27 maggio 2010

Gran ritorno per il dandy

di Giuseppe Scaraffia
La crisi sta inaspettatamente rigenerando un mito elegante, quello del dandy. In un periodo di insicurezza come questo, in cui il futuro appare incerto, il culto per il passato del dandy, inattuale per eccellenza, non può non affascinare.
Chi si sente dandy oggi? Come nel passato tutti gli insoddisfatti di genio, coloro che si sentono limitati o traditi dalla loro definizione sociale, i delusi dalle speranze rivoluzionarie e i nostalgici di quelle reazionarie. Sono un'élite non riconosciuta, silenziosamente eversiva, metodicamente eccentrica e intenzionata a non confondersi con la borghesia, né con la bohème artistica. Sono coloro che si rifiutano di soggiacere ai miti della società di massa e preferiscono la solitudine alla resa alla banalità diffusa.
Ora che i cosiddetti eleganti hanno abdicato alla cravatta, lui può inalberarla tranquillamente in qualsiasi occasione, anche in campagna o senza giacca. Naturalmente dovrà essere sottile e sfoderata, stretta da un nodo aderente al bottone del colletto, che potrà essere solo floscio a punte arrotondate come quello di D'Annunzio o allungate come quello di Cocteau. Se ci deve essere la cintura sia una di quelle coloratissime di plastica che evitano streep-tease agli aeroporti o, se si preferiscono treni e navi, di un cuoio esausto, marezzato dagli anni. Per i suoi completi il dandy preferisce il neutro: grigio, beige, nero, bianco, sapendo, come Proust, che nulla è più frivolo della rinuncia consapevole al colore. Ma per niente al mondo si farebbe imbottire le spalle delle giacche. Il taglio che sceglierà, frutto di una lunga ricerca, sarà del tutto indipendente dalla moda. Baudelaire ad esempio aveva adottato un nero profumato di zolfo e di incenso in un periodo in cui andavano le tinte vivaci. L'essenziale, come ammonisce Balzac, è che gli indumenti non abbiano mai un'aria troppo nuova.
Permane sempre la possibilità del dandysmo démodé, adottata da Wilde all'apice del suo successo e da Proust al vertice della sua clausura. Possono allora rispuntare i pancotti a doppio petto e persino le ghette, purché portati con sublime indifferenza, come fossero una T-shirt. Se non si possono evitare le calze, che siano almeno eccentricamente a righe o di tinte squillanti, mai tenui. In alternativa una sahariana chiara, come quella celebre di Gozzano, abbottonata fino al collo. Sotto al vestito si possono portare le scarpe di corda, possibilmente come quelle di Modigliani, con i lacci intorno alla caviglia. Meglio evitare le friulane ricamate che fanno tanto Briatore. Possibili i sandali, ma quelli fatti dal calzolaio o quelli greci. Inarrivabile il modello in nappa con cinturino e occhielli ideato dal futurista Thayaht. Bisogna invece rinunciare al Panama, troppo diffuso, in favore di leggerissimo cappello di paglia di Firenze, di tinta naturale. I gemelli, sempre vintage degli anni Venti e Trenta, fanno parte dell'indispensabile rituale di rallentamento, con cui il dandy resiste all'incalzare frettoloso della modernità. Se proprio si vuole un anello che sia di scavo, come quello etrusco di Giono o semplice e bizzaro come quelli che Montesquieu portava anche sopra i guanti. In mancanza di un'epidemia che li giustifichi, i guanti traforati di cotone vanno portati solo in auto, in bici, in moto o a cavallo. Gli occhiali il dandy li trova, metallici, di tartaruga o bachelite, solo nei mercatini d'antiquariato. Incontrerà gli amici in luoghi profumati di passato: a Roma, il caffè Tadolini, un ex atelier tra una foresta di statue bianche o nel liberty Hotel Locarno. A Parigi l'intatto Café de la Paix, una reliquia del II Impero o Angelina, il miglior cioccolato di Parigi. A Londra il Café Royal o il club Athenaeum. A Milano la pasticceria Taveggia o il Cova. A Torino la Pasticceria Fiorio, frequentata da Cavour, o il Caffè Mulassano prediletto da Gozzano.
Ma essere dandy non è solo una questione di gusto, anzi è soprattutto questione di pensiero, come ci ricorda la stimolante Filosofia del dandysmo di Daniel Schiffer, in uscita il 9 giugno da Excelsior 1881 (pagg. 352, 16,50 euro), grazie a due eleganti curatori, Massimiliano Mocchia di Coggiola e l'editore Luca Federico Garavaglia. Certo il dandy è ostile alla speculazione cerebrale. Stendhal definiva le teorie dei filosofi tedeschi sapienti castelli di carta. Ma un'analoga sfiducia ci spinge in questi anni a ricavare la filosofia dal comportamento di alcune persone o categorie di persone e il dandy, l'unico in grado di tradurre l'etica in estetica, è un soggetto stimolante per un'umanità priva di modelli. Per non parlare della cura e della consapevolezza con cui si vestivano pensatori come Kierkegaard o Camus. Nato dalla morte di Dio e dall'avvento della società di massa, questa figura apparentemente superficiale si oppone alla banalizzazione dell'esistenza con una coerenza inedita.
Insomma, come diceva Baudelaire: «Che cos'è il dandy? Eterna superiorità del dandy».


