13 maggio 2010

Ora su "Avatar" si fa filosofia

Mentre è in uscita il dvd, il film di Cameron diventa oggetto di un saggio sulle sue implicazioni sociali e psicologiche. Perché ha segnato il "passaggio verso il post umano" E' in uscita in questi giorni il dvd di "Avatar", il film di James Cameron che ha rappresentato l'evento cinematografico del 2010. Contemporaneamente, in Italia, esce il primo saggio filosofico sulle implicazioni profonde, soprattutto di origine psicologico e sociale, determinate da questo film. Curato da Antonio Caronia e Antonio Tursi, il libro (Filosofie di Avatar, edizioni Mimesis) contiene contributi tra gli altri di Alberto Abruzzese e Derrick De Kerckhove.
s. i. a.

"L'espresso" anticipa qui di seguito l'intervento di Antonio Tursi
Avatar di James Cameron permette di affrontare due questioni filosofiche da cui non possiamo prescindere se vogliamo abitare il nostro presente. Due questioni che si intrecciano e che costituiscono sfide decisive per un pensiero politico all'altezza dei tempi. In breve e da subito possiamo enuclearle come la questione della soggettività e la questione dell'agire politico. In altri termini, Avatar permette di interrogarci su: chi è l'attore del nostro presente? Come sviluppa la sua azione in rapporto agli altri?
Affrontare queste questioni non è affatto un gesto originale, evidentemente. Sicuramente, non lo è nello sviluppo del pensiero filosofico. E anche il cinema non è sfuggito a questi interrogativi. Neppure il cinema più recente e, in particolare, quello compreso nel genere fantascienza. Detto questo, sorge perciò spontanea la domanda: qual è la novità mostrata da Avatar e dunque l'urgenza di soffermarsi su questo film?
L'urgenza filosofica non è data dai contenuti, dallo statement, ma da qualcosa che spesso la riflessione sull'arte e più opportunamente sull'industria culturale ha trascurato. Qualcosa che invece è determinante per entrare nei contenuti, per afferrare lo statement, per dispiegare in un certo modo gli interrogativi di cui sopra. Qualcosa che riguarda le immagini non nel loro valore rappresentativo, bensì nel loro valore di presenze ossia in quanto cose.
La cultura occidentale ha considerato le immagini come tramite verso altro, verso l'oggetto rappresentato. Una funzione rappresentativa che ha sempre richiesto distanza tra il soggetto-spettatore e l'oggetto della visione: ovvero una funzione che ha sempre imposto un atteggiamento di contemplazione. A questa imposizione non hanno rinunciato neppure immagini programmaticamente anti-rappresentative come quelle elaborate da molte avanguardie e neoavanguardie: lo spettatore – che in questo caso per accedere deve inoltre essere iniziato a immagini astratte – è comunque posto a distanza di sicurezza dallo spettacolo, dall'opera d'arte, definita nella sua cornice.
Eppure il bisogno di entrare dentro lo spettacolo, dentro l'opera, di essere protagonisti, è già stato qualche volta sollecitato: dalla moltiplicazione delle prospettive o dal trompe l'oeil nel Barocco all'Étant donnés di Marcel Duchamp, anche durante la modernità, le forme estetiche hanno tentato di rompere la cornice e di colmare la loro distanza dallo spettatore. Hanno tentato di farci rientrare in gioco. Ma un tale bisogno non è mai stato compiutamente soddisfatto, perchè – come ha evidenziato Walter Benjamin – determinati bisogni espressivi, pur sollecitati, trovano solo in tecnologie successive la possibilità di essere soddisfatti.
Questa è la novità di Avatar: soddisfare un desiderio globale di massa (atomizzata), quello di essere dentro lo spettacolo, di essere protagonisti dei mondi spettacolari, di essere performers. Un desiderio che è cresciuto e si è consolidato nell'ultimo quarto di secolo quando l'immersione dentro un nuovo mondo, il cybermondo, è diventata un'esperienza "vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione, da bambini a cui vengono insegnati i concetti matematici…". Un'esperienza che dai tentativi di realizzare una virtual reality con caschi, datagloves, sensori, si è normalizzata nella mixed reality in cui oggi ci muoviamo inavvertitamente.
