20 maggio 2010

Sanguineti: tra linguaggio e ideologia

di Cesare Cavalleri
Sì, lascia un gran vuoto il caro, ossimorico Edoardo Sanguineti che per oltre mezzo secolo ha animato e talvolta squassato la scena letteraria italiana. Ossimorico perché la sua personalità e il suo fare letterario sono pieni di simultanei contrasti. Sanguineti orifiamma della Neoavanguardia e dello sperimentalismo linguistico, eppure studioso di Gozzano, dei crepuscolari e dei poeti liberty, riscopritore di Gian Pietro Lucini (1867-1914) e, praticamente, inventore del tenero Carlo Vallini (1885-1920); studioso indifferentemente di Dante e di D’Annunzio, e nel contempo capace di valorizzare la 'liturgia del pianto' di Giovanni Pascoli, come «la sola forma di percezione del sacro e di sentimento del tempo, sinceramente interiorizzata e autenticamente partecipabile, che i nostri padri abbiano saputo trasmetterci, e che noi siamo ancora in grado di risentire e di comprendere, come suole accadere nella storia, per la forza della poesia»; capace di scrivere poesie erotiche ('Erotopaegnia', 1956-59), ma sempre innamoratissimo della moglie; e potremmo continuare per un pezzo. La stella polare, e lo stigma, di Sanguineti (marxista convinto o, almeno, dichiarato) è il rapporto 'Ideologia e linguaggio', tematizzato nel saggio di quel titolo (1965) e confermato nel 1987 con 'La missione del critico'. Egli era in grado di leggere «la fanatica accoppiata ideologia e linguaggio» (in Sanguineti l’ironia è anche autoironia) perfino nel 'socialista' Giovanni Pascoli: «Il principio di conciliazione, nella lotta di classe, si concreta stilisticamente nell’abolizione di ogni contrasto tra le classi di parole: 'sublime d’en haut' e 'sublime d’en bas' operano riconciliati, in uno stile medio­sublime che naturalmente approda all’encomio medio­borghese del 'self-made man' e della piccola proprietà rurale».
Invero, tra ideologia e linguaggio Sanguineti ha sempre finito per privilegiare il linguaggio, l’ideologia essendo uno sfondo, anche labile. E in ciò Sanguineti, capofila teorico della Neoavanguardia, ha saputo compiere quella salutare operazione di critica negativa della tradizione, che ha svecchiato la poesia dell’ultimo trentennio del secolo scorso. A conferma che le simpatie ideologiche non hanno fatto schermo all’autonomia critica di Sanguineti, basta ricordare che nella sua celebre antologia 'Poesia italiana del Novecento' (Einaudi, 1970) Quasimodo è presente solo per le traduzione dei lirici greci (e questa è una sacrosanta ingiustizia), arrivando al coraggio di escludere perfino Attilio Bertolucci e Piero Bigongiari.
Indimenticabile la riduzione dell’Orlando furioso che Sanguineti operò per le cinque puntate televisive dirette da Luca Ronconi nel 1974, con un eccezionale cast comprendente Mariangela Melato, Edmonda Aldini, Ottavia Piccolo, Massimo Foschi, Luigi Diberti, Michele Placido. In proprio, la poesia di Sanguineti, da sempre incline a un certo goliardismo, ha finito per risolversi in una serie di calembour e di giochi di parole, infittiti di parentesi anche doppie, come per nascondere un’emozione e, forse, un fallimento. Infatti, non si può fare poesia sperimentale per cinquant’anni: dopo gli esperimenti dovrebbero venire i risultati, e questi – come in tutta la Neoavanguardia, con l’eccezione di Antonio Porta – latitano.
Assume pertanto un valore di conclusione, letteraria ed esistenziale, questa Fin de siècle, scritta nel dicembre 1999, cioè all’alba del 2000: «Avrò un tre versi, un sei secondi, ancora: / millennio mio, mi è finito il cammino: / ero un file: // e il tuo bug qui mi divora».
«Avvenire» del 20 maggio 2010

1 commento:

Fulvio Sguerso ha detto...

Nel verso riverso il mio senso diverso
riverso nel verso l'inverso del senso
converso sul verso con sensi diversi
m'inverso e avverso con senso
perverso
i sensi che verso nel senso l'inverso
al senso del verso riverso
e infine attraverso le riva
riversa
sulla rima emersa dal seme
versato nel verso
a canone inverso da capoverso
a capoverso
dove il senso s'è perso.