07 maggio 2010

Michelangelo «spiritualista»

Un’analisi di Crispino Valenziano delle radici teologiche dei dipinti di san Paolo e san Pietro nella Cappella Paolina rintuzza il dubbio che l’artista fosse «protestante»
di Michele Dolz
Il 13 ottobre 1449 Paolo III si ar­rampicò per l’ultima volta sui ponteggi della Cappella Paolina nel Palazzo Apostolico, che egli ave­va voluta affrescata da Michelange­lo. I due grandi dipinti, di oltre sei metri di lato, non erano ancora ulti­mati ma splendevano già della po­tenza figurativa del genio, non diversa da quella mostrata nel grande Giudizio Universale. Papa Paolo ri­cordava bene il fasto con cui aveva scoperto otto anni prima quella che chiamava «Parusia della Seconda Venuta», ma non sarebbe arrivato a inaugurare i nuovi affreschi, perché morì un mese dopo. Quella volta, sugli spalti, aveva trovato un Miche­langelo stanco, rattristato, si direbbe quasi invecchiato. Ma sereno. Il 27 febbraio 1547 gli era morta Vittoria Colonna, la donna con la quale ave­va trovato un’intesa intellettuale e spirituale profonda. Il Condivi scris­se: «Egli amó grandemente la Mar­chesana di Pescara, del cui divino spirito era inamorato, essendo al­l’incontro da lei amato sinceramen­te (…) A Roma se ne venne non mossa da altra cagione se non di ve­der Michelagnolo; e egli all’incontro tanto amor le portava che (…) per la costei morte più tempo se ne stette sbigottito e come insensate». Le let­tere, le poesie e i disegni scambiati tra i due ne sono eloquente testimo­nianza.
Ora con tempestiva accortezza do­po il restauro degli affreschi, Crispi­no Valenziano pubblica una serrata analisi dell’opera, che vuole andare alle sue radici teologiche: San Paolo e San Pietro di Michelangelo nella Cappella Paolina in Vaticano (Libre­ria Editrice Vaticana, 101 pagine, 14,50 euro). Intanto si può essere d’accordo, come molti hanno già in­dicato, nel vedere il ritratto del tormentato artista nei volti di san Pao­lo caduto dal cavallo e di un perso­naggio che medita, come in dispar­te, nella crocifissione di san Pietro.
Molto assomigliano al Nicodemo della Pietà di Firenze. Quell’uomo e­ra stato nominato da poco capo del­la Fabbrica di San Pietro e, dal cuore della cristianità, seguiva con atten­zione lo svolgersi del Concilio di Trento, apertosi nel 1545. Nel feb­braio 1546 era morto Lutero.
Una domanda relativa a questo pe­riodo michelangiolesco ha attraver­sato la storia dell’arte: il circolo di Vittoria Colonna aveva tendenze protestanti? A volte sembra una do­manda strumentale all’intorbidamento delle acque nell’arte cristia­na. Certo è che un cenacolo della Colonna veniva chiamato a Roma, che se ne parlasse a favore o contro, la «chiesa viterbese». Ma leggendo le lettere si scopre che il gruppo spicca­va semmai per una spiritualità molto forte e intima e per una apertura menta­le non comune nella Roma dell’epoca: «…aspettar con pre­parato animo sub­stantiosa occasione di servirvi, pregando quell Signore, del quale con tanto ar­dente et humil core mi parlaste al mio partir da Roma, che io vi trovi al mio ritorno con l’i­magin sua sì rinovata et per vera fe­de nel anim vostra, come ben l’ave­te dipinta nella mia Samaritana», scriveva Vittoria.
Del gruppo faceva parte anche Regi­nald Pole, cugino di Enrico VIII al quale aveva tentato d’impedire un’avventura troppo pericolosa.
Paolo III lo aveva voluto nella com­missione De Emen­danda Ecclesia, car­dinale e legato pa­pale al Concilio. Suo fu il discorso inau­gurale. Ma si dovet­te persino allontare temporaneamente perché trovò molti avversari nell’ala ri­gorosamente tradi­zionalista. Oggi si può dire che la sua posizione sul tema del momento, la giustificazione, era ben ortodossa, ma che egli era «conciliatorista», va­le a dire non trovava giusto la sem­plice respinta delle tesi luterane senza tentare neanche un ap­profondimento dialogico. Teologi­camente, la conclusione della com­missioni mista di teologi protestanti e cattolici del 1999 - purtroppo poco nota - gli ha dato ragione. Pole e I suoi amici vivevano un radicale spiritualismo, ma nell’obbedienza alla chiesa di Roma. Tutto ciò traspare negli affreschi. La caduta di san Paolo è il trionfo della grazia, con un Cristo che si tuffa dal cielo preceduto da una luce abba­gliante. La grazia inonda Paolo, ma la mano sinistra di Cristo indica la città di Damasco (che potrebbe assomigliare alla Roma classica): là ti verrà detto cosa devi «fare» (le ope­re). La fede, insomma, non à mai di­sgiunta dalla carità, pena la sua stessa morte. E l’apostolato è la più grande carità. Questo sembra dire l’affresco. In quello di Pietro fu Mi­chelangelo stesso a cambiare sog­getto: non la chiamata, come voleva il papa, ma il martirio, l’opera su­prema in risposta alla fede. Entram­be furono composizioni innovative.Un esempio per tutti i dipinti di sog­getto simile di Caravaggio, conside­rando però la versione Odescalchi della conversione di Paolo.Notevole questa inquadratura di Va­lenziano, che va a evidenziare l’uni­co modo per comprendere la deco­razione della cappella.
«Avvenire» del 7 maggio 2010

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