18 maggio 2010

Scrittori, attenti: il libro non è merce

.Giornate, festival, fiere: mentre chiude la kermesse di Torino, una riflessione sul rischio di fare del libro un oggetto di consumo
di Goffredo Fofi
Quante sciocchezze si leggono sulla lettura, quanti elogi interessati del libro! Li promuove l’editoria, direttamente coinvolta perché è il suo 'ramo', ma coinvolgono, entusiasmandoli, tutti gli addetti che ci girano intorno, dagli agenti letterari ai librai ai funzionari dei festival della letteratura che continuano a crescere di numero raggiungendo capoluoghi e villaggi, in una catena che sembra inarrestabile e che coinvolge ogni ramo del sapere (o del non-sapere) con le conseguenti passerelle di critici, accademici, giornalisti, pubblicitari, esperti e specialisti d’ogni risma o presunti tali. Alla base di tutto c’è pur sempre il binomio fondante, quello che tiene in piedi questa vasta impalcatura economica, comprese le sue coloriture turistiche, ci sono gli scrittori e ci sono i lettori, ma non sono loro a 'fare il mercato', assai meno liberi nelle loro scelte di quanto non si pensi. Come per altre merci, alle spalle di tutto c’è la finanza e c’è la pubblicità. In altri termini, chi decide cosa pubblicare e diffondere lo fa per motivi coscientemente economici (e sono i grandi raggruppamenti finanziari a gestire di fatto le grandi case editrici) e, forse meno coscientemente ma c’è da dubitarne, con criteri 'politici'. Il libro è una merce che, come i film i giornali e prima di tutto le tv, è anche un medium che produce consenso, e viene sempre più usato, come i film i giornali le tv, come un modo di 'assistere' i cittadini aiutandoli a distrarsi, e a pensare che il mondo è come la massa delle merci li assicurano che sia, riempiendo con le immagini e l’immaginario i suoi vuoti e coprendo i suoi dubbi e le sue inquietudini. Non so se è vero che si legga più di un tempo, ma certamente la presenza del libro si è fatta più ossessiva e chiassosa, secondo criteri che non sono di per sé una garanzia di varietà e libertà.
Uno dei modi di propagandare una merce è quello di esaltarne l’indispensabilità, la diversità. Per diffondere la merce libro, ecco allora la mobilitazione degli editori e degli scrittori, Che vengono direttamente e facilmente coinvolti in questo ciclo della merce per i motivi più ovvi, in sostanza tre: vendere e camparci il meglio possibile, venir letti, diventare famosi. La massa delle merci deve dunque, per piacere, consolare i lettori invece di inquietarli, rassicurarli invece di provocarli, blandirli invece che additare, per il tramite di vicende e personaggi che in qualche modo riguardano i bisogni fondamentali e non manipolati dei lettori, la loro realtà evidente come quella più intima e nascosta. Ma la massa dei lettori non ama venir messa in crisi dal libro, ama venirne rassicurata e consolata. E dunque per il mercato si tratta di lanciare prodotti a questo destinati. La lettura, come episodio fondamentale della conoscenza di sé e del mondo, diventa nell’ottica della merce qualcosa di secondario e anzi da evitare, mentre è fondamentale esaltarne ciò che spinge all’acquisto reiterato, che produce assuefazione, che fa sentire il lettore contento e provvisoriamente, diciamo così, saziato dalle parole che li per lì riempiono, anche se la loro sostanza è scarsa e anzi nociva.
Non scandalizza più di tanto - se si paragona il consumo del libro ad altri consumi - l’insistenza degli editori nel volerci far credere che il consumo del libro è un consumo molto più degno di altri, che la lettura (la circolazione dei libri, l’acquisto dei libri) nobilita e rende migliori di chi non legge, e non importa cosa si legge, e meglio se si leggono le cose che leggono tutti e i best-seller unificanti - , ci scandalizza di più il coinvolgimento in questa menzogna pubblicitaria di tanti scrittori. Sono diventati un genere a sé, infatti, i libri sui lettori - le portinaie e i topi che leggono (Barbéry e Savane), le minorate che scrivono (Nothomb), sono esempi tra tanti che gratificano i lettori invece di ricordar loro che, leggendo, stanno anche fuggendo dal mondo e dalle sue responsabilità, dalla conoscenza e dalle sue responsabilità. Sono complici pubblicità per merci massicce e scadenti, furbe e trasandate, che - coerentemente al sistema economico dominante e ormai globale, imposto dal modello di società più avanzato e forse più nefasto di tutti, l’americano - vedono il lettore come consumatore e non come individuo.
E’ per questo che un saggio agile, coinvolgente e soprattutto onesto e convincente come quello di Michèle Petit sulla lettura, Elogio della lettura (edito da Ponte alle Grazie), ha un sottotitolo francese che dice tutto, sparito dall’edizione italiana forse per far entrare il libro, scoperto tardivamente, nel flusso di una moda: 'La construction de soi'.
Affascinata dai modi di leggere, dalla libertà dei percorsi, della varietà delle suggestioni che ha visto intorno a sé, in chi conosceva o in chi intervistava da antropologa che si è specializzata proprio sul tema della lettura (in ambiente rurale dapprima, e urbano e sul pubblico delle biblioteche dopo) e che ritrovava nelle autobiografie e nelle riflessioni di scrittori e di studiosi di varia umanità, Michèle Petit ha affrontato il mistero della lettura con passione e serena indipendenza di giudizio rispetto alle mode e alle spiegazioni interessate, valutando quale è stata l’importanza della lettura nell’esperienza di milioni di individui, in passato e ancora oggi. Questo piccolo libro affascinante non ha niente in comune con gli elogi della lettura fatti da tanti mercanti scriventi ed editanti: è una boccata d’aria fresca che ci rassicura sull’importanza del libro nell’esperienza individuale, in un’epoca che vede il libro soltanto come una droga tra altre.
Nonostante tutto, come in Fahrenheit 451, il libro può ancora parlare, ammesso che sappia in che contesto oggi circola, e che sia chiaro e onesto l’intendimento e autentico il talento (e l’angoscia, o la fede) di chi lo scrive.
«Avvenire» del 18 maggio 2010

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