30 giugno 2010

I problemi della globalizzazione spiegati dai miti greci

di Cesare Cavalleri
Certo verrebbe voglia di leggere e rileggere soltanto i classici, i classici greci. La loro mitologia ha plasmato l’immaginario occidentale di cui ci nutriamo, e Freud ha dimostrato come alcuni miti greci siano andati alla radice dei meccanismi psicologici che ci governano. Si prenda la storia di Demetra e di Persefone che illustra l’intenso e difficile legame tra madre e figlia. Demetra, dea della Terra e della fecondità agricola nonché fondatrice dei riti eleusini, è sconvolta perché sua figlia Persefone è stata rapita da Ade, che vuol farne la regina degli inferi. La rabbia di Demetra scatena la carestia sulla terra e si scaglia anche contro gli dèi, del cui consesso non vuole più far parte. Dovrà intervenire lo stesso Zeus presso Ade, suo fratello, per indurlo a restituire Persefone, alla quale però il re degli inferi fa mangiare un chicco di melograno che le consentirà di trascorrere quattro mesi (la stagione invernale) negli inferi.
Ebbene, la disperazione di Demetra ben simboleggia l’amore possessivo di ogni madre verso la propria figlia (soprattutto se figlia unica), amore che non sopporta condivisioni.
Infatti, quando finalmente Demetra può riabbracciare Persefone, subito le chiede del melograno, e la figlia deve giustificarsi per avere almeno in parte apprezzato retrospettivamente il rapimento e accondisceso a mangiare il chicco nella prospettiva di diventare regina. Ma i miti greci non spiegano soltanto la psicologia: ammaestrano anche in materia di filosofia politica. Si prendano i Persiani di Eschilo, tragedia rappresentata nel 472 a. C., che descrive la vittoriosa battaglia navale di Salamina, vinta dai greci contro i Persiani.
Eschilo è testimone di primissima mano, avendo eroicamente combattuto prima a Maratona e poi a Salamina. Ebbene, colpisce innanzitutto il rispetto verso i nemici sconfitti, guidati dal giovane e sconsiderato Serse che ha osato perfino congiungere le rive dell’Ellesponto con un ponte di barche su cui ha fatto transitare il suo potentissimo esercito.
Eschilo non canta la vittoria dei greci, ma mette in scena il lutto dei persiani, facendo addirittura comparire l’ombra di Dario, il padre di Serse, che rimprovera l’insensatezza del figlio ma che invita la moglie, la regina Atossa, madre di Serse, a consolare il figlio, esortandolo a mettere a frutto la tremenda esperienza. In precedenza, Atossa aveva raccontato un sogno angoscioso, presagio dell’imminente sciagura: «Mi apparvero due donne in vesti eleganti: una indossava abiti persiani, l’altra vestiva alla dorica.
Erano sorelle, nate dagli stessi genitori. Ma a una era toccata in sorte l’eredità della terra greca, all’altra quella dei barbari. Mi parve di vedere che erano in lotta tra loro, nemiche una dell’altra: mio figlio se n’era accorto e cercava di trattenerle, di ammansirle. Le aggiogò entrambe al proprio carro, stringendo le cinghie sul collo: una s’ergeva come una torre, orgogliosa di quella bardatura, e offriva docile la bocca alle briglie. Ma l’altra recalcitrava: ed ecco che con le mani fa a pezzi i finimenti del carro, si strappa via il morso e spezza a metà il giogo.
Cade mio figlio, e il padre gli è vicino, lo compiange Dario: ma non appena lo vede, Serse si straccia la veste dal corpo».
L’empietà di Serse di aver incatenato i due continenti (Europa e Asia) sull’Ellesponto, si rispecchia nel tentativo fallimentare di far convivere la mentalità asiatica, incline ad obbedire al totalitarismo, con l’indomabile libertà che la Grecia ha trasmesso all’Occidente. E questo lo diceva Eschilo nel 472 a. C. La cosa straordinaria è che questi testi sono disponibili in edizione economica: per il mito di Demetra e Persefone, ci si può rivolgere agli Inni omerici, a cura di Giuseppe Zanetto, nella Bur, a soli euro 10,20; per i Persiani, insieme a Sette contro Tebe, c’è l’Oscar Mondadori, a cura di Giorgio Ieranò, che costa ancora meno: 9 euro.
Entrambi i libri hanno il testo greco a fronte, con ricchissimo commento.
«Avvenire» del 30 giugno 2010

Laicità: stop agli equivoci (voluti)

di Roberto Timossi
Non passa mese che nelle nostre librerie non esca un nuovo titolo su che cosa significhi essere laico. Non si riesce a sfogliare un quotidiano o una rivista senza imbattersi nella parola «laicità» e talvolta in quella di «laicismo». Chi avrebbe mai detto soltanto alcuni anni fa che nel nostro paese il primo decennio del terzo millennio avrebbe avuto al centro del proprio dibattito culturale la questione della «laicità»? Come poi capita spesso qui da noi, tutto deve essere girato in politica, degenerare in polemica e finire col prefigurare una fazione (i laici) che si contrappone ad un’altra (i cattolici) come al tempo dei guelfi e dei ghibellini.
E dire che forse non esiste un termine più neutro di «laico».
Tertulliano, tra i primi ad usarlo in lingua latina («laicus»), lo assume dalla parola greca «laikós», che indica semplicemente «ciò che è proprio del popolo». Nessuna contrapposizione dunque tra credente e non credente, tra religioso e non religioso, tra cattolico e anticattolico, anche perché nel Medioevo si definiva «laico» perfino un frate converso non ordinato sacerdote. Se stiamo all’etimologia della parola, i laici sono tutti coloro che non appartengono a un ordine sacerdotale o al clero, non importa se atei o credenti, se cattolici o non cattolici.
Suona pertanto quantomeno strano che del termine «laico» abbiano preteso e pretendano di appropriarsi soltanto coloro che polemizzano con chi crede e ancor più con chi è cattolico, generando così una confusione tanto terminologica quanto concettuale da cui si alimenta il filone giustamente detto «laicista». Senza offesa per i laici a senso unico (atei e anticattolici), a cui la definizione di «laicista» non piace, se una parola con un significato originario universale e per certi versi addirittura agapico (in quanto riferito ad una comunità popolare) si è trasformata in uno strumento di divisione socio-culturale, lo si deve proprio a chi ha voluto marcare una divisione nel «popolo».
Laddove invece divisione non ha senso che ci sia, a chi cioè ha fatto del laicismo un atteggiamento ideologico prevalentemente anticristiano.
Non stupisce allora che in questa confusione spesso artatamente alimenta si inserisca di tutto, col risultato (voluto) di sollevare un polverone mediatico che strumentalizza quanto proviene dal mondo dei credenti: dalla bioetica ai messaggi pastorali della Cei, dai preti pedofili all’ostensione della Sacra Sindone, e via dicendo. Tutto questo senza mai un barlume di autocritica, senza neppure un solo mea culpa, come invece ha ancora avuto il coraggio di fare il Sommo Pontefice. Ma è proprio questa impostazione faziosa e «confessionale» che, come qualcuno tra gli stessi laici nota, sta condannando i laicisti e i loro profeti al fallimento, con l’evidente sconfitta del programma ateista e del tentativo di ricondurre la scelta religiosa ad una questione meramente privata.
In realtà, se si vuole davvero creare una comunità unita e al tempo stesso aperta, si deve puntare al dialogo e non all’esasperazione delle ideologie, si deve cercare l’humus che può accomunare credenti e non credenti. Questo terreno comune esiste ed è innanzitutto il prodotto dell’intelligenza e della solidarietà umane. Esso ha come principale sfondo quello dell’antifondamentalismo tanto religioso quanto laicista, in sintesi il rispetto del ruolo sociale della fede religiosa.
«Avvenire» del 30 giugno 2010

«Sono quasi 2 milioni gli scommettitori patologici»

Lo psicologo Massone: ci sono tre categorie, sociali, problematici e compulsivi
di Antonio Giorgi
«Quando si affrontano queste tematiche bisogna evitare di cadere nelle semplificazione. Ogni giocatore è diverso dal­­l’altro, ogni problema va trattato tenendo conto della personalità del soggetto. Non esiste una ricetta buona per tutti». Giusep­pe Massone, milanese, è psicologo e psico­terapeuta. Di 'malati' di gioco che gli chie­dono aiuto ne incontra spesso, ultimo ca­so in ordine di tempo quello di una signo­ra che arrivava a bruciare in poche ore il suo stipendio mensile mettendo seriamente a rischio l’equilibrio familiare. «Non con il poker o le puntate alle scommesse clande­stine, però. La signora era una habitué del banalissimo gratta e vinci. La sua smania di scoprire cosa si nascondesse in ogni bi­glietto acquistato era una vera ossessione, una patologia».
Per fortuna non tutti approdano a questi limiti estremi della febbre da gioco. O no?
Chiaro che no. Direi che possiamo indivi­duare tre categorie: i giocatori sociali (gio­cano per stare con gli altri, per socializzare), i giocatori problematici (quelli che comin­ciano a perdere il contatto con la realtà che li circonda) e infine i patologici. Questi ulti­mi sono affascinati, incantati dal rischio e pensano di essere in grado di dominare gli eventi, al di sopra e al fuori di ogni calcolo delle probabilità. Sono malati, e sono sem­pre più numerosi. Sono circa il 3 per cento.

Dei giocatori o degli italiani?
Degli italiani. La patologia del gioco conta­gia almeno un milione e 800mila soggetti, vi­sto che siamo ormai sui 60 milioni. Preoc­cupa la crescita del numero delle donne at­tratte dal bingo, dal poker e da tutto il resto. Siamo di fronte al dilagare di quello che chia­miamo disturbo ossessivo-compulsivo.

Generato da che cosa? Cioè, qual è la gene­si della patologia?
La molla scatenante è spesso la smania del volere tutto e subito, dimenticando che o­gni traguardo richiede fatica e impegno. Si sfida la fortuna e ci si rovina. Oggi poi la ca­tegoria dei giocatori sociali (banalmente, quelli che giocano a carte al bar, che stanno con gli altri, che dialogano e si incontrano) è messa a rischio dalla diffusione delle mac­chinette e dei giochi on line da casa propria. Si agisce da soli, in privato, e sempre da so­li ci si caccia in un vicolo cieco. Il controllo sociale non c’è più.

Si può fare ancora qualcosa, correre ai ri­pari, mettere un argine al dilagare di prati­che devastanti?
Informazione corretta, sensibilizzazione sui rischi, educazione dei giovani ad un gioco responsabile (perché si può giocare re­sponsabilmente) sono le mosse da privile­giare. Certo che quando il comportamento patologico si è affermato...

Intende dire che a quel punto non resta nul­la da fare?
Questo no. I gruppi di auto aiuto possono dare un mano. Ci sono cliniche dove ci si può 'disintossicare' dal vizio, anche se spes­so una volta dimessi la ricaduta è inevitabi­le. Punterei soprattutto sui gruppi di auto aiuto, sull’esempio degli alcolisti anonimi. Per i più giovani serve sì formazione, ma an­che la sana pratica della proibizione. Pur­troppo oggi le macchinette sono dapper­tutto.

