18 maggio 2010

Perché Achille è un personaggio del nostro vivere quotidiano

di Giuseppe Zanetto
Se dovessi scegliere il mio preferito, tra i 24 canti dell'Iliade, credo che dopo lunga esitazione sceglierei il IX, l'ambasceria ad Achille. I primi duecento versi sono una sorta di preludio: li si legge un po' in fretta, come quando si ascolta una sinfonia dall'inizio, ma la mente va già oltre le frasi dell'esordio, al movimento appassionato che seguirà e che – lo sappiamo – ci prenderà il cuore. Conclusa l'assemblea dei capi greci, i tre messaggeri si incamminano verso la tenda di Achille. Ulisse, Aiace e il vecchio Fenice procedono lungo la riva del mare "risonante": è notte, e possiamo immaginarci le onde che si frangono sul lido alla luce della luna. Il mare nell'Iliade non è una presenza costante, come nell'Odissea; ma compare nei momenti di massima densità poetica.
In questa scena notturna il fragore delle onde esprime la tensione dei personaggi, consapevoli del difficile compito che li attende: il fragore delle onde corrisponde al tumulto dei sentimenti. Avvicinandosi alla meta, i tre vedono Achille che canta al suono della cetra le imprese degli eroi: Omero riafferma in questo modo il valore testimoniale della poesia e propone una figura ideale di poeta soldato destinata a larga fortuna nella letteratura mondiale (da Archiloco a Foscolo).
Bellissima e commovente è la scena di accoglienza che segue, un vero distillato di grecità arcaica. Achille fa entrare i compagni nella tenda, prepara di persona per loro la carne arrostita, il pane e il vino. Si mangia e si beve in silenzio, al calore del fuoco e dell'amicizia. È questa una "scena tipica", che ritorna mille volte nei poemi: la regola aristocratica vuole che l'ospite – qualunque ospite – sia rifocillato, prima che lo si interroghi sui motivi della visita. Ma la gioia di Achille nel servire i compagni è riprodotta con straordinaria verità. Ed è una piattaforma ideale per i discorsi che seguono. Ulisse riferisce, con eloquenza composta e insieme scaltra, le concilianti proposte di Agamennone.
Achille rifiuta, con un discorso che è forse il brano più bello dell'intero poema. Grandioso è l'esordio, la rabbia desolata con cui l'eroe constata l'ingiustizia della sorte umana (ossia, la vanità dell'ideale eroico): «La stessa ricompensa è data a chi non fa nulla e a chi molto si batte, muoiono allo stesso modo il vigliacco e il valoroso». Poi la ripulsa sprezzante («Si tenga Agamennone i suoi doni, si tenga le sue figlie: le dia a qualcuno più degno di me») e, improvviso, un inno struggente alla vita.
Achille è venuto a Troia per conquistare la gloria e morire. Ma in questo momento, così caldo di affetti, l'eroe adolescente si illude di poter ancora scegliere, di potersi sottrarre al destino maligno. Il baratto che il fato gli ha imposto (morte precoce in cambio di gloria eterna) gli appare assurdo, improponibile: «Niente per me vale vita, neppure i tesori che Priamo conserva nella rocca di Troia. Mandrie e greggi si possono rapire, tripodi e cavalli si possono acquistare, ma la vita di un uomo non la si può riprendere, quando ha superato la barriera dei denti». Chi ha detto che l'Iliade è un canto di guerra? Giudizio superficiale e fuorviante. La guerra (la guerra di Troia, l'inizio della storia, quindi il segno della finitudine umana, il peccato originale) è il contenitore, il contesto.
La guerra è l'ananke, la "necessità": quella rete di condizionamenti e limiti da cui ogni nato di donna è avviluppato, nell'attimo stesso in cui esce alla luce del sole. La reazione all'ananke è la vita, fatta di affetti elementari, di passioni. Greci e Troiani non possono sottrarsi al destino che la moira potente ha filato per loro; ma la guerra, esasperando le asprezze della condizione mortale, dà senso e chiarezza alle loro risposte. È un discrimine, un vaglio, una lente d'ingrandimento; dentro la tensione che la guerra produce, si delineano netti i valori primordiali dell'uomo arcaico: la famiglia, l'amicizia, l'identità politica, la fede religiosa, l'amor di patria.
