22 maggio 2010

«La vita della Rete? È realtà»

Il sociologo Giuseppe Romano: «Internet e i social network sono spazi concreti, dove avvengono e si dicono cose vere Ecco perché anche lì è urgente educare alla responsabilità»
di Viviana Daloiso
Credere che ciò che accade su Face­book, e in generale in Rete, non sia realtà. Non rendersi conto che tut­to quello che viene messo in comune, 'condiviso', diventa pubblico, assumendo un significato diverso e più ampio, socia­le. La radice dei due drammatici casi di cro­naca di ieri va ricercata nell’inconsapevo­lezza circa il peso di ciò che avviene onli­ne. Un dato che troppo spesso, secondo il sociologo Giuseppe Romano, accomuna giovani e adulti.

Professore, Facebook è entrato – anche se in modi diversi – nei due gesti estremi compiuti dai giovani di Genova e di San Donà di Piave. Una coincidenza?
Ovviamente no. Anzi, a dire il vero mi sem­bra che i due fatti siano accomunati dalla stessa problematica: non abbiamo anco­ra capito che ciò che succede in Rete, ciò che si dice, si ascolta, si discute su Facebook – e sui social network in generale – è realtà.

Cosa intende dire esattamente?
Si parla ancora di 'realtà virtuale', come se ciò che accade online fosse astratto, leg­gero, come se la Rete fosse un luogo so­vranazionale in cui non esistono leggi o re­sponsabilità. Il ragazzo di Genova, per e­sempio, è arrivato a tentare il suicidio per­ché con evidenza non pensava che il suo gesto, riportato su Facebook, potesse ave­re simili conseguenze nella realtà. Mentre a San Donà di Piave l’altro ragazzo ha ur­lato il suo dolore online, ma evidentemente nessuno ha pensato che si trattasse di un grido reale, qualcosa che potesse avere conseguenze vere, nella vita concreta.

È in questo cortocircuito che trovano spa­zio, dunque, tragedie simili?
Sì. E ovviamente in quello che il cortocir­cuito genera: se infatti non viene ricono­sciuta a Internet la sua potenzialità reale, la sua dimensione sociale concreta, non si riconosce nemmeno l’importanza di quel­le regole di civiltà e di responsabilità che in ogni contesto sociale e di relazioni debbo­no esistere. In questo senso, purtroppo, Fa­cebook è rimasto proprio fermo a quello che significa il suo nome: un 'libro-fac­cia', in cui si spiattellano informazioni, gossip, segreti ma in cui non esiste un’in­terazione matura, in cui non c’è ombra di umanità e di rispetto.

Cosa fare, dunque, per prevenire gesti e­stremi?
Capire, noi adulti per primi, che ciò che avviene online ha un’eco reale oltre che tecnologico. E poi insegnarlo ai ragazzi, spiegando anche che non è più 'mio' quel­lo che metto in comune. Anche l’aspetto pubblico di ciò che avviene in Rete troppo spesso viene sottovalutato: con evidenza non esiste più un’area di gioco o di azione privata, ciò che si dice viene ripetuto, tut­ti ne parlano, tutti lo ascoltano o – come drammaticamente nel caso veneto – nes­suno lo ascolta. Ma di nuovo sta lì, nella piazza della realtà, e come tale ha un peso.
«Avvenire» del 22 maggio 2010

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