Lo specialista in concreto cosa deve fare?
Di fronte a disturbi ossessivi-compulsivi de­ve intervenire uno psicologo del compor­tamento che sappia andare a fondo valu­tando la personalità e il pregresso del sog­getto invece di limitarsi a curare un certo sintomo.
«Avvenire» del 30 giugno 2010

La febbre del gioco è «malattia» on line

Boom del poker via Internet: + 50% Ogni giorno si «bruciano» 15 milioni
di Antonio Giorgi
L’ultimo arrivato (per il mo­mento) sarà il poker 'cash' (una modalità di gioco di­versa dall’attuale per iscrizione e chiusura della sessione), esponente di punta della schiera dei cosiddet­ti nuovi giochi a distanza, previsti dal decreto legge 28 aprile 2009 n. 39 e in via di introduzione nel giro di al­cuni mesi. «Allegria», direbbe il com­pianto Mike. Allegria, perché avre­mo un’occasione in più per buttare soldi nel pozzo senza fondo dei gio­chi organizzati o autorizzati da uno Stato costretto suo malgrado a tra­sformarsi in biscazziere per drenare denaro con il quale far fronte alle sue spese. Nel 2009, l’ammontare è sta­to di 54,4 miliardi di euro, il 3,5% del Pil nazionale, con un + 14,4% ri­spetto al 2008, mentre in 10 anni la raccolta si è triplicata.
Giocheremo tranquilli. A casa no­stra. In tutta privacy. E in attesa del nuovo poker c’è di che sbizzarrirsi. Leggiamo l’elenco sul sito dell’Am­ministrazione autonoma monopo­li di Stato: scommesse sportive a quota fissa, scommesse ippiche, lot­terie istantanee (Gratta e vinci), ip­pica nazionale e internazionale, concorsi pronostici ( Totocalcio, il9, Totogol) e scommesse a totalizzato­re (Big Match e Big Race), giochi di abilità, Superenalotto e Superstar, Bingo, Win for life, operativo que­st’ultimo dal 30 marzo scorso.
«Ancora una volta – si legge nel sito dei Monopoli – si conferma l’orien­tamento delle preferenze del pub­blico sulle due categorie più popo­lari (giochi di abilità e scommesse sportive) che insieme rappresenta­no a maggio (2010, ndr ) ben il 93,4 per cento della raccolta a distanza e che meglio si prestano alla fruizione on line. Per le restanti categorie, che conseguono complessivamente il 6,6%, continua a prevalere invece l’abitudine alla fruizione 'fisica', con l’eccezione del bingo che sembra a­vere la potenzialità di essere popo­lare sia on line che nelle sale».
In effetti, nel primo quadrimestre è stato boom, soprattutto del poker, con visibile proliferazione degli spot televisivi dei siti di gioco: + 57% ri­spetto al 2009, una media gior­naliera che sfiora i 15 milioni per un totale di giocate pari a 1,78 mi­liardi e una proiezione annuale su­periore ai 3 miliardi.
Addio, o quasi, al vecchio gioco del lotto. I giochi di u­na volta fanno ormai parte di una archeologia ludica sulla quale do­mani i posteri discetteranno al pari di come noi oggi discutiamo di ar­cheologia industriale. Il mondo cammina velocemente, il computer è entrato in tutte le case. Non hai di meglio da fare? Ti annoi? Mettiti al­la tastiera e clicca. Ti piace il poker? I siti si sprecano, sono invitanti, ac­cattivanti, ti offrono bonus, ti ade­scano. Sei in casa, nessuno ti con­trolla, a nessuno devi rendere conto di quello che fai.
Poker on line, e non solo. «La cresci­ta del mercato in Italia – scommes­se, lotto, totocalcio, superenalotto, totogol, gratta e vinci, bingo, video­poker, slot machines e svariatissimi tipi di lotterie – è sotto gli occhi di tut­ti », conferma Francesca Picone, psi­chiatra, responsabile del Progetto Gap (gioco d’azzardo patologico) della Asl di Palermo.
Nulla di nuovo, se non fosse per le modalità inedite di pratica del gio­co d’azzardo, figlie dell’informatica, del Web, della connessione veloce oggi alla portata di qualsiasi utente di una linea telefonica. Così il gioco, poker o altro, invade la vita perso­nale e familiare. Se prima, ai tempi dell’archeologia ludica, poteva più facilmente essere innocuo, gioioso e perfino gratificante (tranne per chi diceva addio ad una intera fortuna al tavolo verde di Venezia o di Cam­pione) ora ha cambiato volto.

«Se non è più innocuo diventa una dipendenza», incalza la dottoressa Picone. La sua esperienza quotidia­na


Il fenomeno del poker on-line non è solo italiano e riguarda molti Paesi l’ha indotta a formulare una ter­minologia nuova: «È una dipenden­za senza sostanza». Insomma, non è polvere bianca, non è erba, non è psicofarmaco, non è anfetamina: è solo voglia irrefrenabile di giocare. «Ma l’analogia con la dipendenza da sostanze è fortissima. Il giocatore è completamente assorbito, perde la capacità di controllarsi, non riesce a smettere, brucia cifre superiori alle proprie possibilità e fa grossi debiti ma non smette di pensare a come procurarsi i soldi per continuare. Al­lora fa anche cose illegali, si isola dal contesto familiare e lavorativo, com­promette i rapporti affettivi...».
Anche i ragazzini, o forse soprattut­to loro, abboccano nonostante i di­vieti legislativi per i minori. Ma le slot machines sono a portata di mano. Il computer è lì, il videopoker attende, il terminale per seguire una corsa sulla quale è stato puntato un muc­chio di soldi è acceso... Oscar Wilde diceva di essere in grado di resistere a tutto tranne che alle tentazioni. Fi­guriamoci uno studente svogliato, una casalinga disperata, un cassin­tegrato con l’acqua alla gola...
«Avvenire» del 30 giugno 2010

Cultura e storia unica bussola degli Stati

di Pier Luigi Fornari
Il 28 gennaio scorso è stato presentato dall’Italia un ricorso alla sentenza pronunciata il 3 novembre. Il documento tra l’altro ha sottolineato che «imporre a uno Stato di rimuovere il simbolo religioso che esiste già e la cui presenza è giustificata dalla tradizione del Paese (senza che questo simbolo obblighi all’adesione di fede), implica un valore negativo contro ciò che rappresenta questo simbolo e viola la libertà religiosa». Inoltre il ricorso del governo chiede «se la semplice presenza di "inerti", come il crocifisso, possa turbare la coscienza del non credente, o se, invece, non si utilizzi questo turbamento per manifestare una vera intolleranza della dimensione religiosa».
Peraltro, argomenta il ricorso, «la neutralità assoluta dello Stato in materia religiosa è una chimera». Infatti qualsiasi normativa in materia «può essere un modo, una posizione che può offendere la sensibilità di un certo numero di persone, come è inevitabile e riconosciuto dalla stessa Corte. Così, in questo caso, le persone di fede potrebbero sentirsi offese per il fatto di non poter vedere il loro simbolo religioso sul muro». In proposito, il ricorso cita il giurista ebreo Joseph Weiler, il quale ha osservato che «la rinuncia da parte di uno Stato a tutte le forme di simbolismo religioso non è una posizione più neutrale di quella di chi aderisce a una forma di simbolismo religioso determinato». Nel contesto della realtà storica e della cultura italiana, rimuovere il crocifisso dalle pareti delle scuole non ha nulla a che fare con il comportamento di uno Stato veramente laico, ma, ancora citando Weiler, «significa semplicemente che si concentrano nel simbolismo dello Stato, una visione del mondo piuttosto che un’altra, passando per tutte le neutralità».
Il ricorso accenna, infine, al principio di sussidiarietà: «Inoltre, come riconosciuto dalla stessa Corte, le autorità nazionali hanno una notevole discrezionalità in una materia così complessa e delicata, strettamente legata alla cultura e alla storia». Poiché «la neutralità si oppone allo stato confessionale che promuove apertamente una particolare religione, ma anche allo stato basato su un secolarismo militante che promuove l’agnosticismo o l’ateismo, ne consegue che l’incompetenza dello Stato a rispondere a domande sulla trascendenza non può condurre anche alla promozione di ateismo o di agnosticismo con l’eliminazione dei simboli religiosi dalla vita pubblica».
La memoria dell’Italia presentata il 30 marzo ribadisce che l’errore della Corte è proprio questo: «optare per la neutralità, mentre si realizza, in effetti solo una posizione di vantaggio a favore di un atteggiamento a-religioso o anti-religioso; la prova è che in questo caso, la ricorrente, che è partner della Uaar (Unione degli ates e degli agnostici, razionalisti) agisce in quanto ateo militante. Il suo scopo è semplicemente quello di ottenere, con il pretesto della laicità dello Stati, che la sua ideologia a-religiosa o addirittura anti-religiosa prevalga: in questo caso sulla religione professata dalla maggioranza della popolazione, e, come vedremo in seguito, contro la volontà della stragrande maggioranza degli altri genitori. Il riferimento alla laicità dello Stato fatto dal ricorrente (la quale laicità non ha alcun fondamento nella Convenzione) non è che una invocazione per imporre una ideologia a-religiosa o anti-religiosa per qualsiasi religione e cancellare la tradizione del Paese ospitante».
Secondo la memoria inoltre la Corte si basa su «una concezione strettamente individualistica della religiosità», che non si attaglia all’Italia e ad altri Paesi europei. Il documento cita la ricerca fatta dal professor Carlo Cardia, in cui si sostiene che il concetto di neutralità in Italia è molto diverso dalla laicità francese; è più benevolo verso qualsiasi tipo di religione, ma tuttavia anche coerente alla Convenzione. Sulla base dell’analisi dei pronunciamenti passati si osserva poi che in applicazione del principio di sussidiarietà «la Corte ha riconosciuto che le autorità nazionali sono in una posizione migliore rispetto al giudice europeo per valutare le situazioni locali e l’applicazione della Convenzione a queste specifiche realtà. Al tal fine la Corte riconosce agli Stati membri un "margine di discrezionalità nazionale", strettamente correlato al grado di "consenso" esistente tra i Paesi europei».
Degno di nota infine quanto decise nel gennaio del 2006 la sesta sezione del Consiglio di Stato ponendo fine alla vicenda in Italia. L’esposizione del crocifisso anche per i non credenti «è atto ad esprimere, appunto in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civilità italiana».
«Avvenire» del 30 giugno 2010

Ozio addio. Schiavi degli impegni non sappiamo creare

Modernità. Il movimento porta solo frastrazione e noia?
di Paolo Di Stefano
L’ossessione di riempire tutti gli spazi delle nostre giornate ha molte facce: Internet, i blog, lo zapping alla tv. Invece i «tempi morti» diventano una fatica insopportabile che porta alla depressione: il contrario dell’otium classico, sinonimo di pienezza vitale