Gli studiosi di letteratura greca tendono a considerare l'Iliade più antica dell'Odissea, appunto perché vi riconoscono una primitività concettuale. L'Odissea sembra ispirata a una ideologia più complessa, a posizioni più evolute: c'è una "moralità" nella vicenda di Ulisse, che con l'aiuto degli dèi punisce i proci prevaricatori e ingiusti. Ma anche nell'Iliade si può riconoscere una moralità essenziale, che ne fa la prima tragedia e il modello di ogni tragedia. L'eroe tragico del poema è Achille, che si consegna al destino nell'istante in cui crede di poterlo controllare. La vicenda di Achille illustra il principio fondativo della categoria tragica: gli uomini non controllano la loro sorte; non solo non ne sono gli artefici, ma la subiscono, senza poterla né costruire né prevedere né comprendere. Attorno ad Achille, tutti gli altri personaggi dell'Iliade, da Ettore a Patroclo, da Andromaca a Elena, si muovono nella stessa dimensione: vivono ogni singolo attimo con straordinaria intensità di affetti, e con totale inconsapevolezza.
Per i Greci, anche a distanza di molti anni dalla composizione dei poemi omerici (databile all'VIII secolo a.C.), l'attualità dell'Iliade rimane un punto fisso. Se per la nostra sensibilità moderna l'Odissea è una sorta di ipotesto universale, per gli antichi il poema di Achille è un modello irrinunciabile. Storici e poeti avviano e intonano le loro opere raccordandole al racconto di Omero. Ciò vale per la letteratura greca, ma anche per la latina. L'Eneide di Virgilio, ossia il manifesto dell'ideologia imperiale romana, si riannoda idealmente all'Iliade: l'intero II canto è una Iliupersis ("presa di Troia") intrisa di reminiscenze e citazioni. Ma il primato iliadico è riconoscibile anche nel quotidiano: i bimbi greci imparano a leggere sui versi dell'Iliade (come documentano i tanti frammenti di abbecedari arrivati fino a noi), e quando Socrate, nella Repubblica di Platone, cerca un esempio di racconto poetico a tutti noto, cita l'episodio iniziale del poema. A un livello più profondo, la forza d'impatto dell'Iliade è testimoniata dalla tragedia.
Anche un poeta irrequieto e innovatore come Euripide si ispira volentieri a momenti della saga troiana, perché ne avverte la potenza di significazione. Il dramma forse più "rivoluzionario" di Euripide, Le Troiane, una tragedia che davvero si può definire pacifista, è costruito attorno all'uccisione del piccolo Astianatte, il figlio di Ettore e Andromaca: un bimbo innocente, assurdamente sacrificato per gratuita crudeltà e irrazionale paura. Nell'Iliade la morte del bimbo non è narrata, ma è oscuramente presentita: è il suggello di una rovina che non si osa neppur concepire. La pittura vascolare attica ne fa uno dei suoi temi preferiti: non per malsano gusto dell'orrido, ma come monito contro la matta bestialità di una violenza ingiustificata.
Certo a molti sarà capitato (come è capitato a me, tante volte) di cenare una sera d'estate in una taverna di un'isola greca. La carne arrostita del souvlaki, lo sciabordio delle onde che si rompono sulla spiaggia, la musica suadente del bouzuki (il moderno erede dell'antica cetra) non possono non richiamare memorie omeriche. Il fascino dei luoghi, che il tempo ha lasciato immutati, completa la malia: si è trasportati indietro nei secoli e nei millenni. Volatili emozioni? Estetizzanti fantasie? No, non credo proprio. Come diceva Italo Calvino («chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo»), la voce dei classici è un canto antico e nuovo, una lingua arcana che colpisce con l'evidenza, e la riconoscibilità, di una madrelingua universale. Nell'Iliade troviamo l'alfa e l'omega dell'umanità. Troviamo noi stessi, il fondo della nostra anima.
«Il Sole 24 Ore» del 14 febbraio 2010

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