trasparente all’interpretazione: ecco quindi Tacito, Plinio, il Lamec biblico (colui che, ricorda la Genesi, uccise un uomo per una scalfittura e un ragazzo per un livido) e, infine, il poeta Ezra Pound, forse la più evidente tra le fonti di ispirazione di un libro in cui riaffiorano tracce di Yeats e di Eliot, dei tragici greci e degli innari bizantini. Della poesia, insomma, come esercizio di ascolto verso «colui che fu morto e visse, / che parlava con dolcezza / di cieli e terre e tutte le cose / in luce finalmente nuova».
«Avvenire» dell'8 giugno 2010

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