Non siamo più capaci di oziare. Nel senso buono, nel senso latino del termine: la vita solitaria e contemplativa non fa per noi. Anche il tempo libero finisce per essere un tempo finalizzato a qualcosa. Nel suo primo romanzo in lingua francese, La lentezza, Milan Kundera ricordava un bel proverbio ceco: «Gli oziosi contemplano le finestre del buon Dio». E aggiungeva: «Nel nostro mondo l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca». Per Kundera l’ozio è la sapienza della lentezza, il «conoscere a meraviglia la tecnica del rallentando» e si oppone alla velocità, che è «la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». L’ozio è una declinazione del tempo. Con il Basso Medioevo, racconta lo storico Jacques Le Goff in un saggio memorabile, al tempo della Chiesa, che segnava con il ritocco delle campane le varie tappe della giornata, si è aggiunto il tempo del mercante: quello scandito dal commercio, lo spazio temporale che divide la promessa di pagamento dal saldo. Al tempo di Dio, dopo il primo millennio, si è aggiunto il tempo dell’uomo. Con la postmodernità fluida, è quest’ultimo il solo tempo che ci è rimasto.
Nella tradizione filosofico-letteraria cristiana, l’ozio aveva connotazioni diverse. Da una parte astenersi da ogni occupazione utile (il lavoro e la preghiera) era sinonimo di pigrizia, uno stato patologico vicino alla malinconia depressiva: ora et labora era il motto della regola benedettina che dovette aver presente Dante quando, nel VII dell’Inferno, condannò gli accidiosi (quelli «co la mente alienata», scrive Jacopone da Todi) a rimanere eternamente immersi nelle acque nere e ribollenti della palude Stigia. Ma soprattutto quando, nel XVIII del Purgatorio, costrinse, per contrappasso, le anime dei pigri a muoversi in continuazione e a correre urlando esempi di sollecitudine. Dante, probabilmente, avrebbe riservato lo stesso destino al buon Oblomov, il trentenne protagonista eponimo di Goncarov, che le prova tutte prima di rassegnarsi a vivere una vita apatica nella sua casa di Pietroburgo, mentre il mondo intorno a lui si agita frenetico.
D’altra parte, invece, c’è l’otium, l’opposto degli affari pubblici, il tempo da dedicare alla meditazione, allo studio, alla cura della mente e dello spirito, quello amato dagli stoici, da Cicerone, da Orazio e da Seneca, che vi scrisse sopra ben due trattatelli: De otio e De tranquillitate animi. Anche Petrarca la pensa così e il suo De vita solitaria è un’esaltazione del tempo liberato dalle occupazioni civili e politiche, purché non diventi inerzia e disimpegno. Un filone che avrà fortuna tra gli illuministi, prima che l’ozio diventi lo spleen dei romantici, mal di vivere da flâneur, e poi nausea esistenzialista e noia moraviana. Ma sarà la rivoluzione industriale a recuperare l’orgoglio della vacanza in senso etimologico, del vuoto creativo, con una serie di pamphlet che vanno dal Diritto all’ozio di Paul Laforgue (1880) all’Elogio dell’ozio di Bertrand Russell (1932), con declinazioni successive in chiave umoristica, come nel pamphlet di Jerome K. Jerome I pensieri oziosi di un ozioso il cui succo è riassunto da questa breve parabola: «Conobbi un uomo che all’ora della sveglia balzava subito dal letto e faceva un bagno freddo. Ma questo eroismo non serviva a nulla perché, dopo il bagno, doveva saltare di nuovo dentro al letto per scaldarsi». In sostanza: «È impossibile godere a fondo dell’ozio se non si ha una quantità di lavoro da fare». Oppure quello stesso orgoglio può assumere un’accezione mistico-ascetica, come nel libretto di Hermann Hesse, L’arte dell’ozio.
Che cosa è rimasto del piacere dell’ozio umanistico nell’era multitasking? Niente o quasi. Perché una delle qualità essenziali del dolce far niente è la gratuità come scelta deliberata e la gratuità, nella nostra epoca, è rara. Tutto deve essere funzionale a qualcosa. Pensate ai bambini e agli adolescenti: il loro tempo libero viene occupato, per lo più, da attività organizzate, programmate da genitori-manager. Così, alla fatica necessaria (quella della scuola) si aggiunge la fatica del tempo liberato, corsi di inglese, corsi di musica, lezioni di ginnastica e di danza, sedute sportive. I ragazzi hanno l’obbligo di scegliere come occupare le proprie ore libere, purché rientrino in uno schema istituzionale e in una socialità regolata e perciò rassicurante (per la famiglia). Quanti genitori rovesciano nei figli la propria ansia di prestazione e/o la propria paura del vuoto?
Non avete mai visto quelle madri e quei padri che nel pomeriggio si trascinano dietro per un braccio i loro figli per caricarli in auto e consegnarli puntuali in palestra o in piscina? Oppure aspettare il week end per abbandonarli qualche ora dalla maestra di pianoforte o al corso di karate? Che noia, anzi che stress! Magari fosse noia: quel bel momento di solitudine in cui si sbuffa, non si sa che cosa inventarsi e magari per inventarselo bisogna lavorare di fantasia e aguzzare l’ingegno. Invece no, è il proseguimento della routine quotidiana, anzi dello stress scolastico: la noia, per certi genitori, va evitata come il diavolo perché la nostra società ci insegna a essere attivi ed efficienti 24 ore su 24. Altro che il vivere al 5 per cento di montaliana memoria: bisogna vivere al centodieci per cento, e se possibile anche di più, ed è meglio che i ragazzi lo sappiano subito. E il gioco? Il gioco spontaneo, come rottura e capovolgimento di quella routine, divertimento puro, rovesciamento carnevalesco, ne viene fatalmente sacrificato.
Del resto, come fa notare Fabio Massimo Lo Verde, nel suo recente saggio Sociologia del tempo libero: «È attorno al lavoro e alla sua etica che si è organizzata la modernità e dunque il suo contrario ha assunto soprattutto un significato residuale». È così che il leisure facendosi fenomeno di consumo di massa ha prodotto un vero e proprio business, un settore merceologico ad hoc, per giovani, per adulti e per anziani, in costante crescita fino a configurare una colossale industria dell’entertainment capace di assicurare felicità, benessere, divertimento a orari fissi da segnarsi bene sull’agenda.
C’è un’apparente contraddizione di cui bisogna tener conto e che si può riassumere in una domanda: lo sviluppo riduce o fa aumentare il tempo libero? Ci sono i pessimisti e gli ottimisti. Chi considera il leisure come uno spazio confinato tra le attività di consumo, una specie di libertà obbligatoria, per usare le parole di una celebre canzone di Giorgio Gaber («si può occuparsi di spiritismo / si può far dibattiti sull’orgasmo / si può far politica alternativa / si può siamo pieni di iniziativa / si può...») dove tutto viene ironicamente ridotto a hobby per nevrotici e frustrati. Una specie di scarico nervoso indispensabile al dopo lavoro, come se l’organizzazione produttiva finisse per invadere anche il tempo dello svago. D’altra parte, mentre in passato i paletti tra lavoro fisico e «tempo perso » erano più netti, oggi la crescita del lavoro immateriale, nelle sue varie forme, rende quasi inavvertibile lo sconfinamento nell’ozio fino a farne un tempo apparentemente senza limiti imposti.
Bisogna vedere, insomma, se questo sconfinamento è davvero riposo o coazione dissipativa: a cominciare dalla ossessione compulsiva di occupare gli spazi interstiziali della propria giornata navigando in Internet, consultando i blog di riferimento, concedendosi allo zapping sincopato della tv. Senza dire che l’epoca della flessibilità e del precariato rischia di dilatare ad libitum i tempi morti, rendendo paradossalmente il «dolce far nulla» una fatica insopportabile, frustrante e alla fine depressiva. Perché, ha ragione il già citato Jerome K. Jerome, non c’è vero ozio senza lavoro. Comunque lo si veda - quale prolungamento dell’abitudine al consumo, spazio organizzato per finalità didattiche o pseudoformative, forma di intrattenimento dei tempi morti, sfogo o decompressione del lavoro immateriale, unica alternativa al vuoto di una quasi disoccupazione - l’ozio, nella dimensione umanistica di una rilassata e rilassante gratuità, sembrerebbe incompatibile con la nostra epoca, dove risulterebbe ridicolo fondare un’Accademia degli Oziosi, come avvenne a Napoli nel 1611.
Semmai, nell’era della velocità, dell’iperattività realizzativa e dei risultati da esibire al cospetto della società, anche il minimo vuoto può essere causa di immotivati sensi di colpa. Senza sapere che è solo il tempo vuoto a scongiurare l’oblio. Lo dice magnificamente Kundera nel libro citato: «C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio». È più omeno ciò che pensa Virginia Woolf quando afferma che «nell’ozio la verità sommersa viene qualche volta a galla». Ha ragione, Virginia Woolf. Intanto perché - lo dice Domenico De Masi in un libro intervista con Paria Serena Palieri, l’«ozio creativo» è un girare apparentemente a vuoto, in attesa dell’idea, dell’estro, della voglia, della cosiddetta ispirazione che può produrre capolavori. «Oziare - aggiunge De Masi - non significa non pensare. Significa non pensare secondo regole obbligatorie, non avere l’assillo del cronometro, non seguire i percorsi angusti della razionalità, tutte quelle cose che Taylor e Ford si erano inventati per imbrigliare il lavoro esecutivo e renderlo efficiente».
Nella letteratura del Novecento è spesso la flânerie a far emergere la verità sommersa: il principe di Salina, nel Gattopardo, si dedicava all’astronomia. Ma l’ozio, nelle sue varie coloriture che vanno dall’accidia all’inerzia, dalla pigrizia colpevole alla fannulloneria deliberata, non è più solo prerogativa aristocratica. In una giornata di giugno l’agente pubblicitario Leopold Bloom vagabonda per le strade, per le librerie, per i locali e per i bordelli di Dublino costruendo via via la propria identità. L’inattività è molto più produttiva dell’azione. Basti pensare a Ulrich, l’uomo senza qualità (e inconcludente) di Musil, agli inetti di Svevo (autore di pagine, intitolate Il mio ozio, che dovevano appartenere a un romanzo rimasto incompiuto) perennemente a passeggio per la città, ai tempi perduti e ritrovati di Proust: dove la memoria, il sapore della vita e della morte emergono nel momento massimo del relax, inzuppando una madeleine in una tazza di tè. Per non dire di quel che affiora nell’ozio più paradossale, angoscioso e assurdo della letteratura, quello di Vladimiro ed Estragone, in Aspettando Godot.
Il tempo della vita viene annullato e la verità la si cerca altrove. Quando l’ozio aveva un valore esistenziale, anche i narratori ne tenevano conto e condivano i loro romanzi di dilatazioni, rallentamenti, digressioni e descrizioni, al punto che nel secolo scorso queste hanno preso il sopravvento fino a diventare il cuore della narrazione. Le cose importanti accadevano nei tempi morti anche in letteratura. Ma la fretta incalzante delle nostre «vite di corsa» (titolo di un libretto del sociologo Zygmunt Bauman) ha prodotto, negli ultimi anni, romanzi di corsa: il trionfo della trama non è altro che il riflesso (automatico?) narrativo di un mondo che si regge sulla velocità-tutta-cose, sull’iperattività (una sindrome di cui, non a caso, sempre più soffrono i nostri figli sin dall’infanzia). Non è ammesso ozio neanche nei romanzi: il genere - giallo, noir, eccetera - va subito al sodo, è il trionfo del ritmo, dell’azione senza tanti giri, senza perdite di tempo. È probabile che un nuovo Proust oggi scriverebbe «Alla ricerca del tempo perso perduto». Sì, il tempo perso perduto.

L’autore
Paolo Di Stefano (Avola 1956) è inviato del «Corriere della Sera» e scrittore. Tra i suoi romanzi: «Baci da non ripetere» (Feltrinelli 1994), «Tutti contenti» (Feltrinelli 2003), «Nel cuore che ti cerca» (Rizzoli 2008). Un mese fa ha pubblicato «Potresti anche dirmi grazie. Gli scrittori raccontati dagli editori» (Rizzoli)
«Corriere della Sera» del 28 giugno 2010

29 giugno 2010

C'era una volta la sinistra

L'ultimo libro di Alfredo Reichlin racconta la storia di un grande partito popolare e, a quel tempo, anche moderno. Ma la sinistra italiana paga ancora oggi le bugie di Togliatti sull'Unione Sovietica