Un desiderio, quello di immergersi, che non poteva essere realizzato altrimenti che aggiungendo una terza dimensione a quelle sulle quali ha sempre lavorato la cultura tipografica moderna. Una terza dimensione che, diversamente da quella visiva e del tutto illusoria della prospettiva rinascimentale, è tangibile, induce la manipolazione: una terza dimensione che sollecita ad allungare la mano per spostare qualche comparsa del film o a inclinare il busto per schivare qualche arbusto che ci si presenta di fronte esplorando le foreste di Pandora.
Ma la cifra tecnologica del 3D utilizzato da Cameron è basilare. Siamo solo agli inizi di un cinema – piattaforma consolidata – che ha saputo riconoscere un nuovo bisogno e ha deciso di rimettersi in gioco. Per soddisfarlo a pieno dovrà forse staccarsi dalla linearità narrativa a cui si è legato e potrà farlo sulla scorta dell'esempio di autori come Peter Greenaway e David Cronenberg. E siamo solo agli inizi anche di altri momenti espressivi che tentano il coinvolgimento immersivo (per esempio si è parlato già di partite di calcio e di sfilate di moda in 3D). Staremo a vedere quali nuove forme d'arte nasceranno (nel suo ultimo romanzo William Gibson, per esempio, parla di arte locativa). Per intanto, le "forme barbariche" del 3D di Avatar funzionano per consentire ai barbari nati con il computer di entrare dentro mondi spettacolari.
Cameron ha capito che il miglior modo per rispondere a una tale esigenza immersiva è quello di utilizzare il 3D e la stereoscopia per proporre un intero mondo immaginifico, Pandora. Infatti, il bisogno di immersione è più facile da soddisfare se è data la possibilità di immergersi in un nuovo habitat, un luogo in cui ritrovarsi e fare esperienza, e in particolare in un habitat di meraviglia. Lo zahelu, la connessione della treccia dei Na'vi con quelle di creature volanti o alberi sacri, annuncia che "siamo oggi sulla soglia di un'era nella quale animali, alberi e persino oggetti inanimati potranno interagire via internet". Con questi termini, già qualche anno fa, un economista descriveva l'Internet of Things oggi assai evoluto e diffuso. La connessione sensoriale mostrata da Pandora ci fa rivivere dunque la connessione della nostra realtà digitale. Anzi, l'interfaccia che noi usiamo per manipolare la nostra realtà (digitale) circostante è quasi evaporata. Non abbiamo bisogno di improbabili trecce per connetterci e neppure delle altre interfacce invasive esibite in passato dagli eroi del cyberpunk (tipo simstim o bioporte). Ci bastano le nostre mani e, forse, in futuro faremo a meno anche di quelle.
A proposito della nostra realtà digitale circostante si dovrebbe parlare di ilozoismo tecnologico. L'ilozoismo è una dottrina antica che afferma un'animazione, un movimento, una sensibilità della materia vivente. In questo senso, molti filosofi presocratici (da Talete a Eraclito) sono da considerare ilozoisti. La dottrina è ripresa dai filosofi della natura seicenteschi. Per Bernardino Telesio, il caldo e il freddo – cioè i due principi che agiscono nella "massa corporea" inerte – sono provvisti di sensibilità. Tommaso Campanella scrive un'opera dal titolo Del senso delle cose. E anche Giordano Bruno ne parla nei Dialoghi latini: tuttavia lo fa riconducendo l'ilozoismo al panpsichismo. Immanuel Kant oscilla tra questi due poli lì dove, nella Critica della facoltà di giudizio, parla di "vita della materia" come "la vita in essa, o anche mediante un principio ravvivante interno, un'anima del mondo". Questa oscillazione, questa riconduzione indebita (come anche quella verso il panteismo) è però da evitare con particolare cura in un discorso sulle tecnologie: in questo caso non è in gioco qualcosa come un'anima del mondo, bensì qualcosa di sensoriale, corporeo, materiale. Una sensibilità elettronica delle cose connesse.
