15 maggio 2010

La palese noncuranza di Facebook per la privacy

di John Gapper
Facebook è tra le più potenti società Internet al mondo; forse è la più potente in assoluto insieme a Google. Ha 400 milioni di utenti, 35 milioni dei quali vi si connettono almeno una volta al giorno. È il sito Web più visitato negli Stati Uniti. La sua offerta pubblica iniziale, che si prevede avverrà entro un anno o due, potrebbe essere la più importante della Silicon Valley dall'Ipo di Google avvenuta nel 2004.
Facebook dunque è importante non soltanto per gli investitori, ma per chiunque sia interessato al futuro di Internet. Il che, in pratica, significa tutti noi. Se dovesse decidere di "fare la cattiva" – volendo usare le parole che Google utilizza per chi inganna o fa il furbo con i suoi clienti – allora a subirne le ripercussioni sarebbero milioni di utenti.
Purtroppo, Mark Zuckerberg, il venticinquenne che a suo tempo fondò Facebook come social network privato per gli studenti di Harvard, di recente ha dimostrato una noncuranza che rasenta il disprezzo totale nei confronti dei diritti degli utenti di Facebook a mantenere sotto controllo i propri dati personali.
Non soltanto Facebook ha progressivamente intaccato i diritti alla privacy dei suoi utenti, ma oltretutto lo ha fatto anche in modo ambiguo e poco trasparente. I controlli di Facebook sulla privacy ormai sono talmente complessi e difficili da capire che molti utenti sono stati indotti a "condividere" un bel po' di informazioni, proprio come Zuckerberg auspica.
«Stiamo lavorando per una Rete nella quale il default è sociale» ha dichiarato il mese scorso a una conferenza di esecutivi, implicando, in pratica, che Facebook condividerà le informazioni degli utenti con altri siti Web - che inizialmente comprendevano Pandora, il sito di musica, e Yelp, un sito che raccomanda le piccole aziende - a meno che essi non intervengano con decisione per fermarli.
Per lo meno Zuckerberg ha parlato chiaramente, in modo diverso dal dicembre scorso quando in una lettera aperta scrisse che "il nostro lavoro per migliorare la privacy continua anche oggi". In quell'occasione in realtà omise di rendere noto che appena otto giorni dopo avrebbe trasformato sei dati del profilo di ogni utente – per esempio il sesso, il luogo di residenza e l'elenco degli amici – in "informazioni accessibili a tutti".
Se gli utenti di Facebook potessero scegliere liberamente, potrebbero barrare l'apposita casella e accettare in ogni caso di rendere visibili quelle informazioni. La sua visione di "grafico aperto", nella quale gli utenti di Facebook visitano e usano le applicazioni di altri siti Web che hanno link con i loro profili perché il servizio è tagliato su misura per loro, piace e affascina.
Per i siti del suo programma pilota, ciò significa che gli utenti di Facebook potranno per esempio vedere automaticamente i ristoranti raccomandati dai loro amici quando visitano Yelp, oppure ascoltare la musica e le band da loro preferite quando visitano Pandora. I software cookie immessi nei computer da Facebook li identificheranno automaticamente ai siti Web partner.
Gli utenti di Facebook in futuro potranno trovare a portata di mano i libri letti dai loro amici o i regali che hanno fatto, sulla base della loro residenza, per esempio quando visiteranno un sito di vendita al dettaglio online come Amazon. Se Facebook non sarà subissato dalle proteste, questo progetto pilota verosimilmente si espanderà.
Alcuni utenti troveranno utili queste funzioni, altri le riterranno esecrabili, a seconda delle opinioni personali che nutrono nei confronti dei software di controllo e di condivisione delle informazioni. Ciò che è fuor di dubbio, in ogni caso, è che i consumatori dovranno avere la possibilità di scegliere chiaramente e comprensibilmente come saranno utilizzati i loro dati personali, così da poter decidere a ragion veduta.
In relazione a quest'ultimo requisito, Facebook sta venendo meno in modo palese e deprecabile. Sta indubbiamente rispettando le leggi vigenti (quantunque parecchi movimenti di protezione della privacy abbiano fatto presente alla Commissione federale del commercio che le cose non stanno proprio così), in quanto non fornisce informazioni strettamente personali agli inserzionisti, ma è altrettanto vero che non agisce nella massima trasparenza.
A parte la difficoltà di tenere riservate le informazioni e di istituire barriere adeguate, Facebook sta violando le intese già intercorse, agganciando i suoi utenti ai suoi servizi con la promessa di rigorosi controlli sulla privacy, per poi informarli che qualche disguido può capitare e che sono loro a doversi adattare.
L'Electronic Frontier Foundation ha pubblicato un prospetto che mostra in che modo sia andata cambiando ed evolvendo la politica della privacy di Facebook, dalla sua promessa del 2005 di non condividere con nessuno le informazioni personali - eccezion fatta per un numero definito di persone o di gruppi - all'odierno avvertimento di sapore orwelliano che "quando vi collegherete a un'applicazione o a un sito Web, questo avrà accesso alle Informazioni Generali che vi riguardano".
Zuckerberg ha difeso le attuali procedure affermando che gli standard della privacy online sono in continua evoluzione e che i giovani oggi vogliono condividere molto più che in passato. Tutto ciò è, nel migliore dei casi, disonesto e non giustifica l'omessa informazione e le dovute comunicazioni agli utenti.
Supponiamo per un momento che gli utenti di Facebook siano disposti effettivamente a investire considerevole tempo e sforzi per comprendere i graduali cambiamenti di idee e di politica di Zuckerberg e che decidano di fidarsi e trasmettergli i loro dati: come possono essere realmente sicuri ed escludere che in futuro egli non cambierà ancora una volta le regole del gioco con la medesima sconsideratezza?
Zuckerberg non è il solo ad agire così nella Silicon Valley. I social network e le aziende online spesso offrono servizi gratuiti agli utenti e soltanto a posteriori affrontano la sfida di dover rendere "redditizi" i loro utenti per soddisfare i venture capitalist che li hanno finanziati.
Perfino Google - così redditizia - ha fatto ricorso a tattiche per lo meno controverse quest'anno, quando ha cercato di entrare in concorrenza con Facebook e Twitter lanciando il suo social network denominato Google Buzz. Al momento del lancio della nuova iniziativa ha utilizzato il default per linkare gli utenti di Gmail alle persone alle quali avevano inviato di frequente messaggi di posta elettronica, e ha fatto dietrofront soltanto in seguito alle numerose proteste.
Per agire con senso di responsabilità e riconquistare la fiducia perduta, Facebook dovrà fare alcune cose basilari. Dovrebbe fornire controlli sulla privacy più semplici e più intuitivi, e applicarli. Dovrebbe spiegare con chiarezza come intende distribuire "le informazioni disponibili pubblicamente" e quali saranno i limiti di questo uso, e non fino a quando cambierà idea definitivamente.
Ora come ora, Zuckerberg, che domani compie 26 anni, dà l'impressione di non dare granché importanza alla privacy. Che avvenga tramite proteste, cause legali o normative specifiche, dovrebbe essere indotto a farlo.

The Financial Times Limited 2010 (traduzione di Anna Bissanti)
«Il Sole 24 Ore» del 13 maggio 2010

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