12 maggio 2010

L'iPod fa male alla democrazia?

Obama ha ricevuto una laurea ad honorem alla Hampton University
di Mario Baudino
Il monito lanciato domenica da Barack Obama rimette in discussione la fiducia nella Rete
Il presidente Obama non è certo un nemico delle nuove tecnologie, e in particolare della Rete, anche se, come afferma scherzando nel discorso tenuto agli studenti dell’Università della Virginia, non sa far funzionare iPod, iPad, Xboxe e Playstation. La sua battaglia - vinta - per portare il Blackberry alla Casa Bianca, e poter quindi accedere direttamente alle e-mail, cosa impensabile per un presidente degli Usa fino al giorno prima della sua elezione, lo dimostra ampiamente. Eppure, proprio nel discorso tenuto l’altro giorno ha fatto un’affermazione, quella che riportiamo in grande qui a fianco, molto forte e per certi versi inattesa. Ha puntato il dito non solo sui giocattoli, ma anche sul «media environment», su una situazione cioè in cui veniamo «bombardati da ogni tipo di contenuti» ed esposti «a ogni tipo di argomenti, alcuni dei quali non raggiungono il livello della verità».
Proprio mentre si moltiplicano gli appelli per il Nobel per la pace a Internet (in Italia sostenuto da personaggi del mondo politico e intellettuali di ogni formazione, da Umberto Veronesi a Gianfranco Fini), il Presidente degli Stati Uniti dice in sostanza che la «democrazia virtuale» è una minaccia per quella reale. Non il primo a sostenerlo, ma intorno al Web 2.0 esiste un consenso larghissimo, dove le voci più caute tendono a perdersi. Quasi un «pensiero unico». Qual è la portata del sasso scagliato da Obama? Giuseppe Granieri, docente a Urbino e autore di molte pubblicazioni sull’argomento (da La società digitale a Umanità accresciuta, come la tecnologia ci sta cambiando, entrambe edite la Laterza), invita a leggere con attenzione anche quel che segue. Poco dopo, infatti, il Presidente Usa osserva che «non possiamo fermare questi cambiamenti, ma possiamo incanalarli, dar loro forma, e adattarci a essi». E cioè regolarli.
Proprio qui sta il difficile. «Nessuno di noi è in grado di dire come si struttureranno le nostre società nell’ambito di questo tipo di informazione», osserva Granieri. L’allarme, se così possiamo chiamarlo, ha perciò «una sua fondatezza», però il fenomeno è talmente grande e complesso «da non poter essere chiuso in una sola frase». Il nostro cervello si adegua agli strumenti nuovi che di volta in volta compaiono sulla scena: «il problema è come si adeguerà questa volta». Anche nel campo di maggior interesse, quello della democrazia; che si basa ovviamente sul modello del cittadino informato, responsabile delle proprie decisioni: che, in qualche modo, nasce con la libera lettura della Bibbia, con un gesto di libertà che fu osteggiato in ogni modo per il timore dell’anarchia. Il sorgere di Internet è stato salutato come qualcosa di molto simile, la luce che squarcia le tenebre per usare le parole del sociologo canadese Derrick De Kerckhove. E ora?
«In effetti la fiducia nel binomio Internet-democrazia, indiscussa nei primi tempi, è andata scemando - dice ancora Granieri -. Si è visto per esempio come i regimi autoritari riescano a usare la Rete per i loro fini. Inoltre è emerso che la “massa” tende a individuare con precisione i problemi puntuali, di tutti i giorni, ma non quelli generali». Quella che per Pierre Lévy, sociologo e guru della Rete, è la «cyberdemocrazia planetaria» potrebbe rivelarsi una pericolosa utopia. Il rischio è che Google, anziché liberarci, ci renda «più stupidi», come ha scritto Nicholas Carr in un saggio molto discusso? «Noi forniamo strumenti per trovare informazioni on line - risponde Marco Pancini, responsabile delle “policy” del grande motore di ricerca -. Diamo un aiuto agli utenti nel momento in cui ne hanno bisogno. La critica di Carr è interessante, ma risponderei che non è Google a renderci più stupidi, semmai l’uso che ne possiamo fare. Non abbiamo la pretesa di fornire risposte, vogliamo anzi rimanere neutri, per esempio in rapporto all’informazione, che noi ci limitiamo a indicizzare».
Il discorso di Obama affronta questioni di fondo, Google vuole dare, insiste Pancini, «risposte pratiche e pragmatiche». Tutto qui? No, risponde Gianni Riotta. Il direttore del Sole 24 ore, che ha condotto col suo giornale una campagna sull’affidabilità e le regole nel cyberspazio, pubblicherà da Einaudi, in autunno, un libro dedicato al tema della verità su Internet. «C’è un problema di fondo: nel momento in cui la comunicazione di massa si sposta su Internet, come garantiamo un dibattito libero e obiettivo?». In realtà, aggiunge, Obama non ha cambiato parere: già nel suo manifesto politico insisteva sul fatto che l’arena politico-comunicativa era diventata il luogo di uno scontro tra gladiatori. «E diceva: torniamo ad ascoltarci. Ora Internet sta però diventando proprio questo: un luogo dove i gladiatori avvelenano i pozzi. Continuando così resteranno pochi giganti monopolisti, come Google o Facebook, e una miriade di blog che odiano il resto del mondo. La vera sfida, allora, è portare in Internet la tradizione migliore del giornalismo».
Quando esisterà solo la Rete e scomparirà anche L’ultima copia del New York Times, come nel titolo del libro di Vittorio Sabadin, tra i primi in Italia ad affrontare questi temi, il cittadino sarà più o meno informato? Sarà davvero cyberdemocrazia? «In realtà sono sempre più d’accordo con Nicholas Carr - risponde l’autore -. Ci stiamo disabituando al pensiero profondo, e anche a leggere testi lunghi. Google ci costringe a “surfare” in continuazione senza mai venire a capo di nulla. L’informazione ha sempre più bisogno di qualcuno che metta in ordine, certifichi, dia credibilità. E questo lavoro si chiama giornalismo».
«La Stampa» dell'11 maggio 2010

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