12 maggio 2010

Quell'infelicità del Belpaese

Un'inquietudine diffusa
di Raffaele La Capria
Perché l'interesse privato viene prima di quello pubblico
Quando in un precedente articolo ho parlato della doppia infelicità che come figli di questo secolo ci è caduta addosso, l'infelicità oggettiva che ci viene dal mondo globale con tutte le sue catastrofi e l'infelicità soggettiva, privata che ognuno nella sua vita impara a conoscere e a ognuno in dosi diverse arriva, io non ho fatto cenno di quella infelicità tutta italiana che ci cade addosso proprio in quanto italiani e si aggiunge all'altra. È un'infelicità che viene da lontano, che fa parte del nostro Dna, che viene dal modo in cui si è formato e ha vissuto da sempre il Paese Italia da quando non era nazione a quando è diventato nazione, sviluppando gli stessi resistentissimi germi che da sempre l'hanno reso malato. Parlo di quella forza autodistruttiva che fa sì che gli italiani siano continuamente l'un contro l'altro armati. Parlo del «Paese della politica», cioè di quel Paese, il nostro, in cui tutto è politica perché la politica è la forma in cui si traveste il «particulare», cioè l'interesse personale prima di quello pubblico. Si sa che quando l'interesse è ferocemente contrapposto a un altro interesse nasce un odio implacabile e la sola cosa che si desidera è la morte dell'avversario. L'italiano non sopporta il condominio, la condivisione, la democrazia. Oggi ognuno avverte in modo diverso l'atmosfera di odio e di incertezza che c'è in giro e nessuno sa, riesce a immaginare dove la nave va. Quando penso a questo, a dove andiamo, mi viene immediatamente in mente la storia dell'aereo partito dalle coste del Brasile e sparito nel nulla. Ho immaginato più volte cosa pensavano i piloti di quell'aereo quando, entrati in un banco di nuvole mentre infuriava la tempesta sull'Atlantico, si sono trovati in una zona senza visibilità alcuna, in cui non funzionava nessuno strumento di rilevazione. Dev'essere stato terribile quel sentirsi sospesi, fermi in un nulla totale, proiettati in una realtà senza alcuna dimensione. Esagero? Se esagero è per far capire con una metafora in che stato sono tanti italiani e come anche a loro pare di navigare sospesi in un nulla molto simile a quello dell'aereo partito dal Brasile. Da qui nasce l'infelicità di cui parlavo. Un giorno si dice una cosa, un giorno si dice l'opposto, eppure la cosa e il suo opposto provengono dalla stessa fonte. Non si capisce mai dove sia la verità e «non si capisce quando uno parla di che cosa parla». La verità è camuffata dalla menzogna o dalla cecità di parte e la menzogna vuole apparire o è sentita come verità. Quando ogni ipotesi appare possibile, ogni sospetto è autorizzato. E c'è la sensazione che un occhio indiscreto stia a spiare ogni nostra intimità, che un orecchio malevolo registri ogni nostra parola. L'impressione che si riceve è quella di vivere sotto la tutela di un Grande Fratello orwelliano dotato oggi di mezzi sofisticati di indagine che prima non esistevano. A leggere i giornali con la pubblicazione spudorata delle telefonate più spudorate si pensa inevitabilmente a uno Stato poliziesco dove la libertà e la dignità di ognuno sono a discrezione di quell'occhio. Se ci si sente in questo modo non è perché si è nervosi e troppo sensibili, non è perché si esagerano le proporzioni di quel che accade, ma perché in tempi non lontani tutto questo è già accaduto e si teme che possa ritornare. «È così che (oggi, in Italia) si formano le personalità politiche, con l'abitudine a sopravvivere in un regime di comunicazione falsata» scrive Alfonso Berardinelli. Tale stato di allarme non è solo della mia generazione o di quella di Berardinelli, si è trasmesso non so per quali vie anche nell'inconscio delle più giovani generazioni. Mi scrive un giovane amico, un trentenne che come me custodisce il senso della misura e come me sente che da ogni parte è stato oltrepassato: «La grande marcia della distruzione continuerà. Tutto sarà negato. Tutto diventerà un credo. Sarà una posizione ragionevole negare le pietre della strada, sarà un dogma religioso difenderle. Saranno accesi i fuochi per testimoniare che due più due fa quattro. Saranno sguainate le spade per provare che le foglie sono verdi in estate, perciò combatteremo per i prodigi visibili, come se non lo fossero». Caro Raffaele, mi scrive il mio giovane amico Paolo Bonora, «queste citate sono le parole di G. K. Chesterton che chiudono Eretici, un suo libro. Leggendole a me è venuto in mente Goffredo Parise quando scriveva che aveva visto nella piazza sotto casa una bambina con in mano un sillabario. Parise si avvicina e legge: "L'erba è verde" e capisce che stavamo sbagliando tutto». Le parole di Berardinelli, di Chesterton di Goffredo Parise, riportate da me e dal mio giovane amico, creano legami e affinità, trasmettono idee da una generazione all'altra, che dimostrano almeno a me che se abbiamo sbagliato tutto, non tutto è perduto. E che forse una nuova fede ci salverà. Perché «là dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva» (Hölderlin).
«Corriere della Sera» del 3 maggio 2010

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