22 giugno 2010

Anche i poveri «impuri» cani ci dicono d’una cultura da tener cara

La fatwa di un ayatollah, l'antica (e nuova) saggezza di Erodoto
di Roberto Mussapi
Proibito tenere cani in casa, in Iran. Nel novero della crescente 'moralizzazione', su richiesta del quotidiano Javan, il grandayatollah Nasser Makarem Shirazi ha emesso una fatwa contro i cani. Sono impuri, e la confidenza con questi animali impuri rappresenta una pericolosa deviazione verso i corrotti costumi d’occidente.
Fino a qualche tempo fa il cane era considerato pericoloso per l’ innocenza delle giovani donne: accompagnarlo per strada implicava occasione di incontro con padroni di cani di sesso maschile, favorendo il nascere di possibili relazioni. No comment. Ma ora è il caso di commentare perché la posizione è più radicale, si fonda su un dogma morale: la confidenza con i cani, esseri impuri, è un pericoloso sintomo di cedimento all’occidente corrotto. Nonostante nel Corano ai poveri cani non sia fatto un minimo accenno.
Più di duemila anni fa un grande padre dell’occidente, lo storico greco Erodoto, visitava l’Egitto, annotando in pagine memorabili la meraviglia di quel mondo 'orientale' che si svelava ai suoi occhi.
Orientale per antonomasia l’Egitto che aveva visto il potere assoluto dei faraoni e la loro identificazione con il sole, che mostrava le piramidi geometriche e astratte, così differenti dalle sculture greche miranti a imitare la natura e massimamente l’uomo. Erodoto è letteralmente un padre fondatore dell’occidente: in primo luogo perché è un greco, e la cultura greca rappresenta la culla dell’occidente, oltre che una delle sue costole (accanto a quella ebraica e a quella indeuropea). Non solo: Erodoto è un viaggiatore, che si sposta al fine di conoscenza, ed è uno storico: la storia, hystorìa, il racconto dei fatti e degli eventi, è una squisita invenzione greca, come la filosofia. Il pensiero orientale non conosce le nostre categorie storiche, muovendosi su altre dimensioni (altrettanto affascinanti e fruttifere).
Oltre a indagare sulla religione e la storia degli egiziani, interrogando sacerdoti, scribi o uomini del popolo, Erodoto descrive con attenzione i costumi di quella gente, dalle forme di allevamento alla panificazione, indugia sugli animali, simbolicamente così importanti in Egitto, cerca di comprenderne il senso.
Osserva in particolare i modi di vita egiziani, e, con grande stupore, la presenza di animali entro le mura domestiche: quegli uomini di una civiltà per lui favolosa e lontana, uomini dalla pelle più scura di quella dei greci, tengono in casa cani, gatti, e anche altri animali, qualche uccello, ad esempio.
Erodoto sottolinea con vigore questo fatto, perché chi conosce la civiltà greca sa che è per lui piuttosto sconvolgente: il greco divide nettamente il mondo degli uomini (del pensiero, della memoria, dell’arte), da quello della natura (del selvaggio, dell’inconscio, dell’ incontrollabile). I limiti dell’abitazione, e della città, separano nettamente la casa dal mondo oscuro e ostile della selva: Artemide, non è, come erroneamente si pensa, la dea del bosco, ma del confine tra la casa e il bosco. Gli animali devono essere tenuti separati dallo spazio dell’ uomo, al punto che a tale separazione provvede una dea potente e amata.
Infatti Erodoto nota con stupore, e sottolinea, la coabitazione con animali, soprattutto i cani. Non stigmatizza. Non si indigna. Racconta, e cerca di capire. Se lo fanno, avranno pure le loro ragioni.
Nel dubbio descrive attentamente modalità e dettagli, in modo che nella polis, i suoi concittadini, ci riflettano.
Questo è il modo con cui un fondatore dell’occidente affronta una realtà diversa, addirittura cani che convivono con gli umani, fatto per lui sconvolgente. È incuriosito, si interroga. E anche così si fa contagiare o forse – nel senso più bello e forte – dovremmo dire: contaminare.
L’occidente non è proprio da buttare via, nei suoi fondamenti e nella sua essenza, pur con tutti gli errori, le degenerazioni, le iniquità. No, la cronaca ci mostra che non è il caso di ripudiarlo, e nemmeno di dimenticarne l’essenza. A partire dai poveri cani.
«Avvenire» del 22 giugno 2010

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