20 maggio 2010

Quando si fissa un prezzo alla vita

Il caso del presunto killer dei «vecchietti»
di Ferdinando Camon
A Roma un infermiere avrebbe ucciso (usiamo il condizionale perché non c’è ancora la sentenza, e non importa se le cronache parlano di prove schiaccianti) sette 'vecchietti' per ricavare da ciascuno 50 euro di premio dalla ditta che fornisce la bara, e altrettanti di mancia dai famigliari per la preparazione del cadavere. In totale, fanno 100 euro per ogni vecchietto. Fermiamoci sui due dati: il termine 'vecchietto' e i 100 euro cadauno.
La parola 'vecchietto' non ha lo stesso valore di 'vecchio'. Vecchietto è il vecchio addolcito, indebolito, bambinizzato: dalla malattia, dalla non­autosufficienza, dal bisogno di cure, di tutto. Dunque questi vecchi (poco sotto o poco sopra gli ottant’anni) hanno bisogno di tutto e l’infermiere (questo o un altro che sia) gli toglie tutto: gli toglie la vita. Fa come un animale che s’aggira per la giungla, trova un altro animale ferito o incapace di difendersi, e se lo mangia. L’altro serve a nutrirmi. Nei vecchietti c’è l’inutilità che c’è nei bambini: amabili, ma non servono a niente, sono totalmente incapaci. Se si trasforma questa inutilità in oro (cioè in euro), li si valorizza. Un serial killer che lavora in un reparto geriatrico è come uno scavatore in una miniera.
Uccidendo sette vecchi, passava da una morte all’altra, da un morto all’altro, con facilità, con naturalezza. Il che mostra che idea (pudore, rispetto, pietà) aveva dei morti. In questi giorni sta girando per l’Italia un film giapponese molto bello (lo raccomando a tutti, non è affatto un film lugubre), intitolato 'Departures', premio Oscar come miglior film straniero, tutto incentrato sulla cura dei morti: i morti in Giappone vengono sottoposti a una 'scomposizione' e poi a una 'ricomposizione', prima cioè gli vien tolto dalla faccia e dal corpo ogni segno di malattia, stanchezza, imbruttimento, e poi gli vien data la più alta forma possibile di grazia, eleganza, bellezza. L’esperto lavora e tutta la famiglia, inginocchiata in silenzio, guarda. Il morto dev’essere 'ammirabile'. La sopravvivenza della famiglia si fonda su questo rispetto dei morti. E su questo si fonda la civiltà, dice il Foscolo: i morti sono un deposito di memorie a cui i vivi attingono, spinti da quelle memorie i vivi fanno la nuova storia, e dunque sono i morti che, in loro, fanno la nuova storia.
È importante notare come, a questo serial killer che avrebbe ammazzato con iniezioni di insulina sette vecchietti, vengano attribuite anche altre colpe. C’è un’altra donna uccisa, altre donne derubate nella sua storia. Uno non è mai soltanto assassino ma è anche ladro, rapinatore, violentatore, eccetera. Tra il bene e il male c’è una linea, se la passi sei di là. Di là ti muovi in un terreno senza norme, è quello che cercavi, le norme puoi farle tu. La prima norma che hai da formulare affronta il vecchio problema morale­filosofico: quanto vale la vita umana? La vita umana o ha un valore immenso (parola che significa: non misurabile), e allora non la tocchi, o ha un valore misurabile e allora il prezzo puoi fissarlo tu. Anche 50 euro va bene. La vita umana o vale immensamente o non vale niente. Chi scarta la prima risposta, sceglie automaticamente la seconda.
«Avvenire» del 20 maggio 2010

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