L'icona John Malkovich
Il ritorno del dandysmo trova la sua icona nell'attore 57enne statunitense John Malkovich. Protagonista di film come Il tè nel deserto, Le relazioni pericolose, Essere John Malkovich, ha uno stile ricercato e sempre elegante, che mescola capi classici, stravaganti e informali. La sua passione per la moda lo ha spinto a sperimentare anche una carriera di fashion designer, realizzando una linea di abiti maschili. È di questa settimana la notizia dell'apertura di una bottega a Prato (la OpificioJim) che venderà prodotti realizzati da aziende toscane da lui firmati.

Elementi peculiari
Ovunque, anche sul campo di battaglia o nella più assoluta solitudine, il dandy ha le scarpe ben lucidate. Invece non è mai perfettamente stirato. Niente nell'abito deve essere rigido, affettato. La cravatta, spiegava George Bryan Brummell che dedicava ore all'esecuzione del nodo, deve sembrare annodata in fretta. Il dandy, secondo Pierre Drieu La Rochelle, non deve essere elegante, ma «ben malvestito». Non segue la moda ma la fa o la interpreta a modo suo. La sua tenuta è talmente perfetta da non dare nell'occhio ai profani.

Luoghi
La Londra Regency in cui si muovevano i primi dandy, le neoclassiche terme di Bath in cui si riposavano dell'ozio londinese. A Parigi il Museo d'Orsay, dove ammirare il celebre Robert de Montesquiou di Giovanni Boldini e il ritratto di Proust di Jacques-Emile Blanche. La Maison de Balzac, dove è esposto il famoso bastone incrostato di pietre preziose, dono delle sue ammiratrici. In Italia il Vittoriale di D'Annunzio, l'ultima dimora decadente, dominata da un fecondo horror vacui. A Vienna, l'American Bar, disegnato da Alfred Loos.

Abitudini e vizi
Il dandy medita a lungo sull'assortimento dei diversi capi d'abbigliamento. Colleziona scarpe in modo da averle perfettamente conciate dal tempo e dalle sue cure. Ha un eccesso di cravatte e non smette di comprarle. Come Baudelaire, tormenta con le sue puntigliose esigenze il sarto e il camiciaio, che lo ammirano e lo temono. Se fuma, usa solo portasigarette déco di bachelite, d'argento o di tartaruga. Le sue case possono essere solo troppo vuote o troppo piene. Cinico e pessimista, è in realtà un buon amico, anche se non lo ammetterebbe mai.

Letture
La Bibbia del dandy, Del dandysmo e di George Brummel (Passigli) di Jules Barbey d'Aurevilly, racconta la parabola dei primi soggetti. Pelham. Avventure di un gentiluomo (Excelsior 1881) di Edward Bulwer-Lytton evoca la formazione di un giovane dandy. Controcorrente (Mondadori) di Joris-Karl Huysmans è la storia di un dandy in fuga dal mondo, chiuso nella sua torre d'avorio. Il Dizionario del dandy (Sellerio) di Giuseppe Scaraffia è una meditazione su uno stile di vita, mentre Gli ultimi dandies (in ristampa per Sellerio) è dedicato al dandysmo del Novecento.
«Il Sole 24 Ore» del 23 maggio 2010

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