08 maggio 2010

I “fascisti del terzo millennio” spaventano solo i loro illiberali censori

Al sit-in di CasaPound
di Marianna Rizzini
Chissà se la sorridente comitiva di turisti giapponesi che si fa fotografare davanti a uno striscione di “Blocco studentesco”, che fa capo a CasaPound, sa dove si trova. Chissà se i viaggiatori del venerdì che solcano la piazza con il trolley sanno di solcare pure la molto contestata manifestazione stanziale di piazza Esedra, quella dei “fascisti del terzo millennio” (così si autodefiniscono gli studenti convenuti, i quali, tra le altre cose, non nascondono di “rifarsi ad alcuni principi del fascismo”, ma dicono con energia “certo non aspiriamo alla dittatura”). Per rendere il concetto, uno studente – sceso dal palco dove una cassa spara un rock metallaro di impossibile collocazione politica – spiega che il “recupero di idee dall’ideologia fascista riguarda soprattutto lo stato sociale, più che mai da ripristinare in un mondo squassato dalla crisi. E poi oggi noi siamo qui per una maggiore partecipazione studentesca negli organismi di governo degli atenei, e questa è una giornata di festa in vista delle elezioni universitarie”.
C’è da dire che in molti hanno preso alla lettera la parola “festa” – specie tra gli studenti dei licei giunti a dare man forte: qualcuno torna con buste piene dal vicino McDonald’s (pur con la kefiah antiamericana e anti israeliana al collo), altri bevono birra mentre parlano di vacanze al mare, altri ancora si siedono sul bordo della fontana nelle cui acque già navigano volantini mezzi affogati, triste contraltare al baldanzoso striscione “diciassette anni tutta la vita” – più da fan di Federico Moccia che da pericoloso nostalgico di Benito Mussolini, per la verità.
Chissà se ci hanno capito qualcosa i due anziani signori spagnoli che, dopo aver girovagato tra stand di magliette e manifesti tonitruanti che pubblicizzano avveniristiche spedizioni in montagna, fermano un giovane nerovestito e gli chiedono qualche informazione: è “un movimiento nacional o internacional?”. Sarà la musica di Rino Gaetano, sarà il baracchino che vende stoffe eque e solidali, saranno i panini con la mortadella d’ispirazione “festa dell’Unità a Bologna”, sarà l’aria casareccia dell’unico stand di cibarie, ma il temuto sit-in che ha sostituito, per volere delle autorità competenti e con il dispiacere di molti, l’ancor più temuta “marcia su Roma” (questo lo slogan sui primi manifesti), non ha l’aria di un’ombrosa riunione di facinorosi pronti a colpire.
Si parla per lo più di università, si dice “no” agli affitti da usura per i fuori sede, “no” al caro libri, no “alla privatizzazione” degli atenei – non fosse per le bandiere scure con il fulmine cerchiato, per le magliette con scritta “beffo la morte e ghigno”, per la grafica futurista dei manifesti, per il continuo inneggiare “all’azione” e “all’assalto del futuro”, gli slogan non sembrerebbero così diversi da quelli portati ogni autunno in strada dai rivali rossi, gli studenti della sinistra antagonista e dei centri sociali. I quali però, sentendosi in tutto e per tutto diversi dai manifestanti del Blocco studentesco-CasaPound, ieri si sono riuniti in piazza Santi Apostoli per un contro-presidio (contro la sola idea che un “fascista del terzo millennio” possa dire la sua in piazza – “la Costituzione vieta la ricostituzione del Partito fascista”, dice dal palco di Santi Apostoli un manifestante).
Che lo slogan “marcia su Roma” fosse provocatorio, con quel doppio senso sospeso tra il moderno “vogliamo marciare da piazza Esedra a piazza Venezia” e il volontario richiamo ducesco, è indubbio. Ma è indubbio pure che dire “voi del Blocco non manifestate per principio” non è certo tolleranza democratica (come hanno fatto notare anche intellettuali e politici provenienti dalla sinistra). Fatto sta che, per fortuna, tra i manifestanti del Blocco ieri abbondavano i megafoni inneggianti “alla giornata di mobilitazione pacifica” – e per fortuna nella piazza antagonista di Santi Apostoli restava isolato lo slogan “fascisti carogne tornate nelle fogne”.
«Il Foglio» del 7 maggio 2010

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