di Giorgio Ruffolo
Alfredo Reichlin non è un osservatore. È un protagonista. Non è uno storico. È un combattente. Di qui l'autenticità e il fascino del suo libro Il midollo del leone, appena uscito con Laterza. Che non ha la pretesa di rappresentare la storia della sinistra italiana. Ma di raccontarla così come lui l'ha vissuta, in un periodo lungo, tormentato, esaltante, nel corso di una vita durante la quale il suo Paese ha cambiato il volto, attraversando il dolore e l'esaltazione, i drammi della miseria e l'euforia della ricchezza. È costante, dalla prima all'ultima pagina, non la pretesa di spiegare, ma la voglia di capire. Il tentativo di cogliere dalla moltitudine degli avvenimenti il senso della storia, quella padronanza della storia che è nutrimento di una morale politica rigorosa: il "midollo di leone", appunto. I temi trattati in questo libro sono molti e complessi. Riguardano tutti la cultura della sinistra italiana, ed è anche per questo motivo che del volume bisogna parlare. Proverò a elencarli, come i francesi, dividendo la materia in tre parti (Gallia omnis in tres partes divisa est, diceva, appunto, Cesare): la sinistra e l'Italia, la sinistra e il Pci, la sinistra e il partito democratico.
Intanto, la sinistra e l'Italia. Quella che a noi giovani si rivelò alla fine della guerra era un formicaio sconvolto. Distruzioni dappertutto. Sembrava la fine. Ma come i formicai sconvolti, brulicò di insospettate energie. Noi giovani conoscemmo allora non l'Italia fasulla, che era stata descritta dai cinegiornali del regime, nei suoi parodistici travestimenti imperiali, ma l'Italia vera del dolore e del lavoro. E imparammo ad amarla. Fummo trascinati dall'onda dei suoi tre miracoli. Il miracolo di una economia che in vent'anni fu proiettata dalla coda alla testa dei paesi capitalistici. Il miracolo di una politica che in piena guerra fredda seppe trovare il consenso necessario per edificare una Costituzione democratica. Il miracolo di una cultura che nelle nuove forme espressive del cinema rappresentava la sua prodigiosa modernità. Non c'è dubbio che molta parte del merito di questi miracoli deve essere riconosciuta al Partito comunista italiano. Era esso stesso un miracolo. Nato nello schema eroico ma angusto della cospirazione, si svolse in quello di un moderno partito di massa, che sapeva parlare a tutta la società italiana. La sua formidabile capacità di guida delle lotte popolari, felice retaggio del patrimonio socialista, era espressione di modernità. Non conati rivoluzionari, ma conquiste concrete e moderne del movimento operaio e contadino che a loro modo contribuivano allo sviluppo dell'economia.
Basta leggere le pagine di Reichlin sulla sua Puglia, dove un popolo di contadini mangiava pane e cicoria conditi con una croce d'olio. A Barletta i bambini giravano scalzi, la carne era quasi sconosciuta. "In pochi anni è diventata una città moderna che esporta scarpe da riposo in tutto il mondo e i nuovi ricchi girano in Mercedes". Mentre i comunisti francesi si chiudevano alla società, i comunisti greci la precipitavano in un'avventura suicida, i comunisti italiani parlavano ai giovani col linguaggio dei giovani. Parlavano ai giovani usciti dalle file del fascismo, non si sognavano di epurarli, li accoglievano. Parlavano ai registi, ai poeti, ai filosofi fondando giornali, riviste, case editrici.
Avevano alle loro spalle il pensiero e l'esempio di un grande pensatore e militante modernizzatore, Antonio Gramsci (cui peraltro, bisogna dire, riservarono la sorte peggiore: fa parte del loro lato bieco). Fondarono "l'Unità" un grande giornale moderno, unico esempio in Europa, ricalcato sul modello del "Corriere della Sera". Surclassarono in modernità i socialisti. Fu merito di Togliatti di avere superato i suoi stessi pregiudizi e i suoi stessi limiti, battendo in breccia le pur presenti, e insidiose, resistenze dei "vecchi combattenti". Quell'incontestabile merito gli è giustamente riconosciuto da Reichlin, uno dei giovani cresciuti in quel clima, che si erano nutriti di letteratura americana. Ma l'ascesa del Pci non fu seguita dal suo logico coronamento. Il Partito comunista si arrestò nella sua marcia. Fu solo a causa delle reazioni internazionali e delle trame delle forze reazionarie domestiche? O, come io penso, esso covava un tarlo fatale di credibilità? È qui che la mia analisi si distacca da quella di Reichlin.
E vengo al secondo tema: la sinistra e il Pci. Ne discutiamo con Alfredo da decenni, sempre con foga di vecchi militanti. È certo che l'arresto della marcia del Pci fu dovuto in parte al fattore K: e cioè al fatto che un grande partito comunista di un grande Paese occidentale non potesse andare al governo senza turbare l'equilibrio tra le due superpotenze. Ma quel che mi è difficile accettare è la tesi esposta nel libro, che il legame con l'Unione Sovietica costituisse per i comunisti italiani un errore fatale, anzi, una sciagura, ma non un fattore costituente della loro natura.
Il fatto di avere riconosciuto e fatto riconoscere a tanta parte della sinistra, come patria del socialismo, uno dei sistemi politici più tirannici della storia del mondo moderno, è stato fatale a tutta la sinistra italiana, non solo e non tanto perché le ha sbarrato la strada del governo, ma perché l'ha screditata di fronte a se stessa, come grande forza democratica. Una controrivoluzione come quella staliniana è stata occultata da una grande bugia. Quando la verità si è imposta ai dirigenti comunisti, questi sono stati frenati dal timore di "perdere le masse". Ma queste, chi le aveva illuse? Reichlin riconosce questo tragico errore. Ma pensa che esso non abbia pregiudicato la credibilità democratica del partito comunista, che guardava all'America molto più che a Mosca. Come dire: gli orrori dei gulag non ci riguardavano. Nessuno avrebbe potuto consentire ai fascisti di affermare che gli orrori dei lager non li riguardavano. Del resto quegli orrori, sia Togliatti che Berlinguer li conoscevano. Averli taciuti non giustifica l'ammirazione politica per il primo e morale per il secondo.
Dico queste cose con la sincerità che si deve a un amico con il quale si condivide una solidarietà politica che neppure la sbandata staliniana può spegnere. E questo mi porta al terzo tema che ci è comune: il declino della sinistra italiana. Non si tratta, come spiega Reichlin, soltanto della sinistra. Si tratta di un attacco alla democrazia. Si sono sciolti i suoi tre grandi partiti, Dc, Pci e Psi. Un'ondata di discredito ha investito le istituzioni, sommergendone le strutture, mentre emergevano i poteri di fatto: finanza, corporazioni, servizi, mafie, telecrazie. Si è contestata la Costituzione. Si è confutata l'unità nazionale. Si è sconfessata la sua storia nei suoi momenti più alti: il risorgimento, la resistenza. Il centro del messaggio del libro sta nella denuncia di una politica della sinistra che ha completamente abbandonato quella che era la sua dichiarata missione: cambiare un mondo troppo ingiusto. Renderlo degno di essere vissuto per tutti gli uomini e per tutte le donne. Se di fatto questo abbandono fosse la conclusione che si trae da una azione politica sconclusionata ci si dovrebbe domandare: a che serve la sinistra? E ancor più in fondo: a che serve la democrazia?
Spesso mi sono chiesto, quando Alfredo prende la parola nei convegni, nei dibattiti pubblici, la ragione del rispetto che lo circonda, del silenzio che si apre alle sue parole. Lui parla a tutti senza alcuna enfasi, con pacatezza come in una conversazione privata, come a ciascuno personalmente. La sua forza, il midollo del suo discorso, sta nella passione cui si ispira, nello scopo cui tende. Propriamente, nella intenzione. Tendere, gettare la corda in alto verso un appiglio. E issarsi, traendosi, sempre un poco più in su. Questa è la fatica della politica. Salire.


«L'Espresso» del 29 giugno 2010

Come si può insegnare ai “nativi digitali” ossia ai ragazzi cresciuti all'ombra delle nuove tecnologie? Prova a rispondere un convegno a Torino

A scuola nel Cyberspazio
di Bruno Ventavoli
Il convegno «University and Cyberspace», che si svolge nell’Aula Magna del Politecnico di Torino (Corso Duca degli Abruzzi, 24), è organizzata dai due centri per Internet e la società, il Berkam di Harvard e il Nexa del Politecnico di Torino, diretto da Juan Carlos de Martin e Marco Ricolfi. I lavori saranno conclusi domani dal dibattito con Stephan Vincent-Lancrin (OECD), Francesco Profumo (Rettore del Politecnico di Torino), Mario Calabresi (direttore de «La Stampa»), Herbert Burkert (Università di San Gallo), Jafar Javan (UN Staff College), Charles Nesson (Berkman Center for Internet & Society), Chiara Basile (Politecnico di Torino), Sirin Tekinay (Ozyegin University, Istanbul). L’intero convegno si può seguire in diretta video e leggere con aggiornamenti in tempo reale su www.lastampa.it/cyberuniversita

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Studiano la poesia di Petrarca, intanto chattano, ascoltano un file musicale, rispondono al messaggino, guardano il filmato strano su Youtube. Leonardo da Vinci è passato alla storia per riuscire a fare un paio di cose contemporaneamente nell’era in cui c’era solo calamaio e pergamena, i nostri figli, con le nuove tecnologie ne fanno tre, cinque, dieci alla volta, con la stessa naturalezza con cui una volta noi piccoli calciavamo la palla. Sono la generazione dei «nativi digitali», croce e delizia del genitore che s’arrabatta come può nella limitazione del computer, perché non trova appigli nemmeno nell’indulgente Montessori. Ma il problema non è semplice questione di pedagogia domestica. Riguarda il futuro del mondo, dei comportamenti sociali, dei sistemi economici. I «nativi digitali» sono 2 miliardi - la data simbolica spartiacque è per quelli partoriti dopo il 1980 -, crescono, occupano ruoli importanti nella società, considerano gli strumenti della tecnologia come appendici del corpo e del pensiero, e cambiano il pianeta con i loro sogni e bisogni. Ma che rapporto c’è tra l’infinita potenzialità dell’Internet gratuito e l’insegnamento del sapere? Il problema, cruciale, è affrontato da un convegno internazionale, iniziato ieri a Torino, dal titolo stimolante «Università e cyberspazio», per capire che fare nelle accademie e non essere colti di sorpresa come accaduto all’industria musicale, ferita dalla pirateria, o ai giornali, che cercano di reagire all’emorragia di lettori cartacei.
I nativi digitali, lo dicono gli studiosi, hanno un cervello particolare. Imparano più facilmente a usare l’Iphone che a trovare il capezzolo della mamma per succhiarne il latte. Le loro connessioni neuronali sono diverse da chi è nato negli anni 60 e ha faticato a passare dai francobolli alla mail. Hanno trascorso almeno 20mila ore on line, più o meno come Mozart al pianoforte. Come trasformare quel loro sapere in genialità? Sono studenti, sono già, o saranno, professori. Così come hanno ciaccolato su Facebook della festa scolastica, potranno creare insieme, nel cyberspazio, un nuovo chip o una caffettiera informatizzata. L’università ne deve tenere conto, se non vuole condannarsi a stanco, inattuale, diplomificio, modificandosi nei metodi di insegnamento e persino nella sua struttura fisico-architettonica per intercettare i cambiamenti. John Palfrey, del Berkman Center for Internet e Society di Harvard, autore di studi su questa generazione, porta ad esempio lo studio di Oliver Wendell Holmes, celebre giurista americano. «Aveva una stanza tappezzata di libri, culla accogliente per la meditazione. Lì nascevano idee che hanno cambiato la società. Nell’era digitale è lecito pensare che le idee nascano in stanze vuote wi-fi, in computer che consentono l’accesso virtuale a tutte le biblioteche del mondo, persino nella radura di un bosco con un portatile. L’università come luogo chiuso, cittadella del sapere, con mura, campus, dormitori, dal medioevo ad oggi, cambierà, altrimenti rischia di dissolversi nella nuova società digitale».
Charles Nesson ha tenuto un corso ad Harvard su Second Life. Era un avatar e insegnava a studenti avatar nel mondo virtuale. Google maps si dimostra ottimo strumento didattico. Wikipedia, pur con le sue pecche, ha dimostrato che cosa può essere una comunità globale di persone che si uniscono per creare e condividere conoscenze. Le potenzialità sono immense, se applicate a nuovi modelli di studio e insegnamento. Con cautele, ovviamente, ma senza preclusioni. «I miei studenti portano il lap top in aula - dice Urs Gasser di Harvard - e dalla cattedra la prospettiva è completamente nuova. Prima mi guardavano negli occhi, ora sono chini sui piccoli schermi. E magari persi nel loro mondo, come quando a tavola il figlioletto china gli occhi per mandare sms invece di parlare o ascoltare la conversazione». Certo, la fidanzata che invia un bacio da messenger è un ottimo pretesto per distrarsi. Ma l’allievo neghittoso potevano distrarsi anche prima, con una rondine sul ramo fuori dalla finestra. E non tutti i lap top vengono per nuocere. «Gli studenti interagiscono meglio con il professore - dice Juan Carlos de Martin - alle mie lezioni collaborano, correggono, aggiungono informazioni in tempo reale, usando la rete».
Internet frantuma, quindi, anche le gerarchie del sapere. La prima cosa che un docente faceva con lo studente che chiedeva la tesi, era fornire la bibliografia. Ora i ragazzi portano contro-bibliografie pizzicate sulla rete. Talvolta sono abbagli, idee fuori tema. Spesso, invece, il dialogo diventa costruttivo. Sempre più simile a un sapere peer to peer. Non il prof «ex cathedra» che distilla gocce di erudizione. Ma un Socrate maieuta, che insegnava con il dialogo, passeggiando in agorà. Molto friendly. Anche se un pizzico di cicuta può nascondersi nell’infinita sovrabbondanza di informazioni. Aneddoto di Marco De Rossi, che giovanissimo ha creato un’università on line (www.oilproject.org) dove si è insegnanti e allievi contemporaneamente, e non c’è più bisogno di volare in California per ascoltare un luminare: «Un amico ha scritto un articolo su “Alice nel Paese delle meraviglie”. Impeccabile, documentato. Concludeva però “è il più bel romanzo della letteratura italiana”. La sciocchezza è evidente. Tuttavia meno rischiosa di ciò che si pensi. Perché l’errore viene immediatamente corretto nei blog, nei commenti. Il sapere on line non è più vulnerabile di quello cartaceo. Anzi, al contrario è sottoposto a una verifica più veloce e puntuale dalla comunità».
Un tempo, l’informazione era sacra, illuminava dall’alto. «L’ha detto la tv, i giornali», tagliavano la testa al toro della verità le nostre nonne. I nativi digitali questo non l’accettano più. Guardano pochissimo la tv, i giornali li sfogliano on line, e non accettano nulla per scontato. Ma - sorpresa - non rifiutano il vecchio libro. Nelle università americane avevano proposto di offrire testi solo digitali: hanno declinato, perché il libro si può portare in «beach, bath, bed». Commentano, discutono, smascherano menzogne e bufale. Non a caso i regimi dittatoriali, che amano le veline, limitano fortemente l’accesso alla rete. E l’immensa condivisione dell’informazione gratuita fa nascere nuova creatività, come la palla di neve che diventa valanga. Saperi marginali, ma importanti, che faticano a trovare spazio nelle facoltà assetate di fondi, amputate nelle cattedre, rinascono nel cyberspazio. Un docente con soli sette allievi, oltre alla malinconia, rischia di perdere il posto. Unito ad altri venti come lui sparsi nel mondo, può continuare a fare ricerca.
Le università sono nate come «Universitas Magistrorum et Scholarium». Un patto per disputare sugli universali o sulle leggi della natura. E soprattutto per elaborare un sapere critico che ha fatto evolvere il mondo. Internet è uno strumento grandioso, un cybercontinente da esplorare, colonizzare, regolamentare. Ma c’è uno spazio là dentro che va oltre il copyright, la sicurezza, le norme. Indipendente dalla politica e dal profitto. E che l’università può colmare per tornare alla forza culturale delle origini.
«La Stampa» del 29 giugno 2010

