26 maggio 2010

Zagrebelski si straccia le vesti ma sbaglia mira: oggi la teocrazia non c’è

Vuol dimostrare che la vocazione cattolica è affermare l’egemonia su tutti gli uomini, non solo sui fedeli Però tace sui contenuti veri del relativismo
di Carlo Cardia
Il saggio di Gustavo Zagrebelsky Scambiarsi la veste (Laterza) è molto colto, e molto «italiano». Molto colto, perché le citazioni sono selezionate e preziose, molto italiano perché non fuoriesce da alcuni ste­reotipi in auge nel nostro Paese quando si parla di rapporti tra Stato e Chiesa. In un ve­loce excursus storico, la Chiesa è presentata intenta ad imporsi sugli altri, perché deten­trice di una verità che essa reputa universale, quindi egemonica verso tutti gli uomini. L’autore rivela la sua tesi di fondo quando afferma che l’affranca­mento delle forme di vita politico-sociale dalle loro originarie matrici religiose sembra (di recente) essersi fermato, e le concezioni dell’uomo metafisicamen­te orientate, invece di es­sere relegate nel campo dell’esperienza morale in­dividuale, irrilevante nella sfera pubblica, appaiono oggi protagoniste di una nuova fase nella quale la politica e gli Stati sono alla ricerca di una legittimazione etica più profonda che non sia quella esclusiva­mente rappresentativa. Il saggio tende a di­mostrare che, tranne qualche passaggio sto­rico (l’apertura di Leone XIII sulla questione sociale, il Concilio Vaticano II) con cui la Chiesa si è aperta alla tematica dei diritti e al pluralismo religioso e culturale della modernità, per il resto la vocazione stessa del cattolicesimo è diretta ad affermare l’ege­monia su tutti gli uomini, non solo sui suoi fedeli. La caduta più grave della Chiesa, poi, si registrereb­be oggi nel tentativo di identificare il messaggio di fede con la ragione, così ri­proponendo in altra forma la volontà di vin­colare alle proprie direttive tutti gli uomini, in quanto dotati di ragione. Ne deriva l’ine­vitabilità di nuovi conflitti perché «la ragio­ne pubblica è incompatibile con qualunque posizione particolare che pretenda di posse­dere a priori l’'intera verità' e quindi d’im­porsi a questa. La ragione pubblica è compatibile soltanto con le ragioni che si presta­no a essere discusse, confrontate e valutare le une rispetto alle altre». Nei fatti, la denun­cia del relativismo spinge la Chiesa addirittura al recupe­ro del «principio dell’extra Ecclesia nulla salus, con tut­ta la sua portata d’intolleran­za e la naturale tendenza della religione a farsi religio­ne di Stato». In un passaggio Zagrebelsky cerca di entrare nel merito del relativismo contemporaneo affermando che questo «non esclude af­fatto il richiamo alla 'vita buona'. Non significa affatto che 'i relativisti' siano privi di tensione morale e siano e­sposti alla pura forza delle 'voglie'. Ma la risposta a questo richiamo etico sta per loro nel qua­dro della libertà e della responsabilità, non in quello dell’obbedienza a qualsivoglia au­torità, civile o religiosa». Per il resto, tutto l’argomentare sulla Chiesa e sulla polis si svolge a un livello di astrattezza a-storica ammirevole e inquietante insieme. Da Gela­sio I a Gregorio VII, dalla potestas indirecta in temporalibus alla reazione anti-moderna, la storia della Chiesa è sostanzialmente una storia di temporalismo e di sostituzione al ruolo dello Stato (scambiarsi le vesti) per comandare sulle coscienza degli uomini. Così, ogni for­ma di storicizzazione, che guardi al processo di civilizzazione e spiritualizzazione del cristianesimo verso l’Europa e alla elaborazione di valori che si sono dif­fusi in tutto il mondo, è semplicemente ignorata. Anche il passo evangelico del «date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» viene svilito come segmento quasi insignificante, invece che una svolta epoca­le nei riguardi della società antica in cui sa­cro e profano era un tutt’uno, nell’orizzonte di un paganesimo nel quale mancava la spinta a guardare in alto e vedere nell’uomo il protagonista del proprio destino. Infine, l’ecclesiologia più recente negherebbe l’au­tonomia della sfera civile e la libera deter­minazione della persona, proprio quando la Chiesa offre i fondamenti razionali (e ragio­nevoli) dei propri orientamenti su questioni essenziali per il futuro dell’uomo. Il relativismo è citato senza dir nulla sui problemi ve­ri che sono oggetto di critica del magistero ecclesiastico: la caduta del valore della vita, nascente e terminale, le legislazioni sul sui­cidio assistito, la mancanza di sostegno a fa­vore di chi potrebbe rifiutare l’aborto, la le­gittimazione di forme di convivenza che neanche la classicità ammetteva o ipotizza­va, e via di seguito. Sta forse nelle sue reti­cenze storiche, e nel silenzio sui contenuti veri del relativismo, la debolezza di un saggio che si legge molto bene ma non aiuta a comprendere i termini dell’affascinante rapporto tra religione e storia, diritti indivi­duali e principio di solidarietà, che accom­pagna il cammino dell’uomo da sempre, con difficoltà, tensioni, anche errori, ma che ha costruito una società tuttora debitrice di quelle radici cristiane che nessuno riesce a scalfire, neanche mettendole tra parentesi.
«Avvenire» del 26 maggio 2010

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