La diffusione di microchip rende gli spazi quotidiani del nostro abitare vivi, capaci di interagire e reagire al nostro passaggio, di abbattere definitivamente le nostre quattro mura, di rendere confusa la distinzione tra qui e altrove, di rendere il qui altrove. L'aria che respiriamo è pervasa dall'azione ininterrotta di questi piccoli elementi smart, ne è raddensata. Dobbiamo prendere atto che siamo immersi in campi vivi di informazione, come siamo già immersi nei campi elettrici e nello smog delle nostre metropoli, come siamo immersi nel mondo meraviglioso di Pandora per i centosessantadue minuti del film.

Postumani
Jake Sully, il protagonista del film, dopo il primo innesto nel suo avatar, si lancia in una folle e gioiosa corsa: paraplegico, attraverso l'avatar, Jake ritrova le sue gambe, le sente. La sensazione è qualcosa che parte dall'esperienza concreta, da un'alterazione del corpo, dall'attivazione dei marcatori somatici. Dunque, Jake, attraverso la tecnologia, ritrova un corpo, ritrova ed espande la sua sensorialità. Ogni immersione avviene con il corpo. Forse un'osservazione banale. In ogni caso, un dato di fatto sulla base del quale avviare un'indagine sulla soggettività politica attuale. Due a riguardo i temi da sviluppare: in primo luogo, l'importanza del corpo per la definizione dell'identità; in secondo luogo, la ridefinizione del corpo nell'epoca della telematica e della genetica.
La civiltà occidentale ha abbassato una barra per dividere il corpo dall'anima, ciò che si presenta nella sua materialità da ciò che è intangibile, una res extensa da una res cogitans. Un distinzione per nulla naturale e non senza conseguenze. Infatti, essa è del tutto culturale, cioè elaborata in contesti nei quali questa distinzione ha riassunto valori. Ciò che è stato posto dal lato del corpo è stato connotato quasi sempre in modo negativo, come terreno e corruttibile. Questo è valso in entrambe le radici del pensiero occidentale, in quella greca (basti pensare a Platone) e in quella cristiana (valga per tutti il nome di Agostino). L'anima, per converso, è stata contrassegnata in positivo, come sovraordinata al corpo, eterea ed eterna. Grazie alla sua presenza, l'uomo ha potuto pensarsi capace di conoscenza razionale, superiore agli altri esseri, al centro dell'universo, addirittura fatto a immagine di un dio. Questa supposta superiorità ha giovato a giustificare il dominio dell'uomo su ciò che lo circonda: l'ambiente nel quale si trova ad abitare, gli animali che gli sono funzionali e i sotto-uomini, cioè coloro a cui non viene riconosciuto lo status di esseri umani. Per esempio, alle donne e ai neri per secoli non si è attribuita un'anima (o almeno un'anima razionale, il che è sempre valso lo stesso).
Dunque, mentre il corpo accomuna, l'anima divide. Ma è possibile pensare una parte spirituale dell'uomo, trascurando la presenza del corpo? A detta di neuroscienziati e studiosi della cognizione l'innesco dello stesso ragionamento è rappresentato dai sentimenti, dalle emozioni, dall'attivazione dei marcatori somatici, in definitiva dal corpo. "La mente del cervello, arredata dal corpo, governata dal corpo, è serva dell'intero corpo".
Dunque, Jake in quella corsa gioiosa non ritrova solo le sue gambe, ma ritrova una sensorialità globale che fonda la sua identità (nel suo caso, quella di un uomo d'azione essendo stato un marine). E lo fa attraverso la mediazione della tecnologia, quella capace di produrre il suo avatar. In questa produzione si palesa non l'hybris di una volontà di potenza capace di generare la vita, bensì la millenaria modalità di costruzione del nostro corpo, del corpo di noi umani. Questa modalità è l'ibridazione con ciò che ci circonda. Nella partizione proposta da Roberto Marchesini, l'ibridazione tra antroposfera, tecnosfera e teriosfera. Nel film di Cameron, quella tra il Dna degli umani, quello dei Na'vi e le tecnologie della riproduzione. Questo è l'orizzonte che oggi ci troviamo ad esplorare. Un orizzonte in cui non è possibile trascurare il contributo fondamentale per la costituzione dell'essere umano di quelli che erano definiti sotto-uomini, degli animali, dell'ambiente, delle tecnologie. Tutti contributi evidenziati da Cameron. Infatti, tra coloro che sono stati esclusi dalla de-finizione di umani spesso si sono ritrovati i diversamente abili come Jake, i diversi come i Na'vi, gli animali e le piante che in Pandora sono tutt'uno con gli indigeni, infine le tecnologie come quelle che permettono di creare un avatar e di abitare un altro mondo (nel quale gli umani non posso agire senza un filtro artificiale, quale l'avatar appunto, la maschera dell'ossigeno o l'esoscheletro macchinico).