Dunga s'ispira a Machiavelli per far vincere il Brasile

di Massimo Donaddio
Non ce lo saremmo mai aspettato da un "Cucciolo" come lui. Sì, perché Carlos Caetano Bledorn Verri, l'allenatore della nazionale brasiliana noto a tutti con il nome di Dunga, prende il suo soprannome proprio da uno dei sette nani della famosa fiaba popolare resa celebre anche dai disegni di Walt Disney. Eppure i suoi riferimenti, non solo calcistici ma anche culturali in genere, sono altri, ben più di seri e impegnativi. Nientemeno che Niccolò Machiavelli - uno dei pensatori della storia d'Italia più importanti e conosciuti nel mondo - e il suo Principe, il libro che, per eccellenza, parla delle doti del comando, della conquista e del mantenimento del potere.
Un libro che continua a ispirare fior di capi, di manager, di generali, di uomini politici anche oggi, un po' come i testi sull'arte della guerra del cinese Sun Tsu e del generale prussiano Carl von Clausewitz. Ora, che Dunga non brilli per simpatia e per comunicativa, non è una gran novità. Che non sia amatissimo anche nel suo paese perché non ha ceduto al clamore popolare nelle convocazioni, è risaputo. Ma che abbia come punto di riferimento nel suo lavoro il Principe di Machiavelli è decisamente curioso.
Certo, i grandi allenatori ormai sono - o dovrebbero essere - dei maestri di lavoro in team, di motivazione, di gestione e coesione di gruppo. Josè Mourinho sarebbe probabilmente un fanatstico manager ovunque mentre Marcello Lippi ha passato almeno due anni (se non quattro) a raccontare nei consessi più diversi (aziende e università) come si governa un gruppo e come si raggiunge un risultato che conta con la giusta determinazione. Ma non era fin qui noto un classico della cultura come testo ispiratore per un allenatore.
E invece il Cucciolo si ispira direttamente al machiavellico Principe. Forse è per questo che se ne infischia del consenso, delle critiche, delle antipatie, e della filosofia del bel gioco. Non ci ha pensato due volte nel non convocare un idolo della torcida come Ronaldinho, campione dello "joga bonito" (che in Brasile è quasi una filosofia di vita). Perché questa ispirazione "italiana"? Facile. Dal 1988 al 1992 Dunga ha giocato nella Fiorentina, è vissuto a Firenze e si è appassionato al Rinascimento, all'arte, alla cultura, alla scienza, più in generale alla città dei Medici, di Leonardo, Michelangelo e Botticelli, di Dante e appunto di Machiavelli. «A Firenze ho imparato l'italiano, grazie al club ho visitato i migliori musei anche quando questi erano chiusi al pubblico, e ho scoperto Machiavelli», ha dichiarato recentemente il ct brasiliano, che del filosofo cita l'interrogativo di fondo: per il Principe, la sua virtù politica e cioè per il leader, il condottoriero, il capo, è meglio essere amato o temuto? Eterno dilemma di ogni tempo e di ogni uomo che abbia responsabilità. Machiavelli suggerisce che, dovendo scegliere tra le due opzioni, è meglio privilegiare la seconda. Il Principe è infatti colui che conserva o amplia il proprio potere con astuzia, sottigliezza e, quando serve, crudeltà. Inoltre deve essere un esperto nella selezione dei collaboratori e della sua squadra, come sanno bene Diego, Thiago Motta, Adriano e Pato, per fare qualche altro nome. Non avrà conseguito i gradi accademici alla Harvard University o alla Normale di Pisa, ma il Principe Dunga mostra di avere le idee molto chiare in testa. Vedremo se sarà più bravo e fortunato del toscano "autentico" Marcello Lippi.
«Il Sole 24 Ore» del 28 giugno 2010

Questo è un uomo nonostante il gulag

Esce Visera, terribile preludio ai Racconti della Kolyma. Lo scrittore forzato Varlam Salamov racconta la nascita dei lager sovietici. Saviano: "Editori vicini al partito comunista lo ritennero reazionario e favolistico"
di Giuseppe Ghini
C’è una letteratura che spesso si preferisce dimenticare, rimuovere. Šalamov, l’autore dei Racconti della Kolyma, appartiene a questa letteratura. Non per ragioni ideologiche, almeno non noi. Per ragioni ideologiche l’ha rifiutato l’Einaudi degli anni Settanta, l’ha rimosso l’intelligencija di sinistra, quella che si dimetteva pur di non presiedere la Biennale del dissenso del 1977, quella che ancor oggi si scandalizza del revisionismo relativo ai Lager nazisti e che ha sulla coscienza un peccato identico di negazionismo per quanto riguarda i Gulag sovietici.
No, non è (solo) per questo che viene rimosso e accantonato uno scrittore eccelso come Šalamov. Il fatto è che i suoi scritti ci ricordano implacabilmente di quali abissi di male è capace l’uomo, anzi gli uomini concreti. Di quali abissi di male siamo capaci noi. E questo proprio non siamo disposti ad ammetterlo, a ricordarlo.
Non solo. Šalamov ci ricorda anche qual è il prezzo che dobbiamo affrontare per rimanere uomini. E non nell’Unione Sovietica di Stalin, ma ora, qui, sempre. Per questo è uno scrittore scomodo; per questo, però, è uno scrittore eterno.
Višera, il cosiddetto antiromanzo che Claudia Zonghetti traduce per la prima volta in italiano per l’Adelphi (pagg. 234, euro 18), appartiene a questa letteratura scomoda, che ci incalza nella nostra umanità. Šalamov vi racconta del suo primo arresto e delle sue prime esperienze del GULag, ancora negli anni Venti, quando il sistema concentrazionario sovietico era giovane, quando ancora la parola zek (da zakljucennyj, il recluso dei campi sovietici) non esisteva ancora. «La perfezione che incontrai alla Kolyma non era il prodotto di una mente geniale e malvagia - venne a poco a poco. Per accumulo di esperienza», scrive infatti l’autore.
Anche se sono contemporanee ai Racconti della Kolyma, non c’è in queste pagine la stessa perfezione formale. Vi risuona tuttavia più chiara la voce dell’autore-recluso, dello stesso Šalamov. L’inizio, non a caso, racconta della sua iniziazione all’universo concentrazionario: «Mi arrestarono il 19 febbraio 1929. Un giorno, un’ora che considero l’inizio della mia vita sociale, il mio primo, vero e durissimo banco di prova. Dopo lo scontro con Merezkovskij quand’ero ancora ragazzo, dopo la passione per la storia del movimento di liberazione russo, dopo la fase vulcanica dell’università di Mosca nel 1927, in una Mosca vulcanica di suo, ero chiamato a mettere alla prova le mie autentiche qualità spirituali».
E queste qualità spirituali emergono fin da subito nel giovane Šalamov imprigionato nel carcere moscovita delle Butyrki, accusato di «propaganda e organizzazione sovversiva», e condannato a scontare tre anni di lavori forzati in uno dei primi lager sovietici, quello di Višera, nel Nord degli Urali. Sono qualità primarie, semplici come numeri primi, irriducibili. Qualità scoperte nella totale solitudine. «La regola più elementare - una comune regola etica, nella migliore delle tradizioni - era astenersi dal rendere una deposizione indipendentemente dalle circostanze». Si tratta del principio universale «non tradire» a cui il carcerato Šalamov impegna se stesso fin dalle prime ore e per tutta la vita. «Non tradire» a nessun costo ed essere onesti. «Per me l’onestà, la forma più elementare di onestà era il migliore dei pregi. Il difetto peggiore la viltà».
Onestà, integrità, significava essere fedeli alla propria coscienza. «In quel periodo avevo deciso fermamente - una volta per tutte! - che avrei agito solo secondo coscienza. Infischiandomene delle opinioni altrui. Bella o brutta, avrei vissuto la mia vita senza dar retta a nessuno, né ai “grandi uomini” né ai “piccoli”».
Sono questi valori di umanità che permettono e obbligano ad un tempo Šalamov a prendere le difese di un carcerato picchiato senza motivo («Se non mi fossi fatto avanto non avrei più avuto rispetto per me stesso»). Sono questi valori che gli consentono di resistere alla corruzione materiale e soprattutto morale del GULag.
Višera presenta infatti uno spaccato della storia del sistema concentrazionario sovietico, dove la riorganizzazione su base economica - la cosiddetta riforgiatura - portò ad una corruzione prima sconosciuta, al dominio dei delinquenti comuni, alla legge della jungla, alla prevaricazione di tutti contro tutti.
In questa situazione il merito di Šalamov è di resistere, di non cedere. È la grandezza, l’esemplarità che gli ha riconosciuto Roberto Saviano, autore di un significativo saggio introduttivo che segue l’intervento dello scorso anno nel programma televisivo di Fazio. Di fronte a un meccanismo di micidiale e scientifica spersonalizzazione, Šalamov dimostra che si può essere fedeli a se stessi, alla propria coscienza, che si può evitare di cadere nella disperazione. Ed è una verità che vale per lui, per il forzato dei GULag staliniani, ma vale anche per noi. Anche noi possiamo ripetere la nobile protesta di un personaggio di Šalamov, che, nudo, davanti al guardiano che gli chiede cos’altro abbia da dargli, gli urla in faccia: «No, l’anima non ve la do!».
«Il Giornale» del 29 giugno 2010

Noi, post-moderni, saggi o disincantati?

