03 maggio 2010

Sentenza crocifisso: cambiare si deve. È l’Europa stessa ad affermarlo

Lo Statuto del Consiglio d’Europa per i temi religiosi offre principi normativi a tutela dell’autonomia dei governi
di Carlo Cardia
Esistono molte buone ragioni perché la sentenza della Corte di Strasburgo del novembre 2009 sulla questione del crocifisso possa essere rivista con saggezza, nel quadro di una riflessione giuridica e culturale più ampia. A guardare anche solo i testi normativi essenziali ci si accorge che nello Statuto del Consiglio d’Europa è scritto che «i governi (sono) irremovibilmente (inébranlablement) legati ai valori spirituali e morali, che sono patrimonio comune dei loro popoli». Mentre l’introduzione alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo (Cedu) afferma che «i governi firmatari, membri del Consiglio d’Europa (sono) risoluti, in quanto governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici».
Dunque, i valori spirituali e morali, e le tradizioni comuni costituiscono la forza dei popoli e degli Stati europei, e il loro indebolimento impoverisce tutti. La sentenza della Corte, inoltre, deve essere rivista alla luce della sua stessa pluridecennale giurisprudenza, la quale più volte ha ribadito di non poter «trascurare il fatto che la religione cattolica romana costituisce la confessione della grande maggioranza (di un popolo). (Nelle concrete circostanze) le autorità (nazionali) agiscono per proteggere la pace religiosa nella regione e per impedire che certi si sentano attaccati nei loro sentimenti religiosi in modo ingiustificato e offensivo. Spetta in primo luogo alle autorità nazionali, meglio situate rispetto al giudice internazionale, di valutare la necessità di simili misure, alla luce della situazione locale esistente in una determinata epoca». Chiunque comprende che se questi criteri (ribaditi per decenni dalla Corte) fossero stati applicati alla questione del crocifisso la decisione del novembre del 2009 sarebbe stata opposta a quella che conosciamo.
Ancora, in altra sentenza, la Corte ha ribadito che «in ragione del loro rapporto diretto e continuo con le forze vitali dei loro paesi, le autorità statali in linea di principio sono in una posizione migliore rispetto al giudice internazionale quando si tratta di valutare» le specifiche situazioni. In altri termini, il grande principio della sussidiarietà, più volte affermato, è stato pretermesso nel giudizio sulla presenza dei simboli religiosi e deve ora essere recuperato proprio su una questione come quella del crocifisso che riguarda i sentimenti popolari più profondi, e le tradizioni cristiane, tutelate dagli atti normativi europei fondamentali e dalla stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Ci sono poi nella sentenza degli errori storico-giuridici, e di prospettiva, che vanno corretti. Essa afferma che il crocifisso è stato esposto nelle aule scolastiche a seguito della legge Casati del 1859 in conseguenza del principio confessionista dell’articolo 1 dello Statuto Albertino del 1848 per il quale la sola religione dello Stato (era) la religione cattolica apostolica e romana.
Si tratta di un errore perché il principio dello Statuto cadde subito in desuetudine per le leggi separatiste approvate tra il 1848 e il 1860 (oltre alle successive): legge Sineo del giugno 1848 che stabilisce il principio di uguaglianza dei culti; legge Siccardi del 1850 che abolisce il 'foro ecclesiastico'; legge eversiva del maggio del 1855 che abolisce gli ordini religiosi di vita contemplativa. A seguito di queste leggi i governanti italiani (il Re, Cavour e i componenti del gabinetto) sono stati censurati canonicamente e scomunicati.