Nell'evidenziare questa ibridazione, Cameron coglie un aspetto affatto straordinario. Avatar è un termine sanscrito per indicare la "discesa" del dio Vishnu in un altro essere (l'incarnazione per eccellenza è quella in Krishna, che tra l'altro nell'iconografia indù ha la pelle blu). Ma è tornato in auge grazie ai nuovi mondi aperti dalle tecnologie digitali, ultimamente grazie a Second Life. Noi abbiamo non uno ma molti avatar che agiscono in altri mondi (così come Vishnu ha diverse incarnazioni). Questi avatar entrano a costituire la nostra identità rappresentando un'estensione del nostro corpo, offrendoci la possibilità di essere presenti a distanza. Se declinassimo avatar in termini di maschere, potremmo affermare che ognuno di noi ha molte maschere con le quali agisce e interagisce in diverse situazioni: ma così non abbiamo più bisogno del riferimento ai mondi virtuali, poiché è abbastanza evidente che è grazie a queste maschere che agiamo e interagiamo nel mondo di tutti i giorni (come ha mostrato Erwing Goffman).
In definitiva – ci si perdoni il gioco di parole – ciò che percepivamo come naturale si rivela artificiale e, viceversa, l'artificio si rivela il tratto peculiare (naturale?) del nostro esserci: noi siamo Na'vi artificiali, avatar appunto.

Una sfera di emozioni
L'attore politico del presente lo si incontra dunque all'incrocio tra vicende del corpo e vicende della tecnologia. Una tecnologia che, tramite i suoi codici digitale e genetico, porta al centro della scena i corpi, i loro bisogni, le soggettività che li rappresentano. I corpi dei giovani delle banlieue francesi, carichi di tecnologie mediali, in rivolta nell'autunno del 2005 o l'attenzione pubblica al corpo di Eluana Englaro, corpo che per anni è stata relegato nella dimensione privata, indeboliscono i principi sui quali si è articolata la politica moderna. Mentre molti in Europa continuano a "credere che basti insegnare agli uomini a leggere e scrivere per farne subito dei cittadini", la politica contemporanea mostra in modo peculiare come la sua dinamica sia innescata dal coinvolgimento emotivo, dall'immersione nelle vicende della comunità, dalle esperienze della vita quotidiana.
Questa consapevolezza induce a cogliere un modello emergente di azione politica diverso da quello promosso dai classici del pensiero liberal-democratico moderno. Saltano alcune forme e alcuni stilemi della partecipazione politica consolidatasi negli ultimi due secoli. Ne emergono altri: la condivisione di un sentimento di appartenenza, di un sentire comune più che il prevalere della soluzione razionale; il confronto orizzontale e empatico più che gerarchico e argomentato. Su queste basi si riarticola la sfera pubblica contemporanea.