di Jean-Claude Guillebaud
Non passa settimana senza che una rivista, un saggista, una trasmissione televisiva non ci inviti a ritrovare l’antica «saggezza» greca, l’edonismo pacifico e lo stoicismo. Questo revival di interesse risale all’inizio degli anni Ottanta. All’epoca si riscoprivano Seneca, Cicerone, Plutarco, Aristotele, Epitteto, Lucrezio e qualche altro, che diversi editori iniziarono a pubblicare in nuove traduzioni. Al contempo filosofi come André Comte-Sponville o Luc Ferry incontravano il favore del pubblico riformulando, a loro modo, le lezioni dello stoicismo o dell’epicureismo.
Attualmente questa curiosità ha guadagnato il grande pubblico. Un fatto che rappresenta qualcosa di molto rispettabile, ciononostante si presenta come sintomo di qualcos’altro ancora.
Il nuovo appetito per la saggezza e la filosofia greco-romana non è privo di rapporti con quella che viene chiamata la fine delle ideologie. Il disorientamento contemporaneo, il fallimento dei «grandi racconti» politici legati alla crisi della modernità, ovvero della postmodernità, invitano ad un ritorno alle radici del pensiero. Le grandi epoche di trasformazioni – che si tratti del Rinascimento, dei Lumi o della Rivoluzione francese – si sono sempre accompagnate ad un simile ritorno alle fonti.
Rileggendo Seneca i nostri contemporanei cercano di reimparare a vivere.
Questa nuova cura di sé si accorda perfettamente con l’individualismo. In altre termini, vi è una rilettura quasi californiana o new age dei filosofi greci e romani. Ma essa nasconde un malinteso. Nel suo rapporto con il tempo, il pensiero greco partecipa in effetti ad un principio di «acconsentimento». Esso invita alla «saggezza», ovvero all’accettazione di quello che è. Un’espressione ne dà ben conto: l’amor fati, questo amore nietzschiano del destino. Ora, il messianismo ebraico, espresso dai profeti nel V secolo prima di Cristo, rompeva espressamente appunto con questa rappresentazione circolare del tempo, un messianismo che fu all’origine della speranza cristiana e del concetto molto laico di «progresso». Nella cultura occidentale, questa grande sovversione del tempo «diritto» (e non più circolare) aveva finito per imporsi. Invece che invitare alla salvezza, essa nutriva un’interpretazione volontaristica della Storia. Non vi è «destino» per Israele, si legge nel Talmud.
Ovvero, non c’è fatalità. È quello che Max Weber riprendeva a sua volta quando definiva la politica come «il gusto del futuro», ovvero una volontà di costruire l’avvenire piuttosto che subirlo.
Oggi bisogna domandarsi se questo fascino per la saggezza (passiva) e questo abbandono al destino non tradiscano lo scavo di un vuoto di un – formidabile – disincanto collettivo.

Il fatalismo contrasta con la visione biblica del progresso In questa «cura di sé» c’è troppo individualismo
«Avvenire» del 29 giugno 2010

Saggezza pagana? Meglio la Bibbia

Guilllebaud: spopolano epicureismo e stoicismo. È solo una moda, rilanciata da filosofi come Ferry e Comte-Sponville, o è utile al pensiero? Intervengono Reale, Natoli e Canobbio
di Lorenzo Fazzini
«Seneca è il filosofo antico più venduto dopo Platone. Perché parla all’uomo d’oggi come all’umanità di sempre. Le Lettere al figlio sono il suo bestseller». Sarà un caso ma la traccia sulla «ricerca della felicità» ha dilagato nelle scelte degli aspiranti maturandi al recente esame di Stato.
Dunque, la società di oggi è alla ricerca spasmodica di un disincanto ripiegato sul sé? E dunque non siamo più interessati a costruire un futuro comune perché dediti unicamente alla cura di sé?
Giovanni Reale, docente di filosofia all’Università Vita e Salute del San Raffaele, esordisce così su uno dei filosofi citati dal saggista transalpino: «Seneca ha scritto cose vere e il suo pensiero è attuale ancorchè notevole. Guillebaud propone delle osservazioni giuste ma, a mio giudizio, sbaglia bersaglio». Perché? «Se è vero che Seneca e gli altri filosofi (stoici e neostoici) da lui citati si contrappongono alla Bibbia e alla sua visione della storia, Guillebaud sbaglia nel ritenere che con l’interesse del pubblico verso questi pensatori stia tornando l’amor fati », cioè una sorta di nuovo fatalismo. «Il loro messaggio è straordinario. Oggi ci troviamo davanti al vuoto della stessa filosofia, dedita soprattutto a questioni linguistiche. Addirittura Habermas sostiene che la filosofia non può intervenire sull’etica. Ma al pubblico non interessa nulla della filosofia analitici bensì vuole contenuti. E per questo si rivolge agli autori citati da Guillebaud.
Gli psicoanalisti scoppiano per la presenza di pazienti giovani, invischiati nel caos della famiglia e nel degrado della società. Seneca insegna molte cose ai giovani d’oggi, ad esempio a non restare feriti da quanto succede nella vita.
Con i loro libri questi filosofi fanno quanto provano a fare gli psicologi di oggi: curare le anime».

Per Salvatore Natoli, docente di filosofia morale all’Università Bicocca di Milano, nel radiografare il fenomeno Guillebaud ha ragione: «Da vent’anni a questa parte – basti pensare a Foucault – è riemersa l’attenzione a questi autori, soprattutto nella dimensione di un esercizio spirituale dopo la crisi dei grandi ideali rivoluzionari: vedi la redenzione sociale. A questo si è unito un fenomeno di maggior interesse alla soggettività, sebbene già nei 'racconti collettivi' – si pensi a Marcuse – c’era la sottolineatura della liberazione del soggetto e del suo desiderio insieme a quello della collettività. Per questo sono riemerse le grandi scuole antiche che davano molta importanza al governo di sé». Natoli, però, a differenza di Guillebaud non giudica negativamente questo ritorno di stoici ed epicurei: «È positivo perché indica la capacità di dare il meglio di sé nel presente senza aspettare una futuristica utopia. Il mondo tardo-antico (ma anche quello ebraico) insegnava che la giustizia o l’amore dovevano avere come orizzonte l’altro, non l’umanità. Anche in ambito cristiano è in corso una rivalutazione dell’escatologia, considerata come un presente nell’eternità di Dio. Nella mia ricerca filosofica cerco di recuperare molto questo elemento del 'qui e ora': la caritas cristiana riguarda il presente, non il domani». Per il filosofo siciliano «già il fenomeno dei festival indica come al pensiero oggi non si dia più una missione rivoluzionaria bensì quella di sanare l’anima».
«Se i nostri contemporanei cercano di reimparare a vivere guardando agli autori del passato, significa che oggi non trovano maestri. Questo ritorno dovrebbe stimolarci per una nuova alleanza tra persone che vogliono insegnare a vivere».
Don Giacomo Canobbio, docente di teologia alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, coglie l’annotazione di Guillebaud come un richiamo al panorama intellettuale odierno. E però non concorda con il saggista francese nel giudizio di merito: «Questa attenzione al passato non è amor fati, ma un riattingere nel profondo di fronte ad una civiltà deludente». Insomma, non siamo di fronte ad un disincanto collettivo che si connota come lontano dal cristianesimo … «Anzi. I primi pensatori cristiani costruirono un aggancio con l’insegnamento degli stoici, senza negare la prospettiva messianica. Se la gente di oggi legge di più i classici del I secolo è come se ci dicesse: Non ci basta quanto ci state dando, vogliamo qualcosa di più profondo».

Nel mondo di oggi tante persone scelgono i classici perché non trovano risposte adeguate alle loro domande


«Avvenire» del 29 giugno 2010

Ratzinger: critica all’esegesi critica

Benedetto XVI ha «inventato» un’interpretazione che integra il metodo storico-scientifico con criteri ecclesiali; parla don dal Covolo
di Gianni Cardinale
Una sollecitudine caratteristica del magistero di Benedetto XVI è quella di cercare un approccio alla Bibbia che ricomponga la «devastante divaricazione tra esegesi e teologia», attraverso il metodo dell’esegesi «canonica» e di quella «teologica». Per illustrare anche ai semplici fedeli questa dimensione del magistero ratzingeriano è arrivato in libreria un agile volumetto del salesiano don Enrico dal Covolo, ordinario di Letteratura cristiana antica e consultore della Congregazione per la Dottrina della fede. L’opera del religioso, che quest’anno è stato chiamato dal Pontefice a predicare gli esercizi spirituali della Quaresima alla Curia romana, si intitola Il Vangelo e i Padri. Per un’esegesi teologica (Rogate, pp. 190, euro 16). «Con il suo 'Gesù di Nazaret' – spiega dal Covolo – Joseph Ratzinger-Benedetto XVI aveva segnato una tappa decisiva in questo urgente itinerario di 'unità tra esegesi e teologia'. La proposta originale del libro del Papa, in effetti, consisteva nell’integrare il metodo storico-critico – benemerito, indispensabile, ma in se stesso insufficiente – con alcuni criteri nuovi, maturati soprattutto negli ultimi due decenni in vari ambienti cattolici della ricerca teologico-biblica».

Quali sono questi «criteri nuovi» individuati dal Papa?
«Innanzitutto una fiducia sostanziale nell’attendibilità storica del dato neotestamentario, contro il sospetto metodico.
Quindi una robusta rivendicazione dell’unità e della continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Poi un’ermeneutica più 'ecclesiale', docile alla tradizione viva della Chiesa e al magistero dei suoi Padri, considerati come i primi interpreti della Scrittura. Infine una più viva attenzione alla cosiddetta analogia fidei, cioè alle consonanze interne e alle corrispondenze reciproche dei vari dati della fede. Insomma, nessun brano delle Scritture può essere interpretato correttamente quando si prescinde dal suo contesto vitale, che è stabilito dalla fede della Chiesa, la fede in Gesù Cristo, unico Salvatore del mondo. Questo 'metodo nuovo' – che il Papa stesso definiva 'esegesi canonica' – gli ha consentito, in ultima analisi, di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il 'Gesù storico'. Così non c’è più alcuna divaricazione tra Gesù di Nazaret e il Cristo della fede: c’è un solo, realissimo Gesù Cristo, che è il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza».

Nel suo volume lei spiega come Benedetto XVI ha approfondito questo itinerario di «unità tra esegesi e teologia» con il suo intervento alla Congregazione generale del 14 ottobre 2008, durante il Sinodo dei vescovi dedicato alla Parola di Dio. In che senso?
«A ben guardare, quell’intervento introduce un importante elemento di novità, rispetto al Gesù di Nazaret. In esso il Papa assume i 'criteri nuovi' dell’'esegesi canonica' per fondare e raccomandare una vera e propria 'esegesi teologica'. In quel contesto Benedetto XVI ci ha ricordato che solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di un’esegesi teologica, cioè di un’esegesi adeguata alla Sacra Scrittura. Ma, ha aggiunto, 'mentre al primo livello l’attuale esegesi accademica lavora a un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello… E questo ha conseguenze piuttosto gravi'».

Quali sono le conseguenze di questo «differenziale» esegetico?
«Quella più grave è senza dubbio la divaricazione tra la cosiddetta 'esegesi scientifica', o 'accademica' – spesso unilateralmente devota al metodo storico-critico –, e la lectio divina, basata sulla 'esegesi spirituale', o 'allegorica', dei Padri. A sua volta, questa divaricazione trova le sue profonde radici nell’ormai millenaria, reciproca indifferenza tra la cosiddetta 'teologia razionale', fondata sull’esigenza di chi pretende di capire tutto con le proprie forze, e la 'teologia monastica', la 'teologia in ginocchio', per la quale la vera conoscenza di Dio passa attraverso l’esperienza contemplativa del suo amore».