Inoltre, la Corte non tiene conto che il Regolamento del 1908, cioè dopo lunghi decenni di separatismo, conferma la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche. Quindi il crocifisso non è frutto del confessionismo ma delle scelte liberali prima, poi del legislatore nel periodo costituzionale, senza nemmeno comparire nel Concordato del 1929 e in quello riformato del 1984. Altra correzione deve essere compiuta quando la Corte afferma che il crocifisso è ragionevolmente simbolo del cattolicesimo. Non lo è in termini scritturali perché tutti i cristiani, sulla base dei Vangeli e degli insegnamenti di San Paolo, vedono nella Croce il cuore della propria fede. Non lo è sul piano dei fatti perché cattolici e ortodossi hanno una bimillenaria tradizione di esposizione del crocifisso (anche negli spazi pubblici), e perché molti Paesi protestanti nell’Europa del Nord integrano la croce addirittura nelle bandiere nazionali. Infine, l’errore di prospettiva più serio, nel merito della sentenza, è quando la Corte non esamina la condizione reale della scuola italiana, del suo assetto (giuridico e di fatto) pluralista, del suo aprirsi alla molteplicità etnica e religiosa e alla interculturalità. In realtà nella scuola italiana sono ammessi insegnamenti religiosi facoltativi per tutte le confessioni religiose riconosciute (Regio decreto 28 febbraio 1930,m n. 289), sono previsti interventi di rappresentanti confessionali per rispondere alle richieste degli alunni in ordine allo studio del fatto religioso, in base alle Intese con la Tavola Valdese, con gli Avventisti del 7° giorno, con le Assemblee di Dio in Italia (Pentecostali), con la Chiesa Battista, la Chiesa evangelica Luterana, Ben altre 6 Intese con altrettanti culti sono state già firmate, attendono di diventare legge, e contengono le stesse norme. L’Intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche prevede che i suoi rappresentanti possono intervenire nella scuola per lo studio dell’ebraismo. Dunque, la scuola italiana è aperta alla presenza di tutte le religioni e i ragazzi avvertono questa presenza pluralista nella esperienza quotidiana.
Ancora, la scuola italiana ammette simboli e pratiche di altre religioni. Leggi, decreti, circolari, e giurisprudenza, prevedono la legittimità del velo islamico, di altri simboli e vestimenti di derivazione religiosa, mentre nelle scuole spesso si festeggia l’inizio e la fine del ramadan proprio per far socializzare i ragazzi; in alcune scuole e nei luoghi di lavoro si legittima la preghiera quotidiana secondo gli orari previsti dalla dottrina musulmana, ecc. La Carta dei valori della cittadinanza e dell’immigrazione, approvata dal ministro Giuliano Amato con Decreto del 23 aprile 2007, afferma che «muovendo dalla propria tradizione religiosa e culturale, l’Italia rispetta i simboli, e i segni, di tutte le religioni.
Nessuno può ritenersi offeso dai segni e dai simboli di religioni diverse dalla sua.
Come stabilito dalla Carte internazionali, è giusto educare i giovani a rispettare le convinzioni religiose degli altri, senza vedere in esse fattori di divisione degli esseri umani». Esistono inoltre Carte internazionali sui diritti umani, a cominciare da quella sui diritti del fanciullo del 1989, che prevedono il rispetto dei valori dello Stato in cui i ragazzi si trovano a vivere. Il mancato esame di questi elementi giuridici e storico-culturali (e altro ancora) ha indotto la Corte di Strasburgo ad isolare il simbolo del crocifisso come fosse l’unico presente nelle nostre scuole, mentre è vero il contrario, perché esso – che rappresenta la tradizione cristiana italiana ed europea – è nelle scuole in un contesto di libertà. Se si seguisse la logica della sentenza si arriverebbe all’assurdo di togliere il crocifisso e mantenere i simboli di altre religioni, con la conseguenza che verrebbe ad essere sacrificata e discriminata proprio la religione della stragrande maggioranza degli italiani. Per questa ragione, dicevo all’inizio, ritengo esistano tutte le condizioni perché si possa avere una revisione saggia e lungimirante di una sentenza che non riguarda soltanto l’Italia ma, prospetticamente, interessa gran parte dei Paesi europei che vantano le proprie radici cristiane – cattoliche, ortodosse o protestanti – ed espongono simboli religiosi negli spazi pubblici. La modifica della sentenza avrebbe l’effetto di rendere giustizia all’Italia, e salvaguardare in tutta Europa un simbolo di pace che parla ai cristiani di ogni denominazione, ma anche a tutti gli uomini di volontà.
«Avvenire» del 1 maggio 2010

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