Avatar, pur non esprimendo una dinamica di fluidificazione democratica del potere, fa intravedere questi due diversi modelli di partecipazione e decisione politica, che sono anche due diversi modelli comunicativi. Condensati in scene riguardanti il momento eccezionale in cui si decide della guerra (perché la politica continua a manifestarsi a pieno nello "stato d'eccezione" come ha insegnato Carl Schmitt). Quando gli umani decidono di muovere la battaglia decisiva contro il totem della comunità Na'vi, la scena è quella in cui i rappresentanti del complesso industrial-militare, cioè il colonnello Miles Quarich e l'amministratore della RDA Parker Selfridge, impartiscono decisioni a militari e tecnici seduti ordinatamente in una sorta di aula con banchi e lavagna, dunque instaurando con essi una relazione frontale e distaccata e argomentando le difficoltà e l'importanza della prossima battaglia. Al di là del non pur trascurabile fatto che l'avamposto umano su Pandora rappresenta un contesto autoritario, la valutazione di costi e benefici, di mezzi e fini disegna un modello astratto del processo politico, da cui sono rimosse "tutte le condizioni empiriche (la dottrina della felicità) come materia della legge". In cui le istanze dei corpi, tanto quelli dei nativi quanto quelli degli umani, sono messe a tacere a fronte di altri interessi, quelli appunto del complesso industrial-militare (rappresentato in modo semplicistico ma forse non privo di efficacia nel far avvertire al pubblico globale i rischi dell'agire predatorio del capitalismo). La comunicazione, in questo caso, è pura trasmissione unidirezionale e verticale da uno a molti ricettori passivi. Al contrario, sotto l'albero sacro i Na'vi discutono animosamente e decidono sulla base del vincolo empatico che li unisce in comunità. In questo caso, comunicazione equivale a comunione: il confronto pubblico ravviva il senso profondo dello stare insieme. Il modello comunicativo è orizzontale e circolare: è una rete di interrelazioni a tenere insieme una comunità. Riemergono alla memoria i montanari di Ginevra che, riuniti all'ombra di un albero, decidevano senza indugi cosa fare per il bene della loro città. E su questo esempio, Rousseau tracciava un profilo della sfera pubblica assai diverso da quello promosso dall'allora borghesia imperante, un profilo secondo il quale i costumi, le consuetudini, l'opinione – cioè la specie più importante di leggi – non sono incise "né nel marmo, né nel bronzo, ma nel cuore dei cittadini".
Questo modello rappresenta una sorta di panacea per una politica democratica oggi evidentemente in crisi? Sarà l'agire politico da buoni selvaggi a salvarci? Non riconoscere le basi emotive del comportamento politico equivale a non capire la politica, nel presente come nel passato. Ma nel presente tale riconoscimento è al contempo più importante e più semplice che nel passato. Infatti, mai come oggi la promessa della democrazia moderna di rendere tutti cittadini, mostra tutta la sua mancata realizzazione, tanto che "fine della democrazia" o "postdemocrazia" sono ormai divenute espressioni à la page. Dunque, la politica bisogna rilanciarla iuxta propria principia, a iniziare cioè dal ruolo del corpo e dei suoi interessi materiali, quotidiani, per qualcuno banali. I media ne amplificano la portata propagandando le emozioni da un capo all'altro del globo e in tal modo disegnando una vera e propria "geopolitica delle emozioni", una politica fondata su paura, umiliazione, speranza. Ma in questo modo si rischia di applaudire la democrazia "di una emozione collettiva al tempo stesso sincronizzata e globalizzata, il cui modello potrebbe essere quello di un tele-evangelismo postpolitico".
Un tale regime dissolverebbe l'opinione pubblica in "un'emozione collettivisticamente istantanea", in "un'emozione transpolitica" sincronizzata su scala globale.
Per evitare un tale rischio ma nello stesso tempo per rispondere alle istanze delle soggettività emergenti, bisogna pensare quadri giuridici all'altezza dei tempi, istituzioni che sappiano prendere in carico la vita nelle sue mille sfaccettature e contraddizioni, che sappiano intervenire o meno a seconda delle circostanze, senza disinteressarsi dunque della vita e nello stesso senza volersene impadronire. Si tratta di fare emergere "una istituzionalizzazione a bassa intensità" che sappia tradurre emozioni in diritti. Le modalità di una tale istituzionalizzazione si stanno faticosamente mettendo a punto nella nostra epoca di mezzo tra un ordine che appartiene ormai al passato – quello fondato sugli Stati-nazione – e qualcosa che dia senso al disordine attuale.
Noi cittadini di un mondo globalizzato ne avvertiamo, però, sempre più l'esigenza. Il buon selvaggio, invece, difficilmente riconosce la sua qualità artificiale, la sua maschera, l'opportunità di avvalersi di mediazioni linguistiche e dunque la necessità di tracciare precedure decisionali.
I Na'vi di Cameron non fanno eccezione, anzi esaltano un'immagine nature. Forse però nei preannunciati sequel li vedremo con una più accentuata dotazione tecnologica e dunque più propensi a dotarsi di quelle mediazioni istituzionali che ne possono favorire l'agire in comune.
«L'Espresso» del 4 maggio 2010

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