Quale il rimedio?
«È l’approccio rinnovato alle Scritture che il Papa Benedetto ci raccomanda, e che rende urgente un certo tipo di ritorno ai Padri nell’esegesi biblica. Certo, non un ritorno acritico e antistorico, che possa compromettere i cospicui guadagni raggiunti dalla scienza biblica, grazie anche – da ultimo – all’impiego del metodo storico­critico. Si tratta – come il Papa stesso suggerisce – di un ritorno capace di assumere anche 'metodi nuovi, attentamente ponderati', quale soprattutto una lectio divina che sia 'al passo con i tempi'. È questa la sfida che ho voluto affrontare nel libro che presento».
«Avvenire» del 29 giugno 2010

Il rapporto tra allievi e maestri in crisi senza buoni progetti

I ragazzi cercano idee e libertà. Ma la relazione cambia
di Francesco Alberoni
Cos’è un maestro? Un persona che ti insegna qualcosa, come leggere, scrivere o fare uno sport? No è qualcosa di più, è uno che ti guida nel mondo, che ti fa crescere, che ti aiuta a diventare ciò che puoi diventare. Ma senza opprimerti, facendo fiorire le tue potenzialità. E lo fa con un rapporto personale, dove entrambi entrate con la vostra umanità.
Concepito in questo modo il rapporto maestro-allievo oggi si è molto indebolito tanto fra genitori e figli come all’interno della scuola. La relazione fra la generazione giovane e ilmondo adulto viene sempre più affidata alle immagini, come i cartoni animati, i film tv, le playstation e, in seguito, ad attività fisiche come palestra, nuoto, sci, tennis, equitazione, basket, pallavolo, danza, canto, musica. È un continuo correre da una parte all’altra, una indigestione di stimoli. I ragazzi reagiscono creando una propria comunità in cui comunicano usando brevi frasi, brani musicali, immagini, ma cercano anche un modello, una guida. Un tempo imaestri erano i sacerdoti, i politici, i poeti, i filosofi, gli scrittori. Oggi sono soprattutto i cantanti. Con la sintesi di musica-immagini-parole, indicano loro i sentieri emotivi, gli stimoli vitali.
Noi spesso dimentichiamo che tutti gli esseri umani hanno bisogno di dare un senso alla loro vita. È questo che cercano i giovani in tutti coloro che incontrano, un amico, un amore, un cantante. Ma vogliono trovarlo nella libertà, non nell’imposizione. Vogliono scoprirlo come hanno sempre fatto, come faranno sempre, con spirito critico, rivolti al nuovo, al futuro, al creare. E vanno alla ricerca di chi capisce questa loro esigenza, e sa dare una risposta.
Nel corso della mia vita ho visto che quando ho chiamato attorno a me dei giovani con un gruppo di insegnanti bravi, motivati, con un progetto interessante, ambizioso, tutti si sono messi a lavorare con entusiasmo. Ma bisogna che essi sentano che voi ci credete, che vi impegnate e che volete lavorare insieme, che volete inventare insieme e realizzare un’opera comune, un’opera collettiva. E che siete esigenti con voi stessi prima che con loro, perché tutto deve essere perfetto. Devono sentire che voi sapete dove andare, ma che loro sono liberi di scegliere ogni volta di seguirvi, e voi li ascoltate, prendete sul serio quello che dicono. Solo allora diventate un maestro: quando tracciate tutti insieme la strada da percorrere.
«Corriere della Sera» del 28 giugno 2010

Carcere preventivo: il limite cancellato

I tempi di custodia cautelare
di Pierluigi Battista
Un persona è costituzionalmente innocente fino a verdetto definitivo: sempre che valgano ancora le regole dello Stato di diritto
Se sono colpevoli o innocenti, lo si appurerà nel processo. Quando, se condannati, meriteranno il carcere. Appunto: se condannati. Mentre la prolungata custodia cautelare è sempre carcere (anche se domiciliare), ma senza condanna stabilita da un verdetto giudiziario. Una condanna preventiva. Una sanzione anticipata. Come se i tempi (mostruosamente dilatati) della giustizia non tenessero conto dei tempi della persona. Costituzionalmente innocente fino a verdetto definitivo: sempre che valgano ancora le regole dello Stato di diritto.
Princìpi elementari, quasi ovvii nel catechismo garantista che pure è la base dello Stato di diritto in cui abbiamo l’impressione di vivere. Ma che l’opinione pubblica, esacerbata dal moltiplicarsi di corruzione e di crimini contro il bene pubblico, tende a dimenticare. Anche nel caso degli indagati per il giro di false fatturazioni e di riciclaggio. La Cassazione ha stabilito che Bruno Zito, coinvolto nel «caso Fastweb», debba restare nella galera (preventiva) in cui è rinchiuso dal 23 febbraio: più di quattro mesi fa, oramai. Confermati anche gli arresti domiciliari di Silvio Scaglia. Il Corriere, alla vigilia del pronunciamento della Cassazione, ha pubblicato una lettera molto dignitosa del padre di Zito, dove non si entrava nel merito delle accuse, ma ci si chiedeva se davvero sussistessero le condizioni per cui il figlio dovesse essere trattenuto (preventivamente) in carcere. Anche i giornalisti non devono entrare nel merito delle accuse. Anzi, dovrebbero, perché molti giornalisti sembrano ispirati dalla missione di giudicare al posto dei giudici, sostituendosi a essi in modo arbitrario e prepotente. Ma chiedersi fino a quando può durare un regime di carcerazione preventiva non è una domanda legittima. Anche chiedersi se non c’è un abuso della custodia cautelare. O se, addirittura, in molti casi in Italia non si abusi deliberatamente del carcere preventivo per «ammorbidire» gli indagati, spronarli alla collaborazione: che poi è un modo gentile ed edulcorato per alludere alla confessione.
Ai tempi di Mani Pulite (sono fatti noti, oramai da raccontare come fossero storia) capitava che, alla scadenza dei termini di custodia cautelare, un’altra accusa si abbatteva sulla testa dell’indagato, e si ricominciava da capo, azzerando il cronometro. Di questi tempi, invece, il Tribunale del riesame di Firenze, motivando il rigetto di scarcerazione per Balducci e altri esponenti in vista della «cricca», ha deplorato addirittura «uno stile di vita antigiuridico degli indagati » nonché, testuale, «l'atteggiamento di totale chiusura all’ipotesi accusatoria». Se non si capisce male, la non aderenza degli indagati agli argomenti dell’«ipotesi accusatoria» costituirebbe un’aggravante, passibile di ulteriore sanzione carceraria (preventiva) che non si sarebbe manifestata se invece gli stessi indagati si fossero conformati alle ipotesi formulate dagli accusatori. Un’innovazione, che è anche un’indicazione per chi, in futuro, dovesse regolare opportunamente linee difensive e comportamenti («stili di vita») efficaci ai fini della scarcerazione.
Il merito delle accuse, dunque, non c’entra. C’entrano i criteri, i tempi, le modalità con cui la custodia cautelare può subire una distorsione irreparabile. Come fosse un surrogato per una pena la cui certezza, dopo e non prima la sentenza, appare sempre più aleatoria. Ma mettere il «prima» al posto del «dopo» è prassi ingiusta, anche se capace di appagare, in modi obliqui, la richiesta di giustizia dell’opinione pubblica.
«Corriere della Sera» del 29 giugno 2010

Le libertà sono scomode

Divieti e nuovi conformismi
di Piero Ostellino
Maggioranza e opposizione rischiano di perdere di vista i fondamentali della democrazia. A 65 anni dalla fine del fascismo, una parte cospicua di italiani, preoccupata dalla dilagante corruzione, scende in piazza al grido «intercettateci tutti», evocando i metodi dello Stato di polizia, dall’Ovra fascista alla Stasi comunista. L’invocazione ha poco a che vedere con la legittima opposizione alla proposta di legge del governo sulle intercettazioni in discussione in Parlamento. Essa rivela, piuttosto, la convinzione che la corruzione sia connaturata alla «nostra democrazia » e che il solo modo di combatterla stia nel sacrificare la democrazia stessa, incarnata, qui, nell’articolo 15 della Costituzione: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili ». Il centrosinistra, che sostiene tale comportamento intimamente pericoloso, invece di incoraggiarlo, farebbe bene a rifletterci.
La nostra Costituzione — a differenza di altre — non prevede la temporanea sospensione di certe garanzie. Così, il governo le ha sospese «di fatto» (ad esempio l’inversione dell’onere della prova a carico dell’accusato in materia fiscale). Se il governo dicesse perché le ha sospese, non accampando un generico «interesse pubblico», il cittadino saprebbe, almeno, quali sono queste garanzie. Il centrodestra, che non ne parla per convenienza, farebbe bene a rifletterci.
Ma anche l’Ue non è da meno delle nostre forze politiche. L’Europa brucia, ma il Parlamento europeo — et dum Europa deficit, Ue de Nutella loquitur — cerca di imporci «modelli nutrizionali » che, anche ammesso siano scientificamente corretti, fanno violenza alla nostra responsabile libertà di scelta come individui, prima ancora che come consumatori. L’Unione europea farebbe bene a porsi qualche domanda. Quanto l’omologazione di abitudini gastronomiche autoctone, estranee a quelle di Paesi culturalmente distanti, non finisca col rappresentare una negazione delle identità dei singoli Paesi membri. Se tale omologazione — che danneggia l’industria alimentare di alcuni a beneficio di altri — non rifletta interessi industriali altrui, cioè la presenza di lobby bene organizzate e potenti quanto occulte.
Per tutta la sua vita, Norberto Bobbio si è posto la domanda «quale democrazia? », mettendo in discussione convinzioni consolidate, ma pur sempre aperte al dubbio. Oggi, scomparso il vecchio maestro liberale, a porla sono rimasti solo pochi suoi allievi, guardati con sufficienza, a destra non meno che a sinistra, da un pragmatismo rozzo e incolto che liquida volentieri il liberalismo come una dottrina ottocentesca superata dai «tempi nuovi» e la democrazia come un impedimento a governare. Non ne parlano i politici semplicemente perché, in quanto non liberali, non ne sono interessati. Non ne parlano neppure i media perché, in quanto «politicamente corretti », riflettono in modo conformistico l’ondata anti politica popolare, che sconfina nella negazione delle libertà individuali e dei diritti democratici. Nasce e si diffonde, nel giornalismo, l’idea di libertà di Trilussa: «Passa un porco e je dico ciao maiale / passa un asino e je dico ciao somaro / Forse ste bestie nun me capiranno / ma armeno c’ho la soddisfazione / de dì le cose come stanno / senza paura d’annà a finì in prigione».
«Corriere della Sera» del 29 giugno 2010

28 giugno 2010

Rompicapo per la sinistra

di Francesco Piccolo
Alcune occupazioni del Partito Democratico intanto che in Italia succede tutto quello che succede: cercare casa, cioè trovare una nuova sede per il partito che sia in sintonia con la propria identità, quindi una sede piuttosto labirintica (e non abbiamo ancora capito se cercano una casa più grande o, tristemente, più piccola); discutere molto seriamente se il simbolo che c’è ora sia o non sia quello giusto, e se per caso non sia quello a portare sfortuna; discettare se si può ancora pronunciare la parola “compagno” oppure bisogna dimenticarla per sempre perché irrispettosa verso i giovani (però di positivo c’è che in questo modo si è scoperto che nel Pd ci sono i giovani); fare tanto lavoro diplomatico per trovare delle poltrone da presidente per Massimo D’Alema, che siano prestigiose ma non troppo influenti, e possibilmente in Europa; tradurre la sintassi romagnola di Bersani; non pronunciare parole come “socialismo” o “credenti” che offendano una parte del partito che non coincide con l’altra (cercare in ogni caso di usare un linguaggio neutro e astratto, così si sta più tranquilli); cercare di decifrare il significato profondo del referendum di Pomigliano, e trovare l’errore; organizzare le feste estive che siano in tutto e per tutto delle feste dell’Unità che però non lo sembrino perché anche le feste dell’Unità fanno parte del passato; convincere tutto il mondo che il dualismo Veltroni-D’Alema ormai non esiste più; convincere tutto il mondo che il Partito Democratico esiste ancora.
«L'Unità» del 28 giugno 2010

