19 maggio 2010

Morto il poeta Edoardo Sanguineti, uno dei fondatori del Gruppo 63

di Oreste Pivetta
Che anche Sanguineti se ne sia andato mette profonda tristezza, che se ne sia andato appena ottantenne, quando ancora molto avrebbe potuto darci dopo quanto già elargito senza risparmio in età più giovani, con generosità, perché Edoardo era un uomo mite, paziente e soprattutto generoso, attento alle domande degli altri e alle nostre di semplici redattori dell’Unità, che gli chiedevamo telefonando: «Professore, ci scrivi un pezzo…». E incoscienti gli proponevamo una volta un commento a una terzina dantesca, un’altra una critica a un testo gramsciano sulla critica e un’altra ancora una poesia sul Natale, tanto, si diceva, per festeggiare in modo intelligente. Ci consegnò una poesia nuova nuova anche per il Ferragosto. Andava a comporre un inserto poetico, che presentava versi immaginati e scritti per l’Unità di Giovanni Giudici, Raboni, Zanzotto, Porta, Bertolucci, Luzi, Cucchi, Volponi, Caproni e alcuni altri, ai quali negai qualsiasi compenso: era un lavoro certo poetico, comunque per il partito.

IN DIFESA DE «L’UNITÀ»
Sanguineti, magari assonnato, magari scosso al nostro appello dalla carissima moglie Luciana, non si negò mai alle nostre telefonate. Solo in una occasione mi promise un articolo a proposito di non so più quale opera capitale della letteratura mondiale, me lo promise e me lo ripromise. Ma non l’avrò mai. Sanguineti nutriva affetto per l’Unità e, di conseguenza, per noi e gli capitò pure di difenderci risolutamente quando Nello Ajello, sull’Espresso, accusò il giornale e quindi i suoi «scrittori», redattori e collaboratori, di far uso di un linguaggio oscuro, incomprensibile alle «masse operaie».
Sanguineti s’inventò una lettera a Cipputi, l’operaio di Altan, e scrisse, tra le tante cose: «Anche a me, guarda, piacerebbe scrivere in nellajellese, che è una lingua stupenda, e riuscire “chiarozo chiarozo”, come predicava Bernardino da Siena. Ma tante volte, non ce la faccio. E quel che è peggio non ce la faccio apposta. Ho scritto, è vero, io stesso me medesimo, che l’Unità ha da essere ideologicamente chiara, politicamente limpida. Anzi, è questo, secondo me, tutto il vero problema. Ho persino scritto, dal mio pulpito, che l’”austerità linguistica” può essere un programma seducente. Ma anche ho detto, che non deve essere un progetto “moralisticamente sacrificale”. Perché l’Unità è anche, tra le tante cose, un luogo di socializzazione dei beni linguistici».
Proseguiva sostenendo che non di solo “nellajellese” vive l’uomo, ma anche, di tempo in tempo, di capricci verbali, di stravaganze lessicali, di bizzarie espressive, le invenzioni del suo estremismo verbale, che rimandava alla sua neoavanguardia, al suo Gruppo 63, agli esperimenti messi in campo per sottrarsi alla cultura borghese, per sconvolgere il suo linguaggio, per sottrarre l’arte al circolo del consumo. Un’impresa disperata, anche per lui, che, forte di una premessa teorica che lo legava alla tradizione materialista, alle scienze sociali, a Lukacs e a Walter Benjamin, al marxismo critico italiano, non cessò mai nel tentativo di limitare i danni, senza intaccare il suo rigore morale e svelando quindi la contraddizione somma sofferta: accorgersi come anche l’arte delle sue avanguardie fosse destinata a disperdersi tra i banchi del mercato o a rinsecchirsi nelle sale museali.
Reagì con l’impegno etico, ideologico e politico, impegno che lo condusse alla militanza nel Pci, partito che secondo lui interpretava allora una mediazione tra i valori offesi dal capitalismo e le esigenze più liberatrici della modernità. Visse la sua militanza senza risparmio, identificandosi con le istanze collettive del partito, attivo nell’organizzazione, parlamentare per quattro anni (dal 1979 al 1983). Fino a dover constatare la crisi di un progetto di fronte ai profondi e spesso devastanti cambiamenti della società, ritrovandosi in un certo senso, come lui stesso ammetteva nel suo scetticismo, «fuori luogo», senza mai abbandonare però la sua «missione» (La missione del critico è il titolo di uno dei suoi libri più celebri), ma considerandola in modo spregiudicato ormai estranea alla realtà del presente.
Ricordando Edoardo Sanguineti si dovrebbe scrivere che fu poeta, romanziere, critico letterario, teorico della letteratura, che fu un intellettuale secondo un’idea di responsabilità politica e culturale, di rigore morale e di coerenza. Per questo, per la «totalità» del suo impegno, lo potremmo anche noi considerare «fuori luogo»: alla notizia della sua morte abbiamo pensato all’estraneità del suo lavoro, della sua intelligenza, della sua sapienza rispetto a questo mondo ridotto al peggio nell’omologazione, nell’appiattimento, nella caduta dei valori, nella propagandata cosiddetta fine delle ideologie.

VITA E OPERE
Sanguineti aveva ottant’anni. Era nato a Savona nel 1930. Aveva studiato all’università di Torino, dove si era laureato in letteratura italiana con Giovanni Getto. Aveva quindi iniziato la sua carriera universitaria, insegnando prima a Salerno e poi a Genova. Negli anni sessanta si ritrovò nella collaborazione al Verri e nella nascita del celeberrimo Gruppo 63, insieme con Luciano Anceschi, Umberto Eco, Angelo e Guido Guglielmi, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Enrico Filippini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani.
Dal gruppo uscirono le riviste, prima Marcatrè e poi Quindici. Sanguineti trovò la via della critica militante anche sui quotidiani, Paese Sera, l’Unità, il Secolo XIX. Cominciò negli stessi anni una intensissima produzione poetica. Esordendo nel 1956 con Laborintus, testo centrale per lo sperimentalismo anni sessanta, proseguendo con Triperuno, Wirrwarr (dal tedesco: confusione), Reisebilder (visioni di viaggio), Segnalibro, Postkarten, Stracciafoglio. Densissima la sua elaborazione critica con scritti su Dante, sui poeti italiani da Pascoli a Gozzano, sui futuristi, sulla poesia contemporanea. Scrisse due romanzi: Capriccio italiano (del 1968) e il Gioco dell’Oca, il primo con tratti autobiografici, il secondo di pura invenzione strutturale. Produsse per il teatro, curò la riduzione teatrale dell’Orlando furioso per lo spettacolo di Luca Ronconi e libretti musicali per Luciano Berio...
Così, sommariamente, ricordo Edoardo Sanguineti. Bisognerebbe leggerlo per capire. Basterebbe un libro semplice come Ghirigori (raccolta di interventi apparsi sui suoi giornali) per avere un’idea della sua intelligenza, del suo modo di riflettere e di analizzare, con il gusto dell’entomologo a ricercare il più insignificante particolare per porre i giusti quesiti. Come nelle pochissime pagine degli Appunti di didattica letteraria. Dove ad esempio ci spiega che la storia letteraria non esiste ed esiste invece, per citare Marx, la storia tout court. Ironico, irriverente, dissacrante, geniale nella semplicità. Come, purtroppo, non s’ascolta più.
«L'Unità» del 18 maggio 2010

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