Se il leader è il primo a perdere la testa

di Gianni Riotta
«Usare la testa mentre tutti intorno a te la perdono, e te ne danno colpa...» era per lo scrittore Rudyard Kipling essenza del l'umanità, restare lucidi nel caos. Un leader trova la strada che sfugge, non percorre i sentieri battuti, sorprende con un approccio magico. Colombo fa vela a Ovest, il logico Gödel rivela le contraddizioni della matematica, Roosevelt e Keynes mettono al lavoro una generazione di senzalavoro. E il mondo cambia.
Oggi siamo stretti tra dilemmi che gli «esperti», che hanno conoscenza dei problemi, senza sapienza per risolverli, espongono con puntualità: ma che solo un leader saprebbe tagliare, come Alessandro a Gordio.
Al G-20 il dilemma è «rigore o sviluppo?». L'Europa, guidata dalla cancelliera tedesca Merkel con il presidente francese Sarkozy malmostoso, è «rigorista», gli Usa del presidente Obama «sviluppisti». Così scrivono i giornali, ma è davvero così? Fino a un certo punto, perché il dilemma divide anche la Casa Bianca, dove il direttore del Bilancio Orszag s'è dimesso, deluso dalla troppa incertezza davanti al bivio. Orszag era rigorista, alla Merkel, e non apprezzava la preoccupazione di Obama per i posti di lavoro, in un anno elettorale. Il ministro del Tesoro Geithner stava dalla sua parte, mentre il direttore del Consiglio Economico Summers era per insistere con iniezioni ricostituenti per l'economia, sia pure ridotte dopo le recenti cure da cavallo.
A chi gli parla adesso Orszag dice «Rigore contro crescita è falso dilemma: la vera lite è sui tempi». Sui tempi rigoristi e sviluppisti giocheranno il loro match al G-20. La pensa come Orszag l'economista italiano Giavazzi che, al Foglio di Ferrara, dichiara «La quadratura del cerchio tra queste due esigenze, entrambe serie, è possibile, serve un'azione sul fronte della politica fiscale, per ridurre in modo strutturale i costi dell'invecchiamento (pensioni, sanità ecc) che sono dieci volte più consistenti dei costi dovuti alla crisi».
Le due tensioni sono entrambe cruciali, Rigore per non diventare tutti greci, Sviluppo per non finire tutti in uno stallo giapponese. Chi dovrebbe alternare con perizia potature e innesti? Un leader: al G-20 ne vedete?
Anche in Afghanistan il dilemma è ormai identificato alla perfezione: rileggete sul Sole di ieri gli interventi di due personaggi opposti, l'ex Segretario di Stato Usa Kissinger e il giornalista che più sa di guerra a Kabul, Rashid. Kissinger, per anni artefice della diplomazia Usa e Rashid, critico severo di Washington nel suo formidabile saggio "Talebani" (Feltrinelli) ammoniscono all'unisono: la guerra non si può vincere, ritirarsi sarebbe la sconfitta e la restituzione del paese al terrorismo. Un pericolo per gli Usa, ma anche per Russia, Cina e India con le loro cospicue minoranze musulmane, preda ambita dei fondamentalisti. Allora si può almeno pareggiare, vale a dire neutralizzare l'Afghanistan e, poco a poco, pacificare le vie di comunicazione, permettere l'accesso agli aiuti, limitare le più feroci violenze talebane.
Servirebbe un leader capace di aprire la porta che non si vede: come fecero Nixon e Kissinger aprendo a Pechino nel 1972. Obama ha cambiato due generali in capo a Kabul in un anno, l'ultimo, il duro e colto McChrystal per avere detto parolacce a una rivista rockettara. Tocca ora al generale Petraeus, autore del Manuale di Controguerriglia dell'esercito Usa (difficile ma bellissimo, lo trovate su Amazon.com), cavarsela. Non ci riuscirà senza un presidente che non perda la testa mentre il suo paese, e gli alleati, la perdono.
In un saggio sulla rivista «The National Interest», lo storico Paul Kennedy rievoca i dilemmi del passato che han perduto leader in apparenza solidi. E parla di «appeasement», la ricerca di compromesso che le democrazie fecero davanti a Hitler, con esiti disastrosi da cui solo la caparbietà di Churchill e la saggia forza di Roosevelt, ci salvarono. Oggi, argomenta, Kennedy, «appeasement, Monaco e compromesso», sono sinonimi di tradimento perché con Hitler nessun compromesso era possibile, politico, militare o morale. Ma spesso ridursi al pro o contro, bianco o nero manicheo, ostacola la soluzione dei problemi. Negoziare, accettare accordi, conquistare un passo dopo l'altro sono alternative migliori dello scacco. Serve però un leader e non se ne vedono.
Ipnotizzati davanti al bivio: è immagine che dal mondo ci porta a casa nostra, in Italia. Non pensate solo alla prova di arroganza del coach Lippi, che proclamava «non convocherò oriundi», intendendo italiani naturalizzati, e solo questo giornale volle obiettargli che la Costituzione italiana non discrimina tra cittadini. Il dilemma era: confermare veterani frusti o scommettere su ragazzi vivaci? Lippi è rimasto abbagliato dalla scelta, mascherando di esperienza la sua paralisi. Il risultato è la peggiore Italia di sempre nel calcio.
In politica, purtroppo, il nostro passato ha record così orribili che lo sconfortante presente non è certo il peggio. Il dilemma rigore-sviluppo ha da noi caratteristiche peculiari, risparmio privato, imprese vive, banche non cicale, solidarietà familiare, le positive; debito, criminalità organizzata, sfascio della pubblica amministrazione e divario crudo Nord-Sud, le negative. Occorrerebbe anche da noi un leader capace di dare orgoglio alla nazione per le sue virtù, rampognandola per i vizi, con un progetto unitario di rigore e sviluppo. Non chiedetelo ai tecnici, ci vuole un politico che li ascolti tutti, poi decida da solo.
Invece siam perduti dietro l'Armata Brancherleone, mentre l'opposizione dibatte sul «futuro del socialismo» (prego?). Dietro le quinte Letta, Tremonti, Fini e il presidente Napolitano, a volte d'accordo altre no, provano a surrogare una regia. È però l'assenza del premier Silvio Berlusconi, per tre volte eletto dagli italiani, la sua apparente indifferenza davanti alle urgenze, la forma italiana della scomparsa dei leader, così ubiqua nel 2010. È questo il dilemma italiano, e tocca a noi risolverlo.
«Il Sole 24 Ore» del 27 giugno 2010

"Il terrore? Scoprire che il mostro è la mamma"

In La prigione di neve, la scrittrice americana Jan Elizabeth Watson racconta la tremenda vicenda di due bambini rinchiusi per anni
di Stefania Vitulli
Cattiva madre, ultimo tabù. Cattiva madre deve rimanere un ossimoro: né la nostra ragione né il nostro cuore possono accettare che una madre non ami i propri figli o che, come narrano troppo spesso i titoli quotidiani, compia su di essi vero male, fino a ucciderli. Eppure accade. L’orrore può colpire i piccoli proprio attraverso la figura da cui attendono soltanto calore: «Le cinsi la vita con le braccia e le sprofondai la testa fra le costole, ma lei mi staccò con dolcezza. Avevo paura che arrivasse il giorno in cui Mamma non ci avrebbe chiuso dentro come si deve. Ma per oggi non dovevamo temere: eravamo al sicuro, fra le mura che ci proteggevano dall’imperscrutabile mondo di fuori». Così la piccola Asta di sette anni pensa della sua mamma Loretta, che da quando lei ne ha ricordo la tiene segregata in casa insieme al fratello Orion, che di anni ne ha nove e qualcosa ricorda del mondo di fuori: «sabbia sotto i piedi, un aeroplano in alto e, almeno a sentir lui, qualcuno che lo rincorreva sul molo». Poi un giorno papà sparisce: i bambini non potranno più uscire, prigionieri del disagio mentale di Loretta. La prigione di neve (Fazi, pagg. 334, euro 18,50) è un romanzo d’esordio che stordisce: veniamo calati in una maternità traumatizzante, in cui alla fine i bambini scopriranno da soli il mondo reale. Il libro è firmato dall’americana Jan Elizabeth Watson, editor e docente di scrittura creativa.

Mamma qui è l’onnipotente affabulatrice che rinchiude i suoi figli fino a isolarli. La Watson conferma di aver studiato a lungo per costruire questo carattere, che tanto ricorda alcuni casi di cronaca contemporanei: «Mi sono specializzata in psicologia e sono madre, anche se mia figlia è nata dopo il romanzo. Ma il mio sguardo sulla maternità viene dall’essere cresciuta con una madre che aveva di me estrema cura, alla quale sono rimasta molto vicina».

Qual è il rischio peggiore nella relazione madre-figlio?
«Trascurare i figli. È quanto di più terribile eppure oggi è quel che accade più spesso. In America, le condizioni economiche sono tali che molte madri devono lavorare a tempo pieno per sostenere la famiglia e non hanno margini per stare con i figli. Il che ha ormai compromesso influenza e presenza delle madri. Vedo così tante donne sfinite e irritabili, la cui pazienza per i figli è stata del tutto esaurita dai ritmi professionali».

Loretta crede, nel suo delirio, di «proteggere» i figli dal mondo segregandoli. Pensa che questo sia un desiderio inconscio comune a molte madri?
«Senza dubbio. La mia stessa madre si sarebbe potuta definire “iperprotettiva”. Non ho nemmeno imparato ad andare in bicicletta, perché temeva potessi farmi male. Molti genitori si comportano così con i figli, è un istinto naturale che in Loretta ho portato a conseguenze patologiche e insane».

Pensa che ora la maternità sia un valore a rischio?
«Il punto di vista della società sulla maternità è in costante mutamento. Ma osservo personalmente un numero sempre maggiore di donne che decidono scientemente di non avere figli. Temono di non avere abbastanza amore da dare».

Qual è il ruolo della società in questo?
«La pressione. Le donne sono messe sotto pressione perché sentano di “potercela fare” a dare carriera e figli la stessa attenzione. Alcune partoriscono per soddisfare l’imperativo biologico che prevede un figlio come pezzo mancante del puzzle che le rende “persone complete”. Come se un figlio fosse uno dei tanti accessori dello stile di vita che hanno creato per se stesse invece che, eventualmente, il fulcro primario di un’esistenza».

In questo senso Loretta è un personaggio "contemporaneo"?
«Non so se queste minacce siano peculiari di un’epoca. Ma certo nelle donne la lotta interiore tra maternità e autonomia sta raggiungendo il livello di guardia. Oggi vogliono essere indipendenti, slegate da ogni fardello. E la maternità e il senso di responsabilità che comporta sono legami travolgenti, in cui sentono di perdere se stesse. Per Loretta essere madre è semplicemente troppo».

Madri travolte dalla maternità: è per questo che arrivano a commettere crimini contro i propri figli?
«Le madri che si sentono intrappolate, hanno “a disposizione” i figli. E ne abusano. I bambini sono la parte più vulnerabile della società, il bersaglio più facile per sfogare frustrazioni, rabbia e persino comportamenti criminali. E credono alle loro mamme, senza rendersi conto di venire maltrattati. La prigione di neve è proprio la storia di due bambini che adorano la loro madre e continuano a crederle anche quando si accorgono che ha tradito la loro purezza e la loro fede».

Eppure finito il romanzo non riusciamo a odiare Loretta.
«Non volevo creare un personaggio-capro espiatorio, da vilipendere e additare come cattivo esempio. Loretta non è una buona madre, ma la verità è che fa tutto quel che può. E fallisce, a causa della malattia mentale. E dei suoi limiti. È il senso di inadeguatezza che può cogliere tutte le madri portato all’estremo».

Si potrebbe fare qualcosa per prevenire questa «declino della maternità» in Occidente?
«Difficile rispondere. In generale credo che dovremmo stare tutti più attenti ai segnali che i bambini ci lanciano, anche se non sono i nostri figli. È così vergognoso essere classificate come cattive madri che spesso le donne, anche se si rendono conto di non farcela con i figli, non si azzardano a chiedere aiuto».
«Il Giornale» del 28 giugno 2010